AHIMSA. Parola sanscrita che ho imparato da Gandhi. Vuol dire "innocenza" e "non violenza","impegno a non nuocere ad alcun essere vivente". AHIMSA. I miei obiettivi sono la ricerca, la conoscenza, la comunicazione e la condivisione di emozioni, idee, informazioni con altre "persone che cercano". L'altro mio blog è CONVIVIUM, il posto del banchetto.
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lunedì 4 agosto 2014
Opinioni di un professore
Ecco perché le accuse di autoritarismo al premier
Così, nel corso degli anni, l'Italia ha
cambiato forma istituzionale e costituzionale. A metà fra
presidenzialismo e premierato. Fra accentramento e federalismo. Senza
disegni né riforme di sistema. Di fatto. Inseguendo emergenze continue e
in-finite. Reagendo a spinte particolari e faziose. Chi accusa Renzi,
oggi, di stravolgere la Costituzione dimentica, dunque, che ciò è già
avvenuto. Da tempo. Almeno da vent'anni. E da vent'anni siamo divenuti
una Repubblica "preterintenzionale". Dove vige una democrazia ibrida, a
metà fra personalizzazione ultrà e partecipazione diretta. Fra
leaderismo e rete. Fra Tv e Web. A Renzi, semmai, si dovrebbe imputare
di non avere inventato nulla. E di non avere l'intenzione di farlo.
Cioè, di non essere interessato tanto a dare senso al caos, pardon, al
"caso" istituzionale, che (s) regola il Paese. Ma, semmai, di
assecondarlo. Selettivamente. Accentuando e rafforzando gli aspetti più
coerenti con i suoi interessi. E con la sua vocazione di Leader del PdR.
Alla guida
di un governo personale e di una democrazia per caso.
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domenica 6 aprile 2014
renzini vs Rodotà
03/04/2014
Voleva abolire il Senato e critica Renzi
Verità e bugie sugli attacchi a Rodotà
Il costituzionalista Ceccanti ripesca una proposta di legge del 1985. E piovono accuse di ipocrisia.
Ma il testo aveva fini opposti rispetto a quelli del premier
ANSA
Il giurista Stefano Rodotà
Il giurista Stefano Rodotà
di Giuseppe Salvaggiulo
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Dunque Stefano Rodotà sarebbe stato beccato con le mani nella marmellata costituzionale. Il costituzionalista del Pd Stefano Ceccanti ha scovato e rilanciato su twitter una vecchia proposta di legge datata 1985 e firmata tra gli altri da Rodotà (all’epoca deputato eletto come indipendente nel Pci) per «sostituire il vigente bicameralismo paritario con il monocameralismo puro». L’argomento legittimamente malizioso è semplice: avendo in questi giorni firmato appelli contro la riforma Renzi che vuole per l’appunto abolire il bicameralismo, Rodotà si contraddice con se stesso (sia pure dopo 29 anni). Inevitabili le polemiche, gli attacchi, le irrisioni e i dileggi nei confronti di colui che «Il Foglio», sostenitore della riforma Renzi, definisce «il capo del partito dei parrucconi», stigmatizzando anche il fatto che si esprima sulle riforme costituzionali, lui che non è nemmeno costituzionalista (infatti è solo professore emerito di diritto civile alla Sapienza, la cattedra più prestigiosa e ambita dai giuristi italiani, il che per il quotidiano di Ferrara equivale ad avere «zero tituli»).
Qualunque idea si abbia su Renzi, su Rodotà e sulle rispettive proposte, è bene chiarire i termini della vicenda ponendosi una domanda semplice: la riforma Renzi del 2014 è uguale, nella sostanza e negli effetti, a quella Rodotà del 1985? E quindi, il «capo dei parrucconi» si contraddice, rinnega se stesso, sacrifica l’onestà intellettuale all’ipocrita posizionamento politico?
Due sono le analogie tra il Rodotà del 1985 e il Renzi del 2014: superamento del bicameralismo puro previsto dalla Costituzione del 1948 e riduzione del numero dei parlamentari eletti. Analogie, non identità perché Rodotà è più renziano di Renzi: abolisce il Senato tout court (il premier delinea invece una soluzione spuria, trasformandolo in assise di sindaci, governatori ed esponenti civici nominati dal presidente della Repubblica) e riduce, a differenza di Renzi, anche il numero di deputati della residua Camera elettiva da 630 a 500.
