ANTIGONE
CANTO DELL’ UOMO
CORO
Molte ha la vita forze
tremende; eppure più dell’uomo nulla, vedi, è tremendo.
Va sul mare canuto
nell’umido aspro vento,
solcando turgidezze che s’affondano
in gorghi sonori.
E la suprema fra gli dèi, la Terra,
d’anno in anno affatica egli d’aratri
sovvertitori e di cavalli preme
tutta sommovendola.
E la famiglia lieve
degli uccelli sereni insidia, insegue
come le stirpi
ferine, come il popolo
subacqueo del mare,
scaltro, spiegando le sue reti, l’uomo:
e vince, con frodi,
vaghe pei monti le fiere del bosco:
stringe nel giogo, folta di criniera
la nuca del cavallo e il toro piega
montano, infaticabile.
Diede a sé la parola
il pensiero ch’è come il vento, il vivere
civile, e i modi
d’evitare gli assalti
dei cieli aperti e l’umide tempeste
nell’inospite gelo, a tutto armato
l’uomo: che nulla inerme
attende dal futuro. Ade soltanto
non saprà mai fuggire,
se pur medita sempre
nuovi rifugi a non domati mali.
Con ingegno che supera
sempre l’immaginabile, ad ogni arte
vigile, industre,
egli si volge al male
ora, ora al bene. Se le leggi osserva
della sua terra e la fede giurata
agli dèi di sua gente,
sé con la patria esalta; un senza-patria
è chi s’accosta, per sua folle audacia,
al male. E non mi sieda mai vicino,
al focolare, e in nulla abbia comuni
suoi pensieri coi miei
chi così vive ed opera.
Sofocle, Antigone, vv. 332-375
Quando rileggo parole come queste, penso che i grandi tragici greci abbiano scritto tutto quello che c'era da scrivere, come se non ci fosse più nulla da inventare sull'animo umano. Buona serata. Percival
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