Visualizzazione post con etichetta etica - morale. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta etica - morale. Mostra tutti i post

martedì 4 ottobre 2011


 e intanto esiste un universo

 

Nobel per la Fisica 2011
NASA, via Agence France-Presse - Getty Images

An exploding star known as Type 1a supernova. The Nobel prize winners used them to measure the expansion of the universe.  (
New York Times October 4, 2011) 
 



Uno sguardo ogni tanto può senz'altro ridimensionarci e aprirci gli occhi della mente offuscati dalle claustrofobiche strettoie di obiettivi senza valore e spesso sostanzialmente criminali.




 

lunedì 18 aprile 2011


La lettera del Presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano, 
al Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Michele Vietti  



Patriae Amor

 



"Il prossimo 9 maggio si celebrerà al Quirinale il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice. Quest'anno, il nostro omaggio sarà reso in particolare ai servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la loro lealtà alle istituzioni repubblicane. Tra loro, si collocano in primo luogo i dieci magistrati che, per difendere la legalità democratica, sono caduti per mano delle Brigate Rosse e di altre formazioni terroristiche. Le sarò perciò grato se - a mio nome - vorrà invitare alla cerimonia i famigliari dei magistrati uccisi e, assieme, i presidenti e i procuratori generali delle Corti di Appello di Genova, Milano, Salerno e Roma, vertici distrettuali degli uffici presso i quali prestavano la loro opera
 



Emilio Alessandrini
Mario Amato
Fedele Calvosa
Francesco Coco
Guido Galli
Nicola Giacumbi
Girolamo Minervini
Vittorio Occorsio
Riccardo Palma
Girolamo Tartaglione




La scelta che oggi annunciamo per il prossimo Giorno della Memoria costituisce anche una risposta all'ignobile provocazione del manifesto affisso nei giorni scorsi a Milano con la sigla di una cosiddetta "Associazione dalla parte della democrazia", per dichiarata iniziativa di un candidato alle imminenti elezioni comunali nel capoluogo lombardo. Quel manifesto rappresenta, infatti, innanzitutto una intollerabile offesa alla memoria di tutte le vittime delle BR, magistrati e non. Essa indica, inoltre, come nelle contrapposizioni politiche ed elettorali, e in particolare nelle polemiche sull' amministrazione della giustizia, si stia toccando il limite oltre il quale possono insorgere le più pericolose esasperazioni e degenerazioni. Di qui il mio costante richiamo al senso della misura e della responsabilità da parte di tutti".



18 aprile 2011

*



Leggo questa lettera come baluardo dello Stato in difesa del popolo italiano, in memoria delle vittime dei terroristi, per la giustizia e la dignità del vivere civile nella nostra patria.
 

domenica 13 febbraio 2011



se non ora quando


ORA
insieme
in molti luoghi d'Italia e del mondo
per la libertà di scelta e il rispetto della persona






 

 

 

*



a VENEZIA 13 febbraio, ore 10.30-ore 12.30  - Campo San Barnaba (vicino a Campo Santa Margherita) - letture, interventi teatrali, musica : per informazioni e adesioni - http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages

venerdì 4 febbraio 2011


Perversione della verità nei sotterranei di Arcore
di Benedetta Tobagi


Klimt_Nuda Veritas_1899
 



La parola "perversione" continua a frullarmi in testa, come il basso continuo di una società in cui sfruttamento e manipolazione del prossimo proliferano ben oltre i sotterranei di Arcore. I festini a luci rosse che riempiono da settimane le cronache non hanno nulla di giocosamente licenzioso, presentano piuttosto i caratteri della perversione sessuale: serialità, ripetizione ossessiva di un copione, ricorso a travestimenti e messinscena, la riduzione della donna a un feticcio anonimo, stereotipato, sostituibile. Nelle grandi aziende avvelenate dal mobbing, nel mondo dei grandi speculatori come nei dipartimenti universitari, ovunque si sono affermate forme di perversione morale, qualitativamente diversa da quella sessuale, e ancor più grave: un'epidemia di atti e comportamenti disumanizzanti (dunque: perversi) che innescano a cascata una corruzione contagiosa. Molte giovani donne degradate a oggetti trattano a loro volta i vecchi pervertiti come macchine sputasoldi e se stesse come merce di scambio. Come fanno, d'altro canto, anche gli "onorevoli" sedicenti "responsabili".

Manipolare le persone a proprio uso e consumo, ridurre i rapporti a transazioni, le persone a merce o strumento: oggi sembra una costante. Chi ha la pazienza di addentrarsi nelle riflessioni di psichiatri e psicologi (segnalo Il genio delle origini di Racamier e Molestie morali di Hirigoyen) troverà pagine illuminanti. La perversione morale (o narcisistica) scaturisce dal bisogno di affermare se stessi a spese di altri: il perverso ha bisogno di un pubblico e di "prede", che tratta non come esseri umani, ma come utensili. Tratti tipici del perverso? Indifferenza verso l'altro, aggressività, manipolazione, sfruttamento, denigrazione, distruttività. La perversione morale va a braccetto col cinismo, con cui giustifica se stessa: non esiste nulla di buono e nobile, niente vale, tutto ha un prezzo. La perversione avvelena i pozzi, lavorando su debolezze profonde e molto comuni: dall'insicurezza, alla paura, al bisogno di affermazione personale. I perversi hanno un vero talento a tirar fuori il peggio dagli altri. Sfruttano le inclinazioni segrete, gli antagonismi latenti, somministrando piccoli o grandi vantaggi materiali. Con un mix di prebende, ricatti e sentimenti inconfessabili, saldano rapporti di fedeltà molto resistenti. Per consolidare il proprio dominio, i perversi sfruttano la segretezza, l'intimidazione, la menzogna, il confondere le carte e le idee, la dissimulazione, l'abuso di fiducia, l'abuso di potere e la squalifica violenta di coloro che non si sottomettono. Perché il nemico giurato della perversione è, semplicemente, la verità. Nel sistema creato dal perverso, "la verità non ha più esistenza propria, altro non è che quel che lui decreta, e la sua parola terrà luogo di prova" scrive Racamier. È una strategia molto efficace: disorienta e paralizza chi cerca di reagire. Contro questa mistificazione costante occorre armare il pensiero, per restare saldi, distinguere, smascherare.

Non è certo un caso che questi meccanismi perversi siano emersi più che mai palesi attorno allo sfruttamento e alla degradazione del corpo femminile. Trovo sia molto simbolico. Pravda in russo, Wahrheit in tedesco, vérité in francese, verdad in spagnolo: tutti sostantivi femminili. Verità, oggi più che mai il tuo nome è donna. Per la dignità della verità e della donna - entrambe violate, svilite, manipolate, zittite e umiliate - è tempo di scendere in piazza.(
La Repubblica, 3 febbraio 2011)

giovedì 3 febbraio 2011


FIGLI DI UNA MORALE MINORE
 
Jacques-Louis David_La morte di Socrate_1787_Metropolitan Museum of Art, New York_da WIKPWEDIA

Ritorno a Socrate



La persona ha valore in sé e per questo non ha prezzo. Quando si sente parlare più o meno esplicitamente della prostituzione come attività cui ci si può dedicare senza remore, la mente barcolla. Siamo forse diventati figli di una morale minore?
Certo, la prostituzione di lusso, quella ben pagata, nelle magioni avvolte nel velo splendente della ricchezza, è ben tollerata, anzi considerata con benevolenza e sorrisis di complicità per gli utilizzatori finali. 

La prostituzione povera, invece, quella esercitata preferibilmente sui marciapiedi delle periferie, lontano dagli occhi pudichi dei benpensanti, è quasi universalmente considerata un disvalore.
Il cliente, normalmente maschio, è protagonista della compravendita, ma lo si guarda con indulgenza, soprattutto se potente e ricco: non è forse il mestiere più antico del mondo? La dissociazione è evidente, ma il paradosso viene dissimulato o non viene colto affatto.