Radicale la critica alle disfunzioni del bicameralismo puro. Spiegava allora il professore che due Camere gemelle riducono l’efficienza della produzione normativa, diventando solo casse di risonanza di «microinteressi» capaci per lo più di «reiterazione defatigante e distorcente del procedimento legislativo» per frenare le riforme con «tendenze conservatrici». Pare di sentire il premier rottamatore. Del resto, sia nell’appello di Libertà e Giustizia che nell’intervista al Fatto Quotidiano, il Rodotà del 2014 non contesta l’abolizione del Senato in sé (del resto già nell’assemblea costituente erano per il monocameralismo comunisti e socialisti), ma nell’attuale contesto politico e istituzionale. E qui emergono le differenze.
Prima differenza. Una lettura meno superficiale del testo del 1985 fa capire che quei parlamentari della Sinistra Indipendente (Ferrara, Rodotà, Bassanini...) vogliono il monocameralismo innanzitutto per rafforzare il Parlamento («un’unica istanza rilegittimata») nel rapporto dialettico del governo (di cui si intendeva limitare il potere di decretazione d’urgenza), mentre la riforma Renzi combinata con l’Italicum rafforza il governo contro il Parlamento (già abbondantemente indebolito: i regolamenti parlamentari sono molto più favorevoli di un tempo all’esecutivo e ormai da anni si legifera quasi solo con decreto).
Seconda. Come contrappeso alla eliminazione di un ramo del Parlamento, Rodotà nel 1985 propone l’introduzione del referendum propositivo. Di questo nel progetto Renzi non si parla.
Terza. Il Rodotà del 1985 vuole modificare l’articolo 138 sulle procedure di revisione costituzionale «con motivazioni e finalità garantistiche», per rendere più difficile alla maggioranza dell’unica Camera disporre della Carta fondamentale. Nessuna preoccupazione di questo tipo nel testo di Renzi.
Quarta. La proposta Rodotà del 1985 introduce sull’esempio francese e spagnolo una nuova categoria di leggi, dette «organiche» perché incidono su principi e diritti fondamentali (il catalogo è ampio: dalle libertà fondamentali ai sistemi elettorali, dalle confessioni religiose alla giustizia...). Per queste leggi, collocate a un rango «quasi costituzionale», viene prevista una procedura di approvazione rafforzata, per garantire il Parlamento dall’egemonia del governo e i cittadini dallo strapotere della maggioranza parlamentare. Niente decreti legge, niente leggi delega. Obbligo di maggioranza assoluta dei componenti della Camera per l’approvazione. Ancora un’esplicita previsione per limitare il governo. Tutto ciò manca nella riforma Renzi, che rimette tutta la legislazione alla maggioranza parlamentare, senza alcun contrappeso. La logica è opposta.
Quarta bis. E che maggioranza! Il Rodotà del 1985 si muove all’interno di un impianto costituzionale fondato sulla rappresentanza proporzionale (tanti voti, tanti seggi) e su parlamentari prima selezionati da solidi partiti pluralisti, poi scelti dal corpo elettorale con le preferenze, il che li dotava di un certo tasso di autonomia. Un partito del 49 per cento non poteva approvare da solo le leggi, scegliere i presidenti delle Camere e della Repubblica, istituire commissioni d’inchiesta, designare gli organi di garanzia... Inoltre la forma di governo era rigorosamente parlamentare: il governo nasceva in Parlamento e dal voto di fiducia traeva la sua unica legittimazione. Oggi i sistemi elettorali (Porcellum o Italicum, da questo punto di vista, pari sono) garantiscono a partiti con la metà dei voti della Dc o del Pci una maggioranza assoluta in Parlamento e hanno modificato sostanzialmente la forma di governo: il premier ha una legittimazione elettorale sostanzialmente diretta dal popolo, il voto di fiducia del Parlamento è un atto dovuto. Inoltre è cambiato lo status dei parlamentari: non sono legittimati dal consenso personale, ma dalla nomina del capopartito (anche i partiti sono meno democratici di trent’anni fa: alcuni a guida personale, altri come il Pd comunque a connotazione leaderistica, basti pensare al sistema con cui si eleggono gli organi direttivi). I deputati sono meno autonomi nei confronti del governo e del partito: dalla disciplina dipende la ricandidatura. L’importanza di questa differenza di impostazione culturale è testimoniata dal fatto che il testo Rodotà del 1985, pur in un contesto proporzionalista e fondato sulla centralità del Parlamento, vuole «costituzionalizzare» (oggi diremmo «blindare») il principio proporzionale, scelta «imposta dal monocameralismo e dalla riduzione dei parlamentari» proprio per evitare dittature della maggioranza.
