lunedì 24 marzo 2003


ANTIGONE



CANTO DELL’ UOMO

 



CORO



Molte ha la vita forze



tremende; eppure più dell’uomo nulla, vedi, è tremendo.



Va sul mare canuto



nell’umido aspro vento,



solcando turgidezze che s’affondano



in gorghi sonori.



E la suprema fra gli dèi, la Terra,



d’anno in anno affatica egli d’aratri



sovvertitori e di cavalli preme



tutta sommovendola.



 



E la famiglia lieve



degli uccelli sereni insidia, insegue



come le stirpi



ferine, come il popolo



subacqueo del mare,



scaltro, spiegando le sue reti, l’uomo:



e vince, con frodi,



vaghe pei monti le fiere del bosco:



stringe nel giogo, folta di criniera



la nuca del cavallo e il toro piega



montano, infaticabile.



 



Diede a sé la parola



il pensiero ch’è come il vento, il vivere



civile, e i modi



d’evitare gli assalti



dei cieli aperti e l’umide tempeste



nell’inospite gelo, a tutto armato



l’uomo: che nulla inerme



attende dal futuro. Ade soltanto



non saprà mai fuggire,



se pur medita sempre



nuovi rifugi a non domati mali.



 



Con ingegno che supera



sempre l’immaginabile, ad ogni arte



vigile, industre,



egli si volge al male



ora, ora al bene. Se le leggi osserva



della sua terra e la fede giurata



agli dèi di sua gente,



sé con la patria esalta; un senza-patria



è chi s’accosta, per sua folle audacia,



al male. E non mi sieda mai vicino,



al focolare, e in nulla abbia comuni



suoi pensieri coi miei



chi così vive ed opera.



Sofocle, Antigone, vv. 332-375



 

1 commento:

  1. Quando rileggo parole come queste, penso che i grandi tragici greci abbiano scritto tutto quello che c'era da scrivere, come se non ci fosse più nulla da inventare sull'animo umano. Buona serata. Percival

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