In tutto questo mi fa orrore moralmente la teorizzazione della pratica che viene omologata a un qualsiasi altro lavoro. Mi fa orrore l'autentico relativismo etico dei maestri di morale universale. Mi fanno orrore la confusione e la condivisione e la corruzione dei ragionamenti fatti dovunque, diffusi a mezzo stampa e televisione, con urla e violenze verbali contro chi afferma che la persona ha valore in sé e per questo non ha prezzo.

mercoledì 19 agosto 2009

I valori del Cristianesimo e della morale nel pensiero di Francesco Cossiga


E' lui stesso a esporre il proprio pensiero su Libero di oggi, attribuendolo indirettamente ma chiaramente anche alle gerarchie cattoliche. Già il titolo riassume le idee del vecchio democristiano sul "do ut des" tra lo Stato del Vaticano e la Repubblica Italiana, idee che manifestano lo stravolgimento in senso immorale del triste Articolo 7 della nostra Costituzione, soprattutto nell'attuale regime berlusconista. Come dire: visto che è stata esantata dal pagamento dell'ICI, taccia l'organizzazione cattolica detta Chiesa:


PRIMA DI ATTACCARE BERLUSCONI LA CHIESA PAGHI L'ICI.    PRUDENZA E CARITA' SONO PIU' IMPORTANTI DEI GIUDIZI  di COSSIGA FRANCESCO

martedì 18 agosto 2009

CRISTIANESIMO



Don Giorgio de Capitani


Dal pulpito, sermoni o comizi?


"Quando nelle prediche il prete va giù duro, anche il padrone -se è del posto- sta attento nel trattare i lavoratori in quanto sa che avere il parroco contro significa avere contro la popolazione. Incarnare il Cristianesimo significa affrontare anche tutte le problematiche che vivono gli uomini:  lavoro, casa, tutela dell’ambiente"


Perché tanto astio nei confronti di Berlusconi?


"Non ce l’ho con Berlusconi persona ma con la sua cultura, il Berlusconismo, la cultura dell’avere, perché conosco il male che provoca all’umanità. Berlusconi l’ha inculcata nella testa di milioni di italiani tramite TV e giornali, forse perché a lui non interessa comunicare idee che comunque non credo abbia. Ha cavalcato astutamente un momento di grande vuoto politico riempiendolo con la sua cultura. Mi preoccupa il fatto che il virus della berlusconite ha contaminato ormai tutto, anche la sinistra" 


Intervista di Mauro Mauri: Don Giorgio de Capitani, sinistra evangelica dalla Brianza. Articolo 21

DonGiorgio.it - Politica a Tutto Campo


 




domenica 25 gennaio 2009

Primi giorni della presidenza Obama


Sto seguendo i primi atti di governo di Obama con attenzione pari alle grandi speranze che la sua elezione ha suscitato. Questi primi giorni hanno segnato una significativa virata rispetto alla politica del fallimentare Bush: riprendeno i fili della migliore tradizione statunitense, Obama si è avviato per una strada che quella tradizione continua e si accinge a riparare le deviazioni terribili dell'amministrazione precedente. A cominciare dal tradimento della stessa Costituzione americana e di molti principi di legge, anzi della legalità in toto, come spiega in un suo articolo Barbara Spinelli. Comincio con un breve sunto di Eugenio Scalfari.


"In politica estera ha messo al primo posto in agenda il tema del Medio Oriente chiamando a raccolta i protagonisti: Israele, Palestinesi, Paesi Arabi, Iran. Ha teso la mano all'Iran. Ha ribadito la lotta al terrorismo e l'importanza del fronte afgano. Ha dato inizio alla procedura per il ritiro delle truppe dall'Iraq.
Fin dal primo giorno ha abolito la tortura praticata in molte carceri speciali gestite dalla Cia [e ha firmato la chiusura di Guantanamo].In tema di diritti ha ripreso i finanziamenti per la ricerca sulle cellule staminali ricavate dagli embrioni ed ha riconosciuto alle donne la responsabilità primaria di decidere sul proprio aborto.
Barack Obama è profondamente religioso
ma la sua fede non gli ha impedito di iniziare una politica dei diritti profondamente laica. L'uomo di fede si raccoglie spesso in preghiera nella sua chiesa, ma il presidente degli Stati Uniti tutela i diritti fondamentali come prescrive la Costituzione del suo Paese alla quale ha giurato fedeltà.
Ecco un esempio
che ci viene da una grande democrazia e che ci auguriamo serva da punto di riferimento per tutti." ( Eugenio Scalfari, La Repubblica, 25 gennaio 2009 )



*


Obama e la maestà della legge


di Barbara Spinelli


Sin dal primo giorno del proprio mandato, Barack Obama ha fatto capire qual è la sua idea di emergenza, e cosa significa nella storia delle democrazie liberali. I dizionari spiegano che l’emergenza è una situazione di pericolo o crisi inaspettata, nella quale le pubbliche autorità si mettono in allarme e assumono poteri speciali. Per Carl Schmitt, che negli Anni 20 e 30 teorizzò la superiorità del potere assoluto sullo stato di diritto, l’eccezione è «più interessante» del «caso normale»: quest’ultimo è fatto di procedure ripetitive, che intralciano la capacità decisionale del vero sovrano. La vera autorità «non ha bisogno della legge per creare legge». Essa crea proprie leggi, piegando procedure e costituzioni al proprio buon volere e al mondo nuovo che promette: le sue leggi, di volta in volta ad personam o ad hoc, instaurano lo stato di pericolo e sospendono routine normative ritenute inani. Al posto della fiducia si inocula nel popolo la paura. Nel continente della libertà si dilata lo spazio della necessità. Riprendendo Hobbes, Schmitt conclude che non la verità «fa la legge» ma l’autorità, rivelata e temprata dalla situazione limite (Grenzfall).

Precisamente questo è accaduto nei due mandati dell’amministrazione Bush, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001: la Costituzione è stata sottomessa alle esigenze del principe e all’accentramento del potere presidenziale. A dominare non era più l’imperio della legge (la rule of law) ma il sovrano e la contingente ideologia da esso incarnata. La prigione extraterritoriale di Guantanamo, dove non valgono le leggi costituzionali americane; le commissioni militari che senza garanzie giuridiche esaminano i detenuti; l’uso della tortura; l’abolizione dell’habeas corpus, ovvero del diritto (risalente al 1679) che ciascuno ha di conoscere i motivi della propria detenzione: queste le misure che hanno trasformato centinaia di prigionieri in animali cui è stato sequestrato il corpo, come direbbe Foucault.

Obama ha messo fine a tali arbitrii, che aboliscono l’equilibrio tra i poteri voluto dal pensiero liberale. Ed è importante che sia il suo primo gesto, perché qui è la vera urgenza dei giorni nostri, non solo negli Stati Uniti. La vera emergenza è l’idea stessa di un’emergenza continua, abbinata alla promessa di rottura col passato e al proliferare di leggi ad hoc: l’esempio statunitense ha rafforzato in molte democrazie questa mistificazione emergenziale-rivoluzionaria. È stata una loro regressione infantile, fondata sulla convinzione che la democrazia non avesse una storia lunga, fatta di norme e routine, ma fosse una pagina tutta bianca da colorare a piacimento. Il principe-bambino fa quel che crede, immaginandosi onnipotente. Ritorna allo stato precedente la separazione dei poteri di Montesquieu, quando il potere che s’espande abusivamente non è ancora fermato da altri poteri. In un passaggio chiave del discorso inaugurale, il 20 gennaio, Obama ha citato la prima lettera di Paolo ai Corinzi (13,11): «Rimaniamo una nazione giovane, ma come nelle parole della Scrittura, è venuto il tempo di metter da parte le cose infantili».