Quinta differenza. Rodotà ha posto con Zagrebelsky e gli altri «parrucconi» una questione che è insieme giuridica e politica. Il Parlamento del 1985, eletto con una legge proporzionale con le preferenze conforme a Costituzione, era legittimato a cambiare la Carta fondamentale: rappresentava fedelmente «la nazione». Il Parlamento del 2014 è stato eletto con una legge elettorale anticostituzionale sia per l'abnorme premio di seggi (la maggioranza parlamentare è una minoranza tra i cittadini) che per l’inconoscibilità dei candidati agli occhi degli elettori, causata dalle liste bloccate. I partiti che hanno nominato gli attuali «padri ricostituenti» sono in gran parte fuori dal «metodo democratico» previsto dall’articolo 49 della Carta. Siffatto Parlamento è legittimato a prefigurare un nuovo sistema costituzionale in cui minoranze popolari trasformate artificialmente in maggioranze parlamentari siano dotate di poteri largamente superiori a quelli che la Costituzione (e il Rodotà del 1985) riconoscevano a solide maggioranze popolari?
Qualunque idea si abbia su Renzi, su Rodotà e sulle rispettive proposte, è bene chiarire i termini della vicenda ponendosi una domanda semplice: la riforma Renzi del 2014 è uguale, nella sostanza e negli effetti, a quella Rodotà del 1985? E quindi, il «capo dei parrucconi» si contraddice, rinnega se stesso, sacrifica l’onestà intellettuale all’ipocrita posizionamento politico?
Due sono le analogie tra il Rodotà del 1985 e il Renzi del 2014: superamento del bicameralismo puro previsto dalla Costituzione del 1948 e riduzione del numero dei parlamentari eletti. Analogie, non identità perché Rodotà è più renziano di Renzi: abolisce il Senato tout court (il premier delinea invece una soluzione spuria, trasformandolo in assise di sindaci, governatori ed esponenti civici nominati dal presidente della Repubblica) e riduce, a differenza di Renzi, anche il numero di deputati della residua Camera elettiva da 630 a 500.
Radicale la critica alle disfunzioni del bicameralismo puro. Spiegava allora il professore che due Camere gemelle riducono l’efficienza della produzione normativa, diventando solo casse di risonanza di «microinteressi» capaci per lo più di «reiterazione defatigante e distorcente del procedimento legislativo» per frenare le riforme con «tendenze conservatrici». Pare di sentire il premier rottamatore. Del resto, sia nell’appello di Libertà e Giustizia che nell’intervista al Fatto Quotidiano, il Rodotà del 2014 non contesta l’abolizione del Senato in sé (del resto già nell’assemblea costituente erano per il monocameralismo comunisti e socialisti), ma nell’attuale contesto politico e istituzionale. E qui emergono le differenze.
Prima differenza. Una lettura meno superficiale del testo del 1985 fa capire che quei parlamentari della Sinistra Indipendente (Ferrara, Rodotà, Bassanini...) vogliono il monocameralismo innanzitutto per rafforzare il Parlamento («un’unica istanza rilegittimata») nel rapporto dialettico del governo (di cui si intendeva limitare il potere di decretazione d’urgenza), mentre la riforma Renzi combinata con l’Italicum rafforza il governo contro il Parlamento (già abbondantemente indebolito: i regolamenti parlamentari sono molto più favorevoli di un tempo all’esecutivo e ormai da anni si legifera quasi solo con decreto).
Seconda. Come contrappeso alla eliminazione di un ramo del Parlamento, Rodotà nel 1985 propone l’introduzione del referendum propositivo. Di questo nel progetto Renzi non si parla.
Terza. Il Rodotà del 1985 vuole modificare l’articolo 138 sulle procedure di revisione costituzionale «con motivazioni e finalità garantistiche», per rendere più difficile alla maggioranza dell’unica Camera disporre della Carta fondamentale. Nessuna preoccupazione di questo tipo nel testo di Renzi.
Quarta. La proposta Rodotà del 1985 introduce sull’esempio francese e spagnolo una nuova categoria di leggi, dette «organiche» perché incidono su principi e diritti fondamentali (il catalogo è ampio: dalle libertà fondamentali ai sistemi elettorali, dalle confessioni religiose alla giustizia...). Per queste leggi, collocate a un rango «quasi costituzionale», viene prevista una procedura di approvazione rafforzata, per garantire il Parlamento dall’egemonia del governo e i cittadini dallo strapotere della maggioranza parlamentare. Niente decreti legge, niente leggi delega. Obbligo di maggioranza assoluta dei componenti della Camera per l’approvazione. Ancora un’esplicita previsione per limitare il governo. Tutto ciò manca nella riforma Renzi, che rimette tutta la legislazione alla maggioranza parlamentare, senza alcun contrappeso. La logica è opposta.
Quarta bis. E che maggioranza! Il Rodotà del 1985 si muove all’interno di un impianto costituzionale fondato sulla rappresentanza proporzionale (tanti voti, tanti seggi) e su parlamentari prima selezionati da solidi partiti pluralisti, poi scelti dal corpo elettorale con le preferenze, il che li dotava di un certo tasso di autonomia. Un partito del 49 per cento non poteva approvare da solo le leggi, scegliere i presidenti delle Camere e della Repubblica, istituire commissioni d’inchiesta, designare gli organi di garanzia... Inoltre la forma di governo era rigorosamente parlamentare: il governo nasceva in Parlamento e dal voto di fiducia traeva la sua unica legittimazione. Oggi i sistemi elettorali (Porcellum o Italicum, da questo punto di vista, pari sono) garantiscono a partiti con la metà dei voti della Dc o del Pci una maggioranza assoluta in Parlamento e hanno modificato sostanzialmente la forma di governo: il premier ha una legittimazione elettorale sostanzialmente diretta dal popolo, il voto di fiducia del Parlamento è un atto dovuto. Inoltre è cambiato lo status dei parlamentari: non sono legittimati dal consenso personale, ma dalla nomina del capopartito (anche i partiti sono meno democratici di trent’anni fa: alcuni a guida personale, altri come il Pd comunque a connotazione leaderistica, basti pensare al sistema con cui si eleggono gli organi direttivi). I deputati sono meno autonomi nei confronti del governo e del partito: dalla disciplina dipende la ricandidatura. L’importanza di questa differenza di impostazione culturale è testimoniata dal fatto che il testo Rodotà del 1985, pur in un contesto proporzionalista e fondato sulla centralità del Parlamento, vuole «costituzionalizzare» (oggi diremmo «blindare») il principio proporzionale, scelta «imposta dal monocameralismo e dalla riduzione dei parlamentari» proprio per evitare dittature della maggioranza.
Quinta differenza. Rodotà ha posto con Zagrebelsky e gli altri «parrucconi» una questione che è insieme giuridica e politica. Il Parlamento del 1985, eletto con una legge proporzionale con le preferenze conforme a Costituzione, era legittimato a cambiare la Carta fondamentale: rappresentava fedelmente «la nazione». Il Parlamento del 2014 è stato eletto con una legge elettorale anticostituzionale sia per l'abnorme premio di seggi (la maggioranza parlamentare è una minoranza tra i cittadini) che per l’inconoscibilità dei candidati agli occhi degli elettori, causata dalle liste bloccate. I partiti che hanno nominato gli attuali «padri ricostituenti» sono in gran parte fuori dal «metodo democratico» previsto dall’articolo 49 della Carta. Siffatto Parlamento è legittimato a prefigurare un nuovo sistema costituzionale in cui minoranze popolari trasformate artificialmente in maggioranze parlamentari siano dotate di poteri largamente superiori a quelli che la Costituzione (e il Rodotà del 1985) riconoscevano a solide maggioranze popolari?