«Divenir uomo» consiste nel ritorno alla norma, nella scoperta del proprio limite, nell’abbandono della speciale arroganza unita a ignoranza che caratterizza l’infanzia. Non sarà facile, perché l’America resta ufficialmente in stato di guerra con il terrorismo, nonostante la volontà presidenziale di «tendere la mano a chi vuol aprire il proprio pugno». Anche se la guerra continua tuttavia, occorre restar fedeli alla Costituzione e alla separazione dei poteri. Occorre far capire al mondo che i prigionieri di Guantanamo saranno correttamente giudicati, che l’America non torturerà né a Guantanamo né in prigioni segrete sparse nel mondo. L’inverno dell’avversità cui ha accennato Obama esige la restaurazione della rule of law:


«Noi respingiamo come falsa la scelta fra la nostra sicurezza e i nostri ideali».





È una presa di posizione al tempo stesso morale e pratica. La tortura di prigionieri privati di habeas corpus non ha facilitato la guerra al terrorismo, ma l’ha complicata e invalidata. I video di Abu Ghraib sono usati da Al Qaeda come efficacissimo mezzo di reclutamento. Neppure in stato d’estremo pericolo (la bomba a orologeria che può esser sventata ricorrendo alla tortura) le leggi d’eccezione sono utili. In Italia se ne discusse nell’estate 2006: ci furono intellettuali e editorialisti democratici che aprirono alla tortura, pensando che l’ineluttabile spirito dei tempi fosse ormai questo.

Sono tanti gli studi che sostengono che la tortura, oltre a essere immorale in ogni circostanza, è probabilmente inservibile. Essa rende più difficile la cooperazione internazionale, perché le confessioni estorte sono inutilizzabili da inquirenti e tribunali. Il giudice spagnolo Garzón è di quest’opinione, e ha inoltre accusato le autorità Usa di tener nascosti in prigioni segrete testimoni essenziali per chiarire l’attentato del 2004 a Madrid. Peter Clarke, ex capo della polizia antiterrorista inglese, ha detto all’Economist nel luglio scorso: «Ogni evidenza raccolta a Guantanamo è inammissibile». Un uomo umiliato, cui si infligge l’annegamento simulato (waterboarding), confessa ogni sorta di bugia. David Danzig in un articolo su Huffington Post del 22 gennaio ricorda come i maggiori successi siano stati raggiunti da un’«arte dell’interrogatorio» che rifiuta la violenza, e preferisce l’astuto colloquio con pentiti e perfino con combattenti: Saddam Hussein e al-Zarqawi, ex capo di Al Qaeda in Iraq, furono scovati così.

Non sarà semplice smantellare le tante leggi ad hoc create nell’emergenza terrorismo, in America ed Europa. Perché sono leggi che lavorano nel buio, aggirando perfino sentenze delle Corti Supreme come quella statunitense, che ha restituito ai prigionieri l’habeas corpus. Non è semplice perché ancora deve esser affrontata la questione fondamentale: è veramente guerra quella che viviamo? e se lo è come chiamare l’avversario? E se non è guerra cos’è? Nemmeno Obama ha la risposta, che pure gli toccherà dare senza attendere altri sette anni. E ancor meno sanno rispondere i governi europei, che adottano leggi emergenziali d’ogni tipo (sul terrorismo e sull’immigrazione) evitando furbescamente di dichiararsi nazioni in guerra. Siamo lontani, qui, dalle autocritiche americane.
Tony Blair, che ha mimato ogni mossa e ogni disastro di Bush, ancora non è chiamato alla resa dei conti.
Ma qualcosa è cominciato, con una prontezza che fa onore a Obama.
Qualcosa comincia a esser detto: che essere uomini adulti in democrazia vuol dire rispettare leggi antiche, messe alla prova in situazioni ben più difficili di quella presente. Che il sovrano capriccioso e falsamente decisionista ha un comportamento immaturo. Che le tradizioni giuridiche contano: quelle racchiuse nelle costituzioni e quelle iscritte in leggi internazionali che Bush ha sprezzato, come la convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri. L’ansia di innovare a tutti i costi può esser letale, in democrazia. Il mito della «rottura» si sfalda. «Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza», ha detto Obama ai connazionali. Non a caso martedì li ha apostrofati in maniera inedita: invece di My fellow Americans, li ha chiamati My fellow citizens.

La questione morale coincide con il ritorno alla cultura della legalità, in America come in Europa. È la più grande necessità del momento: non si restaurerà una duratura fiducia tra governati e governanti, senza riconversione all’imperio della legge. Non si risaneranno l’economia, la politica, il clima. L’alternativa è chiudersi in belle bolle e ignorare i fatti: anche la bolla è qualcosa di molto infantile, che brilla di tanti colori fino a quando (inaspettatamente per i bambini) esplode. (
LaStampa, 25 gennaio 2009 )

mercoledì 21 gennaio 2009

Le parole nuove e vecchie nel discoro di Obama


alba del 20 gennaio 2009 in Minnesota


OGGI mi trovo di fronte a voi, umile per il compito che ci aspetta, grato per la fiducia che mi avete accordato, cosciente dei sacrifici compiuti dai nostri avi. Ringrazio il presidente Bush per il servizio reso alla nostra nazione, e per la generosità e la cooperazione che ha mostrato durante questa transizione.

Quarantaquattro americani hanno pronunciato il giuramento presidenziale. Queste parole sono risuonate in tempi di alte maree di prosperità e di calme acque di pace. Ma spesso il giuramento è stato pronunciato nel mezzo di nubi tempestose e di uragani violenti. In quei momenti, l'America è andata avanti non solo grazie alla bravura o alla capacità visionaria di coloro che ricoprivano gli incarichi più alti, ma grazie al fatto che Noi, il Popolo, siamo rimasti fedeli agli ideali dei nostri antenati e alle nostre carte fondamentali.

Così è stato finora. Così deve essere per questa generazione di americani.

E' ormai ben chiaro che ci troviamo nel mezzo di una crisi. La nostra nazione è in guerra contro una rete di violenza e di odio che arriva lontano. La nostra economia si è fortemente indebolita, conseguenza della grettezza e dell'irresponsabilità di alcuni, ma anche della nostra collettiva incapacità di compiere scelte difficili e preparare la nostra nazione per una nuova era. C'è chi ha perso la casa. Sono stati cancellati posti di lavoro. Imprese sono sparite. Il nostro servizio sanitario è troppo costoso. Le nostre scuole perdono troppi giovani. E ogni giorno porta nuove prove del fatto che il modo in cui usiamo le risorse energetiche rafforza i nostri avversari e minaccia il nostro pianeta. Questi sono gli indicatori della crisi, soggetti ad analisi statistiche e dati. Meno misurabile ma non meno profonda invece è la perdita di fiducia che attraversa la nostra terra - un timore fastidioso che il declino americano sia inevitabile e la prossima generazione debba avere aspettative più basse.

Oggi vi dico che le sfide che abbiamo di fronte sono reali. Sono serie e sono numerose. Affrontarle non sarà cosa facile né rapida. Ma America, sappilo: le affronteremo.

Oggi siamo riuniti qui perché abbiamo scelto la speranza rispetto alla paura, l' unità degli intenti rispetto al conflitto e alla discordia.

Oggi siamo qui per proclamare la fine delle recriminazioni meschine e delle false promesse, dei dogmi stanchi, che troppo a lungo hanno strangolato la nostra politica.

Siamo ancora una nazione giovane, ma - come dicono le Scritture - è arrivato il momento di mettere da parte gli infantilismi. E' venuto il momento di riaffermare il nostro spirito tenace, di scegliere la nostra storia migliore, di portare avanti quel dono prezioso, l'idea nobile, passata di generazione in generazione: la promessa divina che tutti siamo uguali, tutti siamo liberi e tutti meritiamo una possibilità di perseguire la felicità in tutta la sua pienezza.

Nel riaffermare la grandezza della nostra nazione, ci rendiamo conto che la grandezza non è mai scontata. Bisogna guadagnarsela. Il nostro viaggio non è mai stato fatto di scorciatoie, non ci siamo mai accontentati. Non è mai stato un sentiero per incerti, per quelli che preferiscono il divertimento al lavoro, o che cercano solo i piaceri dei ricchi e la fama.