martedì 4 marzo 2014
Renzi: il potere e il tradimento

Allegoria della Menzogna
È fatale: una volta che hai scelto Tony Blair come modello, per forza approdi al tradimento. Tradimento della sinistra e dell’Europa che pretendi risuscitare, tradimento di promesse fatte nelle primarie o nei congressi. Non dimentichiamo il nomignolo che fu dato al leader laburista, negli anni della guerra in Iraq: lo chiamarono il «poodle di Bush jr», il barboncino-lacchè sempre scodinzolante davanti alla finte vittorie annunciate dal boss d’oltre Atlantico. Non dimentichiamo, noi che ci siamo imbarcati nel bastimento della Lista Tsipras, come Blair lavorò, di lena, per distruggere il poco di unione europea che esisteva e il poco che si voleva cambiare. Fu lui a non volere che i Trattato di Lisbona divenisse una vera Costituzione, di quelle che cominciano, come la Carta degli Stati Uniti, con le parole: «Noi, il popolo….». Fu lui che si oppose a ogni piano di maggiore solidarietà dell’Unione, e rifiutò ogni progetto di un’Europa politica, che controbilanciasse il potere solo economico esercitato dai mercati e in modo speciale dalla city.
Renzi è consapevole di queste cose, o parla di Blair tanto per parlare? E il ministro degli Esteri Mogherini in che cosa è meglio di Emma Bonino, che al federalismo europeo ha dedicato una vita e possiede una vera competenza? Federica Mogherini ha concentrato i suoi interessi sulla Nato innanzitutto, e poi sull’Europa. Chissà se è consapevole della degradazione dell’Alleanza atlantica, nei catastrofici dodici anni di guerra antiterrorista. Ma ancor più inquietante è la rinuncia, in extremis, a Nicola Gratteri ministro della Giustizia. Questo sì sarebbe stato un segnale di svolta. La sua battaglia contro il malcostume politico e le mafie è la risposta più seria che l’Italia possa dare ai rapporti dell’Unione che ci definiscono il paese più corrotto d’Europa.
Non è ancora chiaro chi abbia lavorato contro la nomina di Gratteri. Forse il Quirinale, per fedeltà alle Larghe intese; di certo le destre di Alfano e Berlusconi, con il quale Renzi vuol negoziare le riforme della Costituzione. È stato detto che non è bene che un pm diventi guardasigilli. Anche qui, la rimozione e l’oblio regnano indisturbati: nel 2011, il Quirinale firmò la nomina del magistrato di Forza Italia Nitto Palma, vicino al Premier Berlusconi e Cosentino. Evidentemente quel che valeva per Nitto Palma è tabù per Gratteri. Il veto al suo nome è ad personam, e accoglie la richiesta della destra di avere un ministro «garantista» (garantista degli imputati di corruzione, di voto di scambio, di frode fiscale, ecc). Al suo posto è stato scelto un uomo di apparato, Andrea Orlando, che solo da poco tempo si occupa di giustizia, che ha fatto la sua scalata prima nel Pci, poi nel Pds, poi nei Ds, poi nel Pd. Nel governo Letta era ministro dell’Ambiente. Auspica – in profonda sintonia con Berlusconi – la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale e la separazione delle carriere dei magistrati.
Infine il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan. Recentemente ha preconizzato l’allentamento delle politiche di austerità, che aveva difeso per anni. Non ha neppure escluso l’utilità di una patrimoniale. Ma di questi tempi tutti, a parole, sono contro l’austerità. Vedremo cosa Padoan proporrà in Europa: come passerà – se passerà – dalle parole agli atti. Al momento non vedo discontinuità tra lui e Fabrizio Saccomanni. Naturalmente può darsi che Renzi farà qualcosa di utile per l’Italia: prima di tutto su lavoro e fisco. Non mi aspetto niente di speciale sull’Europa, per i motivi che ho citato prima.
Non credo nemmeno che creda in quel che è andato dicendo per mesi: «Niente più Larghe Intese!», o «Mai a Palazzo Chigi senza un passaggio elettorale». Altrimenti non avrebbe guastato tante parole nel giro di poche ore, giusto per andare a Palazzo Chigi e presentarsi – terzo Premier nominato – in un Parlamento di nominati.
di Barbara Spinelli
MicroMega da ListaTsipras.eu
immagine: Allegoria della MENZOGNA
Rosa Salvatore_La Menzogna_XVII sec._Firenze_Palazzo Pitti - foto trovata in rete - purtroppo non ho conservato il SITO, comunque sono qui.
giovedì 25 ottobre 2012
Rottamazione e rottamatori
La mala rottamazione - micromega-online - micromega
di Barbara Spinellio o
da LEG - LA REPUBBLICA 24 ottobre 2012
di Barbara Spinellio o
da LEG - LA REPUBBLICA 24 ottobre 2012
ROTTAMAZIONE,
dice il vocabolario, è l’azione che si compie quando si demoliscono oggetti
fuori uso: specie automobili. Vengono triturati, per riutilizzare le parti
metalliche. A volte, ottieni sconti sulla nuova vettura.
Applicata alle persone
e al ricambio di dirigenti politici, è una delle parole più maleducate e
violente che esistano oggi in Italia. I rottamatori sono fieri di chiamarsi
così, e quando l’operazione riesce esibiscono le spoglie del vinto: «La
rottamazione comincia a produrre i primi frutti», ripeteva Matteo Renzi,
domenica in un’intervista in tv.
La lotta per l’avvicendamento ai vertici della
politica ha sue ragioni, e lo stile brutale risponde a un’ansia, enorme e
autentica, di cambiamento: si vorrebbe azzerare l’esistente, e come nella
poesia di Rimbaud ci si professa «assolutamente moderni».
È un conflitto
legittimo, anche necessario: che va portato alla luce perché nell’ombra
degenera o ammutolisce. È il grande merito del sindaco di Firenze, come di
Grillo. Impressionante è la campagna di quest’ultimo in Sicilia: lunga,
martellante, è rifiuto del mutismo. Da due settimane è nell’isola; nessuno
s’era messo per tanto tempo in ascolto delle sue collere. Ma la parola
rottamazione, anche se Renzi intende cambiamento, resta ustionante e parecchi
la prendono alla lettera. L’avversario – rivale è trattato alla stregua di
arnese metallico. Se l’idea della rottamazione non avesse alle spalle una
storia lunga, di degradazione della persona a oggetto servibile, non
susciterebbe tanto disagio. Non sveglierebbe fantasie di uomini «di troppo», di
rottami. Forse chi la usa (non solo il sindaco di Firenze) non se ne rende
conto, ma il termine alligna nelle terre della pubblicità ed è lessico della
generazione Berlusconi.
È nato con lui, con le sue disinvolture
verbali. Non ingentilisce ma corrompe il discorso pubblico. È figlio della
rivoluzione non solo politica ma linguistica, di stile, che Berlusconi inaugurò
nel ‘94. Fu una rivoluzione della noncuranza, del «tutto è permesso»: non
badava alle conseguenze di quel che veniva detto, ai tabù infranti.
È una parola del tutto anomala, inoltre. In
Europa o America, nessun politico che magnifichi il Nuovo oserebbe condurre una
campagna in cui gli anziani, i seniores, vengano definiti ferrivecchi.
Nell’aprile 2002, quando il socialista Jospin alluse all’età del rivale Chirac,
i sondaggi lo punirono, screditandolo. Aveva avuto l’impudenza e l’imprudenza
di dire che il Presidente era «affaticato, invecchiato, vittima dell’usura».
Gli elettori non amavano Chirac, ma la mancanza di gentile rispetto
dell’anzianità, in Jospin, fu ritenuta intollerabile.
Una cosa è attaccare la linea dell’avversario:
soffermandosi su di essa, senza censure. Altra cosa è assalire la persona.Se rottamazione scomparisse dal vocabolario giornalistico e politico non sarebbe male. Conterebbe più la sostanza: l’errore di Veltroni, quando affondò l’ultimo governo Prodi annunciando che il Pd, rompendo le catene della sinistra radicale, sarebbe «corso da solo» (come se non fosse stato il centro a silurare Prodi). O si potrebbe raccontare D’Alema: il suo rapporto sprezzante con giornalisti e magistrati, i piaceri che fece a Berlusconi, i dispiaceri che procurò a Prodi, l’influenza eccessiva esercitata su Bersani.
Ci dedicheremmo a quel che Renzi vuol dire, e alla fiducia che riscuote in persone di prestigio come Pietro Ichino (nota mia personale: Ichino, infatti, quell'Ichino).
Rottamazione è un cartello stradale che depista: non dice quel che promette, né sull’Europa né sulla corruzione né sulla ‘ndrangheta che ci assilla.
Vale la pena ripercorrere la storia di questo vocabolo, tanto più cruento in un paese fragile: dopo la Germania, siamo il popolo che più invecchia in Europa. Vale la pena tener viva la memoria, perché lo sgarbo non è episodico ma ha radici in una sistematica denigrazione dei più anziani: nei luoghi di lavoro e nella politica.