Sono stati invece coloro che hanno saputo osare, che hanno agito, coloro che hanno creato cose - alcuni celebrati, ma più spesso uomini e donne rimasti oscuri nel loro lavoro, che hanno portato avanti il lungo, accidentato cammino verso la prosperità e la libertà.

Per noi, hanno messo in valigia quel poco che possedevano e hanno attraversato gli oceani in cerca di una nuova vita.

Per noi, hanno faticato in aziende che li sfruttavano e si sono stabiliti nell'Ovest. Hanno sopportato la frusta e arato la terra dura.
Per noi, hanno combattuto e sono morti, in posti come Concord e Gettysburg; in Normandia e a Khe Sahn.
Questi uomini e donne hanno lottato e si sono sacrificati e hanno lavorato finché le loro mani sono diventate ruvide per permettere a noi di vivere una vita migliore. Hanno visto nell'America qualcosa di più grande che una somma delle nostre ambizioni individuali; più grande di tutte le differenze di nascita, censo o fazione.

Questo è il viaggio che continuiamo oggi. Rimaniamo la nazione più prospera, più potente della Terra. I nostri lavoratori non sono meno produttivi rispetto a quando è cominciata la crisi. Le nostre menti non sono meno inventive, i nostri beni e servizi non meno necessari di quanto lo fossero la settimana scorsa, o il mese scorso o l'anno scorso. Le nostre capacità rimangono inalterate. Ma è di certo passato il tempo dell'immobilismo, della protezione di interessi ristretti e del rinvio di decisioni spiacevoli. A partire da oggi, dobbiamo rialzarci, toglierci di dosso la polvere, e ricominciare il lavoro della ricostruzione dell'America.

Perché ovunque volgiamo lo sguardo, c'è lavoro da fare. Lo stato dell'economia richiede un'azione, forte e rapida, e noi agiremo - non solo per creare nuovi posti di lavoro, ma per gettare le nuova fondamenta della crescita.

Costruiremo le strade e i ponti, le reti elettriche e le linee digitali che alimentano i nostri commerci e ci legano gli uni agli altri. Restituiremo alla scienza il suo giusto posto e maneggeremo le meraviglie della tecnologia in modo da risollevare la qualità dell'assistenza sanitaria e abbassarne i costi.

Imbriglieremo il sole e i venti e il suolo per alimentare le nostre auto e mandare avanti le nostre fabbriche.
E trasformeremo le nostre scuole, i college e le università per venire incontro alle esigenze dei tempi nuovi. Possiamo farcela. E lo faremo.

Ora, ci sono alcuni che contestano le dimensioni delle nostre ambizioni - pensando che il nostro sistema non può tollerare troppi grandi progetti. Costoro hanno corta memoria. Perché dimenticano quel che questo paese ha già fatto. Quel che uomini e donne possono ottenere quando l'immaginazione si unisce alla volontà comune, e la necessità al coraggio.

Quel che i cinici non riescono a capire è che il terreno gli è scivolato sotto i piedi. Gli argomenti politici stantii che ci hanno consumato tanto a lungo non sono più applicabili. La domanda che formuliamo oggi non è se il nostro governo sia troppo grande o troppo piccolo, ma se funzioni o meno - se aiuti le famiglie a trovare un lavoro decentemente pagato, cure accessibili, una pensione degna. Laddove la risposta sia positiva, noi intendiamo andare avanti. Dove sia negativa, metteremo fine a quelle politiche. E coloro che gestiscono i soldi della collettività saranno chiamati a risponderne, affinché spendano in modo saggio, riformino le cattive abitudini, e facciano i loro affari alla luce del sole - perché solo allora potremo restaurare la vitale fiducia tra il popolo e il suo governo.

La questione di fronte a noi non è se il mercato sia una forza del bene o del male. Il suo potere di generare benessere ed espandere la libertà è rimasto intatto. Ma la crisi ci ricorda che senza un occhio rigoroso, il mercato può andare fuori controllo e la nazione non può prosperare a lungo quando il mercato favorisce solo i già ricchi. Il successo della nostra economia è sempre dipeso non solo dalle dimensioni del nostro Pil, ma dall'ampiezza della nostra prosperità, dalla nostra capacità di estendere le opportunità per tutti coloro che abbiano volontà - non per fare beneficenza ma perché è la strada più sicura per il nostro bene comune.

Quanto alla nostra difesa comune, noi respingiamo come falsa la scelta tra sicurezza e ideali. I nostri Padri Fondatori, messi di fronte a pericoli che noi a mala pena riusciamo a immaginare, hanno stilato una carta che garantisca l'autorità della legge e i diritti dell'individuo, una carta che si è espansa con il sangue delle generazioni. Quegli ideali illuminano ancora il mondo, e noi non vi rinunceremo in nome di qualche espediente. E così, per tutti i popoli e i governi che ci guardano oggi, dalle più grandi capitali al piccolo villaggio dove è nato mio padre: sappiate che l'America è amica di ogni nazione e di ogni uomo, donna e bambino che sia alla ricerca di un futuro di pace e dignità, e che noi siamo pronti ad aprire la strada ancora una volta.

Ricordiamoci che le precedenti generazioni hanno sgominato il fascismo e il comunismo non solo con i missili e i carriarmati, ma con alleanze solide e convinzioni tenaci. Hanno capito che il nostro potere da solo non può proteggerci, né ci autorizza a fare come più ci aggrada. Al contrario, sapevano che il nostro potere cresce quanto più lo si usa con prudenza. La nostra sicurezza emana dalla giustezza della nostra causa, dalla forza del nostro esempio, dalle qualità dell'umiltà e del ritegno.

Noi siamo i custodi di questa eredità. Guidati ancora una volta dai principi, possiamo affrontare le nuove minacce che richiederanno sforzi ancora maggiori - una cooperazione e comprensione ancora maggiori tra le nazioni. Cominceremo a lasciare responsabilmente l'Iraq alla sua gente, e a forgiare una pace duramente guadagnata in Afghanistan. Con i vecchi amici e i vecchi nemici, lavoreremo senza sosta per diminuire la minaccia nucleare, e respingere lo spettro di un pianeta che si surriscalda. Non chiederemo scusa per il nostro stile di vita, né ci batteremo in sua difesa. E a coloro che cercano di raggiungere i propri obiettivi creando terrore e massacrando gli innocenti, noi diciamo adesso che il nostro spirito è più forte e non può essere infranto. Voi non ci sopravviverete, e noi vi sconfiggeremo.

Perché noi sappiamo che il nostro retaggio "a patchwork" è una forza e non una debolezza. Noi siamo una nazione di cristiani e musulmani, ebrei e induisti e non credenti. Noi siamo formati da ciascun linguaggio e cultura disegnata in ogni angolo di questa Terra; e poiché abbiamo assaggiato l'amaro sapore della Guerra civile e della segregazione razziale e siamo emersi da quell'oscuro capitolo più forti e più uniti, noi non possiamo far altro che credere che i vecchi odi prima o poi passeranno, che le linee tribali saranno presto dissolte, che se il mondo si è rimpicciolito, la nostra comune umanità dovrà riscoprire se stessa; e che l'America deve giocare il suo ruolo nel far entrare il mondo in una nuova era di pace.

Per il mondo musulmano noi indichiamo una nuova strada, basata sul reciproco interesse e sul mutuo rispetto. A quei leader in giro per il mondo che cercano di fomentare conflitti o scaricano sull'Occidente i mali delle loro società - sappiate che i vostri popoli vi giudicheranno su quello che sapete costruire, non su quello che distruggete. A quelli che arrivano al potere attraverso la corruzione e la disonestà e mettendo a tacere il dissenso, sappiate che siete dalla parte sbagliata della Storia; ma che vi tenderemo la mano se sarete pronti ad aprire il vostro pugno.