Il Parlamento si era appena insediato, nel ‘94, e fu subito offensiva contro un senior come Norberto Bobbio. Eletto alla Camera alta, Franco Zeffirelli giubilò: la Seconda repubblica aveva spazzato via «la triste sfilata dei senatori a vita, uno più cadaverico dell’altro, una vecchia Italia che non vogliamo più e che si è seppellita da sola». Facendogli eco, Maurizio Gasparri diceva di Indro Montanelli: «Quello è arrivato al tramonto della vita e anche delle capacità intellettuali del suo cervello»
L’offensiva rottamatrice proseguì, più feroce, nel 2006-2008. Ricordiamo gli improperi riversati su Rita Levi Montalcini, e sulla sua tenace presenza in Senato per sostenere il governo di centro sinistra. Sul Giornale del 14-7-07, Paolo Guzzanti parlò di vecchi «scongelati, inchiavardati allo scranno e costretti a pigiare col ditino il pulsante guidato da una senatrice badante». Storace promise «un bel paio di stampelle da consegnare a domicilio. Si comincia dalla senatrice a vita Levi Montalcini ». Su Libero, diretto da Vittorio Feltri, apparve il titolo d’apertura: «La dittatura dei pannoloni».
Siamo dunque lontani dal vero, quando
scriviamo che Berlusconi è finito, e con lui il lessico d’insulti della Lega.
Il loro modo d’essere e di dire sgocciola come da una flebo nelle vene di
un’intera generazione. È il suo marchio, così come le parole del ’68 intrisero
due generazioni. I francesi faticano ancor oggi a uscire dalla generazione
Mitterrand.
Faticheremo anche noi, più di quel che si
dica.
Il cambiamento è altra cosa.
È la crisi non come decadenza ma trasformazione: un desiderio che Renzi intuisce, e vuol incarnare. È un conflitto ineluttabile: fra ieri, oggi, domani. È un progetto diverso di crescita, non nuovo tra l’altro, se già nel 1987 il rapporto Brundtland scriveva: «Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni». È un orizzonte dato a giovani cui non si può dire, come il ministro Fornero: «Siete troppo choosy! » («schizzinosi » è mal tradotto, cancella il furto della scelta). E che volto devono avere le nostre città, i nostri pubblici spazi e servizi? Come congegnare pensioni che non tramutino gli anziani in gente bandita o – abbondano anche qui truci aggettivi – in esuberi o esodati?
Dai tempi dei Viceré e del Gattopardo sappiamo
che cambiar facce non basta alle Grandi Trasformazioni.
Rottamazione oltre che
parola è diseducativa, non prepara alcunché. Alla sua insegna non può svolgersi
dibattito fra candidati alla guida del Paese. Eppure di discussioni dirette c’è
bisogno: per districarsi da soli, senza mediatori nei giornali o in Tv. Nelle
primarie americane e francesi è la norma, sebbene scabrosa.
Il rottamatore di
professione, presente ovunque nei partiti, ti fruga, alla ricerca degli istinti
più bassi, delle passioni più tristi. Viene in mente il Viaggio agli inferni
del secolo di Buzzati: nei sotterranei milanesi, sotto la metro, c’è un mondo
parallelo in cui i vecchi, inservibili, sono scaraventati dalle finestre nei
marciapiedi. Entrümpelung, parola che Buzzati prende dal lessico nazista,
significa repulisti, sgombero: è una variante dell’igienica rottamazione.
Anche
quel repulisti viene celebrato come «festa della giovinezza, della rinascita,
della speranza», del Mondo Nuovo.
Accade così che il diverso appaia come uomo
di troppo: povero o vecchio, esodato o immigrato. Sono i disastri del moderno,
non del barbarico.
Una volta che te la prendi con classi d’età, quindi con la
biologia, entri nella logica del capro espiatorio, dell’innocente che paga per
il collettivo. Il rito è la ripetizione di un primo linciaggio spontaneo,
secondo René Girard, che riporta ordine in seno alla comunità. Nel linciaggio,
la violenza di tutti contro tutti sfocia in violenza di tutti contro uno.
Sarebbe bello se a dirlo, con voce non bassa, fossero anche i giovani.
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