Alla gente delle nazioni povere, noi promettiamo di lavorare insieme per far fiorire le vostre campagne e per pulire i vostri corsi d'acqua; per nutrire i corpi e le menti affamate. E a quelle nazioni, come la nostra. che godono di una relativa ricchezza, noi diciamo che non si può più sopportare l'indifferenza verso chi soffre fuori dai nostri confini; né noi possiamo continuare a consumare le risorse del mondo senza considerare gli effetti. Perché il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare con esso.

Se consideriamo la strada che si apre davanti a noi, noi dobbiamo ricordare con umile gratitudine quegli americani coraggiosi che, proprio in queste ore, controllano lontani deserti e montagne. Essi hanno qualcosa da dirci oggi, proprio come gli eroi caduti che giacciono ad Arlington mormorano attraverso il tempo. Noi li onoriamo non solo perché sono i guardiani della nostra libertà, ma perché essi incarnano lo spirito di servizio: una volontà di trovare significato in qualcosa più grande di loro. In questo momento - un momento che definirà una generazione - è precisamente questo lo spirito che deve abitare in tutti noi.

Per tanto che un governo possa e debba fare, alla fine è sulla fede e la determinazione del popolo americano che questa nazione si fonda. E' la gentilezza nell'accogliere uno straniero quando gli argini si rompono, la generosità dei lavoratori che preferiscono tagliare il proprio orario di lavoro piuttosto che vedere un amico perdere il posto, che ci hanno guidato nei nostri momenti più oscuri. E' il coraggio dei vigili del fuoco nel precipitarsi in una scala invasa dal fumo, ma anche la volontà di un genitore di nutrire il proprio figlio, che alla fine decidono del nostro destino.

Forse le nostre sfide sono nuove. Gli strumenti con cui le affrontiamo forse sono nuovi. Ma i valori da cui dipende il nostro successo - lavoro duro e onestà, coraggio e fair play, tolleranza e curiosità, lealtà e patriottismo - tutto questo è vecchio. Sono cose vere. Sono state la forza tranquilla del progresso nel corso di tutta la nostra storia. Quel che è necessario ora è un ritorno a queste verità. Quel che ci viene chiesto è una nuova era di responsabilità - il riconoscimento, da parte di ogni americano, che abbiamo un dovere verso noi stessi, la nostra nazione, il mondo, doveri che non dobbiamo accettare mugugnando ma abbracciare con gioia, fermi nella consapevolezza che non c'è nulla di più soddisfacente per lo spirito, così importante per la definizione del carattere, che darsi completamente per una causa difficile.

Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza.

Questa è la fonte della nostra fiducia - la consapevolezza che Dio ci ha chiamato a forgiare un destino incerto.

Questo è il significato della nostra libertà e del nostro credo - perché uomini, donne e bambini di ogni razza e di ogni fede possono unirsi nella festa in questo Mall magnifico, e perché un uomo il cui padre meno di sessanta anni fa non avrebbe neanche potuto essere servito in un ristorante ora può trovarsi di fronte a voi per pronunciare il giuramento più sacro di tutti.

Perciò diamo a questa giornata il segno della memoria, di chi siamo e di quanta strada abbiamo fatto. Nell'anno in cui l'America è nata, nel più freddo dei mesi, una piccola banda di patrioti rannicchiati intorno a falò morenti sulle rive di un fiume ghiacciato. La capitale era stata abbandonata. Il nemico avanzava. La neve era macchiata di sangue. Nel momento in cui l'esito della nostra rivoluzione era in dubbio come non mai, il padre della nostra nazione ordinò che si leggessero queste parole al popolo:

"Che si dica al futuro del mondo... che nel profondo dell'inverno, quando possono sopravvivere solo la speranza e la virtù... Che la città e la campagna, allarmate da un pericolo comune, si sono unite per affrontarlo".

America. Di fronte ai nostri pericoli comuni, in questo inverno dei nostri stenti, ricordiamo queste parole senza tempo. Con speranza e virtù, affrontiamo con coraggio le correnti ghiacciate, e sopportiamo quel che le tempeste ci porteranno. Facciamo sì che i figli dei nostri figli dicano che quando siamo stati messi alla prova non abbiamo permesso che questo viaggio finisse, che non abbiamo voltato le spalle e non siamo caduti. E con gli occhi fissi sull'orizzonte e la grazia di Dio su di noi, abbiamo portato avanti il grande dono della libertà e l'abbiamo consegnato intatto alle generazioni future.  


(La Repubblica, 20 gennaio 2009)


domenica 4 gennaio 2009

GUERRA, VITA, MORTE


http://it.wikipedia.org/wiki/Striscia_di_Gaza



«Per il nuovo anno vorrei che Israele si rendesse conto che il conflitto non può essere risolto con mezzi militari. E che Hamas capisse che non è suo interesse servirsi della violenza». Daniel Barenboim, direttore d'orchestra, ha semplicemente evidenziato il carattere irresolvibile del conflitto armato che dura dal 1948. Più di sessant'anni. Una guerra che richiama quella dei Cento anni: quanti ne ricordano i motivi? Immane stupidità. Annidata nel nostro cervello, come sostiene Rita Levi Montalcini: "Il cervello spiega tutto. Bisogna partire da qui. Il nostro modo di comportarci è più emotivo che cognitivo. Esiste un centro arcaico del cervello, limbico: non ha avuto nessuno sviluppo dall’australopiteco ad oggi, è identico. È la sede dell’aggressività. Il cervello limbico ha salvato l’uomo quando è sceso dagli alberi, gli ha consentito di difendersi e combattere. Oggi può essere la causa della sua estinzione."



Continua la tragedia di Gaza e, in generale, dei due popoli costretti a convivere. Già la parola "striscia" mi provoca una sindrome claustrofobica. Se al dato geografico e politico aggiungo l'odio e l'impossibilità di una vita pacifica di due popoli l'uno accanto all'altro, sfioro la follia dell'animale in gabbia. Quando tento di immedesimarmi ora in un israeliano ora in un palestinese, non riesco a uscire dal mio schema mentale che rifiuta la guerra: rifiuterei tanto la logica del governo israeliano quanto quella di Hamas e vorrei costringerli a ragionare. Ma sarei sicuramente fuori della realtà umana che ancora contempla ancora la guerra come "soluzione" più o meno finale dei conflitti.



*


Riporto con orrore un breve pezzo di un lungo e complicato libro di psicoanalisi della guerra. Con orrore perché la guerra appare inscritta nei nostri archetipi e con speranza perché il progresso culturale ci consentirebbe di eliminarla dalla nostra storia.


"Non esiste una soluzione pratica alla guerra perché la guerra non è un problema risolvibile con la mente pratica, la quale è più attrezzata per la sua conduzione che per la sua elusione o conclusione. La guerra appartiene alla nostra anima come verità archetipica del cosmo. E' un'opera umana e un orrore inumano, e un amore che nessun altro amore è riuscito a vincere. Possiamo aprire gli occhi su questa terribile verità e, prendendone coscienza, dedicare tutta la nostra appassionata intensità a minare la messa in atto della uerra, forti del coraggio che la cultura possiede, anche nei secoli bui, di continuare a cantare mentre resiste alla guerra. Possiamo comprenderla meglio, differirla più a lungo, lavorare per sottrarla via via al sostegno di una religione ipocrita." (James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, pag. 259)



*


La guerra e l'etica della morte e della vita di Eugenio Scalfari (La Repubblica, 4 gennaio 2009)

sabato 13 dicembre 2008

La Chiesa il denaro e la spinetta di Ratzinger



L' anticipazione del documento papale per la giornata mondiale della pace che si celebrerà il 1° gennaio giunge in un momento di diffuse preoccupazioni per le società di tutto il mondo, quello economicamente sviluppato e quello delle più disperate società africane. Processi giganteschi stanno ridisegnando le economie mondiali e travolgono senza pietà le nostre piccole economie domestiche. Giorno dopo giorno scopriamo che niente è più come prima. Uno stato d' animo inquieto, una sensazione di paura del futuro sono i sentimenti che colorano l' orizzonte del tempo presente. Parlare di economia in questi giorni è un esercizio obbligato a tutti i livelli e in tutti gli ambienti. Non poteva mancare la voce della Chiesa.


Il messaggio papale indica alcuni temi di indiscutibile e sempre più drammatica importanza: fondamentale fra tutti lo squilibrio economico tra i paesi dove la povertà è un abisso di disperazione senza fine e i bambini dalle membra emaciate aprono sull' osservatore occhi grandi e spauriti, e l' isola dorata del mondo ricco, quello per raggiungere il quale si rischia e si perde la vita. Regolamentazione dell' economia per raggiungere una più equilibrata distribuzione delle risorse; questo il problema che viene evocato per i commerci internazionali e per la finanza. Evocato, non certo risolto.


La questione è, formalmente, la pace, il nesso che esiste tra disarmo e sviluppo, la minaccia per la pace che nasce dalla povertà e dalla denutrizione di intere parti del mondo. Il testo inanella considerazioni morali, avvertimenti e inviti a tutti i soggetti a fare la loro parte, senza indugi, citando le parole di Leone XIII nella enciclica "Rerum novarum". L' intarsio di citazioni sulle quali si appoggia il testo papale offrirà agli esegeti sicura materia di riflessione ma non permette al lettore comune di ricavare ricette concrete su come affrontare i problemi della pace nel mondo.


Come al solito i documenti papali obbediscono a una precisa regola di composizione, simile a quella dei documenti che uscivano un tempo dagli organismi direttivi dei grandi partiti di massa: si tratta di riuscire a mettere le novità del mondo nell' antico sacco di un discorso senza tempo, di una dottrina superiore ed eterna, dotata di una indeformabile e rassicurante fissità. Eppure sembrerebbe piuttosto difficile ricavare dalla dottrina della collaborazione tra le classi offerta nel 1893 all' Europa della rivoluzione industriale e del nascente socialismo da Leone XIII una qualche ricetta valida per i problemi di un mondo globalizzato e di una finanza internazionale che ha cancellato ogni confine di stato. Comunque non di questo si tratta nel documento in questione.


Qui un soggetto che si vuole immutabile, la Chiesa, si confronta con un oggetto storicamente e geograficamente mutevole, la povertà. Questa è una Chiesa che non cambia opinioni e che ha sempre fatto la sua parte: "Da sempre la dottrina sociale della Chiesa si è interessata dei poveri". La dottrina è dunque la stessa, sono i poveri che cambiano. La povertà non è più quella di una volta. Ci sono diverse forme di povertà, quella dell' emarginazione, della "povertà relazionale, morale e spirituale" che le società ricche e progredite conoscono e quella che si definisce "assoluta", sofferta dalle masse umane carenti di cibo e di acqua. Qui si parla della povertà del secondo tipo. Ma non senza segnalare che anche la fame spirituale, quella sofferta dalle folle "sazie e disperate" delle città del mondo ricco - per usare una celebre espressione del cardinal Biffi - ha un' origine comune: il "mancato rispetto della trascendente dignità della persona umana". Mancano indicazioni su chi sia il responsabile: o almeno così sembrerebbe, perché poi un responsabile emerge, come vedremo. Non si fanno nomi di enti, stati, organizzazioni, né si danno indicazioni su storture economiche e finanziarie responsabili delle guerre in atto.


Vengono in mente per contrasto altri discorsi sulla pace che sono stati avanzati dall' interno della Chiesa cattolica. E ci accorgiamo a questo punto di qualche omissione quanto meno singolare: per esempio, non viene citata la "Pacem in terris" di papa Giovanni XXIII, il celebre documento papale che affrontò di petto il tema della pace. Né compaiono citazioni dai documenti del concilio Vaticano II. Né vi affiora la questione dell' ingiustizia dei rapporti di classe e il rapporto tra giustizia sociale e pace. Il cardinale Carlo Maria Martini in un libro del 1999 sulla giustizia scrisse ad esempio che "la pace è perduta ... quando c' è sfruttamento economico e sociale" e che la pace può essere garantita solo da "una giusta distribuzione delle ricchezze" . Di fatto la giustizia sociale resta sullo sfondo remoto di questo documento che ha il suo centro non nella questione della pace, della guerra o della fame ma nel problema dello sviluppo demografico e del controllo delle nascite.


La geografia della fame, la scienza triste inaugurata dal grande libro di José De Castro che gli italiani lessero nel remoto 1954 con prefazione di Carlo Levi, è oggi una disciplina di assoluto rilievo tra quelle che ci raccontano il mutare del mondo visto dall' angolo fondamentale della privazione del cibo. E' una strana geografia che non disegna più confini netti tra i continenti o all' interno di essi, che vede processi di rapida evoluzione, con una contabilità degli affamati non priva di dati positivi. E' su questi che si concentra il messaggio papale. Dopo aver segnalato che nell' arco degli ultimi decenni la percentuale della popolazione in condizioni di povertà assoluta si è dimezzata. Si osserva che l' uscita dalla povertà è avvenuta in certi paesi senza bisogno di controllare la crescita demografica. E qui tocchiamo finalmente il punto centrale del messaggio. Se non è l' aumento della popolazione a creare la carenza di risorse, questo vuol dire che non c' è bisogno di ricorrere alla contraccezione e tanto meno alla pratica dell' aborto.


I nemici da combattere sono quelle agenzie del mondo globalizzato che condizionano gli aiuti economici alla "attuazione di politiche contrarie alla vita" (leggi: uso dei contraccettivi). Il rimedio? Avviare "campagne che educhino specialmente i giovani a una sessualità pienamente rispondente alla dignità della persona". Questo vuol dire forse che tra le medicine e le cure necessarie, tra le "innovazioni terapeutiche" per combattere l' Aids sarà da intendersi incluso anche l' uso degli anticoncezionali? Sembra proprio di no.


I poveri del mondo mutano di quantità e di qualità ma restano quelli di sempre nel discorso atemporale di questa Chiesa; così pure i flagelli dell' umanità. Era da peste, fame e guerra che nelle chiese del passato si invocava il "Libera nos, Domine". Il problema urgente da affrontare è uno solo: quello del sesso. Che dire? Viene alla mente il brevissimo raccontino, la "scorciatoia" che nel momento più tragico della seconda guerra mondiale il poeta Umberto Saba dedicò alla figura di Benedetto Croce: in una casa dove c' è chi uccide, chi stupra, chi muore, si apre una porta e si vede una vecchia signora che suona - molto bene - una spinetta. - ADRIANO PROSPERI


Mi è sembrata interessante questa analisi dello speciale approccio vaticanista al problema della fame e dell'inaccettabile diseguaglianza tra gli esseri umani. Penso che solo le leggi internazionali e un potere sovranazionale in grado di farle rispettare potranno arrivare, chissà quando, alla soluzione della pari dignità sociale e dell'uguaglianza. La Chiesa Cattolica, intesa come potere e gerarchia di poteri, difficilmente potrà raggiungere scopi che si prefigge solo teoricamente, mentre nella prassi ha ben altro in mente. Per capire e farsi delle idee, tuttavia, è necessario leggere il documento papale integralmente. Ecco il link:  Il testo integrale dell'Istruzione "Dignitas personae. Su alcune questioni di bioetica" .


Repubblica — 12 dicembre 2008   - Foto: Il Papa al suo pianoforte nella villetta di Les Combes (Aosta): suona brani di Bach e Mozart, da Repubblica, 16 luglio 2006

mercoledì 10 dicembre 2008


La Dichiarazione   Universale   dei   Diritti   Umani
compie sessant'anni.


1948 - 2008



Articolo 1
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.
Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.


Articolo 2
Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.
Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.


La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è il primo documento nella Storia in cui vengono sanciti universalmente i diritti che spettano a tutti gli esseri umani, senza distinzione alcuna né possibilità di deroghe. I principi etici che ispirano i suoi 30 articoli sono stati dibattuti a lungo dalle menti più illuminate nei secoli passati, hanno avuto grandi precedenti, come la  Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 in Francia, e sono confluiti nella Costituzione Europea.


Ancora lunga è la strada per l'effettiva applicazione dei diritti umani in molti Stati, tuttavia la promulgazione di questa "Magna Charta" del secolo XX costituisce un punto fermo di giurisdizione planetaria da cui sempre meno si potrà prescindere.  



Il concepimento dei diritti umani


Possenti dice che la Dichiarazione universale (che fa 60 anni) resta il più grande atto etico-politico della modernità.

A sessant’anni dalla sua proclamazione, “la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo resta uno dei massimi atti etico-politici della modernità, una svolta della storia mondiale che promette di conservare, anche per il futuro, una fondamentale vitalità” (nella foto, alcuni figli dello staff delle Nazioni Unite con la stesura finale della Dichiarazione nel 1948).

E’ l’opinione di Vittorio Possenti, docente di Filosofia politica e direttore del Centro interdipartimentale di ricerca sui diritti umani all’ Università Ca’ Foscari di Venezia, che in questi giorni promuove un convegno sui temi dei diritti umani e della libertà religiosa (tre giornate di studio, dal 4 al 6 dicembre).

Possenti dice al Foglio di non condividere l’accusa di eccesso di occidentalità, vizio di nascita e ipoteca indelebile, che alcune correnti di pensiero rimproverano alla Dichiarazione universale (vedi l’intervista a Danilo Zolo, sul Foglio del 3 dicembre): “Non è così – spiega il professore – La Dichiarazione fu preparata da una commissione che aveva al proprio interno personalità occidentali e orientali, socialisti e liberali, buddisti, induisti, atei, credenti. E tra i personaggi che più influirono nella preparazione della Dichiarazione ci fu il filosofo P. C. Chang, capo della delegazione cinese”. Semmai, “ad andare meno bene del previsto, è stata la traduzione nella realtà delle enunciazioni del 1948, in particolare nel garantire i diritti umani fondamentali. Da tante parti si sostiene che la miglior realizzazione di una società politica laica è la realizzazione più ampia possibile dei diritti umani. Vero, a patto che i modi con cui questi ultimi vengono interpretati non prendano strade troppo differenti. In prima battuta sembra che il loro linguaggio costituisca un esperanto compreso da tutti e gradito a tante orecchie. Ma un’attenzione più esercitata indica che parole come dignità, persona, libertà, diritti, veicolano significati diversi e magari divergenti”.

Diversità che si traducono sempre più frequentemente in discrepanze tra occidente e resto del mondo: “In occidente puntiamo molto sui diritti di libertà, in rapporto a una tradizione liberale che fu presente nella stesura della Dichiarazione. Ma non dimentichiamo che un diritto fondamentale come il diritto alla vita non è un diritto di libertà”. Esistono da almeno trent’anni due prospettive che si confrontano, “quella che dà una lettura libertaria dei diritti umani e quella che privilegia l’interpretazione dignitaria e personalistica. Nell’attività concreta delle agenzie dell’Onu, sono impostazioni che portano a conseguenze ben diverse. Pensiamo, per esempio, al modo di intendere la ‘salute riproduttiva’ della donna”.

Il fatto è, dice Possenti, che “la Dichiarazione non va trattata come una lista da cui scegliere i diritti che meglio fanno al caso nostro, vale a dire i diritti di libertà. Certo, l’appellarsi ai diritti di libertà civili e politici è qualcosa di immediatamente percepibile, e nell’epoca del confronto fra blocco americano e blocco sovietico era particolarmente sentito il tema dei totalitarismi e della libertà politica. Ma l’esito che ne è seguito è sconcertante. Non poche agenzie culturali, mediatiche e politiche hanno creato un insieme di frammenti iperlibertari strappati a forza dal tessuto unitario della Dichiarazione universale, e li hanno proiettati in contesti extraoccidentali dove fanno molta fatica ad attecchire. Nel frattempo, in occidente, queste avanguardie ‘libertarie’ hanno assolutizzato alcuni diritti a scapito di altri e propongono una visione che definisco ‘oltranzista’ dei diritti umani, la quale fa leva sulla nozione di uguaglianza e del rifiuto di ogni discriminazione. Suona bene, ma in concreto può significare riconoscimento di un’uguaglianza aritmetica e astratta, a prescindere dalla reale situazione in cui il soggetto si trova. Ora, se è vero che un’uguaglianza fondamentale deve essere riconosciuta alle persone per quanto concerne un notevole numero di diritti – alla vita, alla libertà religiosa, al lavoro, alla liberazione della miseria – non possiamo impiegare in maniera illimitata il criterio di uguaglianza e quello di non discriminazione, così frequentemente impiegati in questi anni come una clava per far passare ogni genere di presunti diritti, senza lederne altri, fondamentali, della persona. I criteri di uguaglianza e non discriminazione – esemplifica Possenti –  risultano gravemente violati oggi in ambito bioetico quando si ricorre alla diagnosi preimpianto degli embrioni, con alcuni scelti e altri soppressi. Voglio dire che la Dichiarazione non può essere vista come una lista di garanzie assolutamente separate l’una dall’altra, da cui ciascuno estrae quella che al momento gli torna più utile. E’ invece un quadro di diritti inalienabili e interconnessi, nessuno dei quali può essere assolutizzato a spese degli altri, specialmente dei diritti fondamentali”.

Al filosofo cattolico Vittorio Possenti sta molto a cuore il tema del diritto alla libertà religiosa, “cioè il più antico diritto umano moderno: l’articolo 18 della Dichiarazione che lo riconosce è ispirato a una prassi che comincia in Europa alla fine del Cinquecento. Oggi il mancato rispetto di quella libertà è un fenomeno in crescita. Si parla di più di sessanta paesi in cui essa è negata o fortemente limitata. Pensiamo alla Cina, alla Corea del Nord, a Cuba, al Turkmenistan, a Myanmar, a molti paesi islamici, tra cui Arabia Saudita, Sudan, Eritrea. Ed è inutile nascondersi che oggi il problema del diritto a una effettiva libertà religiosa si pone in modo molto forte in relazione al mondo islamico. Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo islamico, prodotta al Cairo nel 1990, la libertà di cambiare credo religioso, riconosciuta nell’articolo 18, è negata”. Scompare del resto anche nella “Dichiarazione sull’eliminazione di tutte le forme d’intolleranza e di discriminazione fondate sulla religione o il credo”, approvata dall’Onu nel 1981: è uno dei motivi di attrito tra Vaticano e Nazioni Unite.

Accanto alla libertà religiosa, Possenti indica, tra i diritti fondamentali da rendere pienamente operanti, “il diritto alla vita e il diritto alla famiglia e, sul piano economico, la destinazione universale dei beni a tutti gli uomini. Riemergiamo a fatica da un’epoca individualistica che ha pensato male questa destinazione universale, tenuta ben ferma dall’etica religiosa, in particolare cristiana. Non c’è enciclica moderna della dottrina sociale della chiesa, dalla Rerum novarum in avanti, che non lo ricordi”. Per quanto riguarda il diritto alla vita, Possenti rammenta che nel 1947, durante i lavori preparatori per la Dichiarazione, ci fu il tentativo della delegazione libanese, “guidata dal grande diplomatico arabo cristiano Charles H. Malik, di formulare così l’articolo 3: ‘Ogni individuo ha diritto alla vita sin dal concepimento e alla integrità corporea, alla libertà e alla sicurezza della propria persona’. La proposta allora non passò, e personalmente auspico che si arrivi ad accoglierla”. Molto si può fare, spiega ancora Possenti, “anche sul tema del monitoraggio delle violazioni dei diritti umani. Esiste una Corte penale internazionale per il genocidio e i crimini di guerra, non riconosciuta da paesi come Stati Uniti, Cina, Russia, India. Riemerge il dogma della sovranità degli stati, che al dunque rifiutano di sottostare a una corte che vorrebbe sindacare a casa loro. Un rifiuto che vedo come fattore di disordine internazionale”.

In conclusione, il professore dice che “oggi come ieri abbiamo bisogno di una cultura realistica dei diritti umani. I quali sono fondati al meglio in una filosofia a base obiettiva e realistica (parlo del realismo filosofico come quello di Tommaso d’Aquino e, in tempi più recenti, di Maritain), che non cede alle sirene del relativismo e del contestualismo, secondo cui i diritti umani sarebbero una mutevole invenzione occidentale. Ritengo che i diritti umani siano un’esplicitazione della dignità della persona, che siano fondati nella legge morale naturale e che l’uomo li possieda in virtù di essa: proprio per questo spettano a ognuno e non dipendono dal benvolere o dal capriccio del potere politico in vigore in una certa società”.

di Nicoletta Tiliacos 

(Il Foglio, 14 dicembre 2008)

lunedì 10 novembre 2008


Questo sappiamo.
Che tutte le cose sono legate
come il sangue
che unisce una famiglia...
Tutto ciò che accade alla Terra,
accade ai figli e alle figlie della Terra.
L'uomo non tesse la trama della vita;
in essa egli è soltanto un filo.
Qualsiasi cosa fa alla trama,
l'uomo lo fa a se stesso.


Ted Perry, ispirandosi al capo indiano Seattle

venerdì 3 ottobre 2008



TESTAMENTO BIOLOGICO


sole buio


Abiura di una cristiana laica


“Questo è un addio. E’ un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla Chiesa italiana. Monsignor Betori nega la coscienza e la libertà ultima di essere una persona. Si rende conto?”

Questo è un addio. A molti cari amici – in quanto cattolici. Non in quanto amici, e del resto sarebbe un fatto privato. E’ un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica italiana, ...


Questo addio interessa a ben poche persone, e come tale non meriterebbe di esser detto in pubblico. Ma se oggi scrivo queste parole non è certo perché io creda che il gesto o la sua autrice abbiano la minima importanza reale o morale: bensì per un senso del dovere ormai doloroso e bruciante. Basta. La dichiarazione, riportata oggi su “Repubblica”, di Mons. Betori, segretario uscente della Cei, e “con il pieno consenso del presidente Bagnasco”, secondo la quale, per quanto riguarda la fine della propria vita, alla volontà del malato va prestata attenzione, ma “la decisione non deve spettare alla persona”, è davvero di quelle che non possono più essere né ignorate né, purtroppo, intese diversamente da quello che nella loro cruda chiarezza dicono.


E allora ecco: questa dichiarazione è la più tremenda, la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale: la coscienza, e la sua libertà. La sua libertà: di credere e di non credere (e che valore mai potrebbe avere una fede se uno non fosse libero di accoglierla o no?), di dare la propria vita, o non darla, di accettare lo strazio, l’umiliazione del non esser più che cosa in mano altrui, o di volerne essere risparmiato. Sì, anche di affermare con fierezza la propria dignità, anche per quando non si potrà più farlo. E’ la possibilità di questa scelta che carica di valore la scelta contraria, quella dell’umiltà e dell’abbandono in altre mani. Ma siamo più chiari: quella che Betori nega è la libertà ultima di essere una persona, perché una persona, sant’Agostino ci insegna, è responsabile ultima della propria morte, come lo è della propria vita. Fallibile, e moralmente fallibile, è certo ogni uomo. Ma vogliamo negare che, anche con questo rischio, ultimo giudice in materia di coscienza morale sia la coscienza morale stessa? Attenzione: non stiamo parlando di diritto, stiamo parlando di morale. Il diritto infatti è fatto non per sostituirsi alla coscienza morale della persona, ma per permettergli di esercitarla nei limiti in cui questo esercizio non è lesivo di altri. Su questo si basano ad esempio i principi costituzionali che garantiscono la libertà religiosa, politica, di opinione e di espressione.


Oppure ci sono questioni morali che non sono “di competenza” della coscienza di ciascuna persona? Quale autorità ultima è dunque “più ultima” di quella della coscienza? Quella dei medici? Quella di mons. Betori? Quella del papa? E su cosa si fonda ogni autorità, se non sulla sua coscienza? Possiamo forse tornare indietro rispetto alla nostra maggiore età morale, cioè al principio che non riconosce a nessuna istituzione come tale un’autorità morale sopra la propria coscienza e i propri più vagliati sentimenti? C’è ancora qualcuno che ancora pretenda sia degna del nome di morale una scelta fondata sull’autorità e non nell’intimità della propria coscienza? “Non siamo per il principio di autodeterminazione”, dichiara mons. Betori, e lo dichiara a nome della chiesa italiana. Ma si rende conto, Monsignore, di quello che dice? Amici, ve ne rendete conto? E’ possibile essere complici di questo nichilismo? Questa complicità sarebbe ormai – lo dico con dolore – infamia.


di Roberta de Monticelli (Il Foglio, 2 ottobre 2008)


Una testimonianza senza pari per tensione morale e valore delle argomentazioni. Da parte di una persona che vive nella fede cattolica. Laici, agnostici, atei e quanti non si riconoscono nella chiesa di Roma, tutti sostengono le medesime cose. E io con loro. Sono stata educata anch'io, con buon rigore, nella chiesa cattolica. Conservo il buono di quegli insegnamenti e di quelle riflessioni sulla vita e sulla morte, e anche sul rapporto con la divinità, sebbene abbia "abiurato" anch'io molto tempo fa. Un processo lento di allontamento e di ribellione a tante idee e a tanti comportamenti che mi sembravano e mi sembrano assurdi. Non ho mai smesso, però, di continuare a cercare un senso e a vivere almeno come se un senso alto e splendente l'avesse questa nostra vita misteriosa in ogni suo aspetto. Una vita che, lo impariamo presto, non è infinita. E, mentre viviamo, dobbiamo contemplare la morte, ognuno/a con ciò che ha nel cuore e nella mente, ma senza certezza alcuna. Ora ci tocca anche contemplare quella zona sconosciuta tra la vita/non vita e la morte, una zona che immagino come il sole buio di un tramonto di maggio che mi è capitato di fotografare in una giornata comunque felice.


Per completezza: 


Testamento biologico: Bagnasco apre uno spiraglio, Ruini chiude un portone. in Adista.


Immagine 766


Aggiornamento del 4 ottobre 2008


Mi sembra giusto indicare le risposte date a Roberta de Monticelli da Mons. Betori, direttamente chiamato in causa, e di Ferrara, direttore del giornale che ha ospitato l'abiura pubblica della stessa. I miei riferimenti filosofici ed etici sono altri, tuttavia m'interessa ascoltare le voci di chi è più lontano dalle mie posizioni. Ferrara lo sento lontano anche nel metodo, che consiste nel mescolare abilmente argomenti e argomentazioni impressionando benevolmente. A prima vista. Ma, se qualcuno si prendesse la briga di precisare ogni enunciato, ogni concetto, sarebbe facile scoprire dov'è l'imbroglio. Non ho voglia di discutere, però, e poi l'hanno già fatto in tanti. Se potrò, andrò avanti con la pubblicazione di altre testimonianze e, magari, dei testi degli autori che quasi sempre vengono citati senza citazioni, in tal modo piegandoli al proprio punto di vista. Nel frattempo non è inutile accostarsi al Betori-pensiero e al Ferrara-pensiero per farsi un'idea delle posizioni del Vaticano e dei cosiddetti atei-devoti.



  • La risposta di Giuseppe Betori a Roberta de Monticelli: Chiedo anch’io la libertà di coscienza. Altra cosa dall’auto-determinazione. (L'avvenire, 3 ottobre 2008) 

  • La risposta di Giuliano Ferrara a Roberta de Monticelli: La coscienza libera di De Monticelli è abissale fino a diventare un’incognita. (Il Foglio, 3 ottobre 2008


  • La Chiesa gerarchica contro i cattolici. Il teologo Mancuso: Spetta alla persona decidere sulla sua vita. Sulla sospensione delle cure e il testamento biologico la Chiesa non riconosce il primato della libertà di coscienza di Vito Mancuso. QUI .