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venerdì 10 aprile 2020


Il leader socialdemocratico, cancelliere per 8 anni: «L’imperativo del momento è solidarietà. D’accordo con Conte su un fondo europeo per la ricostruzione»


Se il Corriere dovesse impedirne la lettura, un riassunto dell'AGI. "Coronabond sì o coronabond no? “Sono convinto che come prossimo passo abbiamo bisogno anche di uno strumento di debito comune europeo”. In un’intervista al Corriere della Sera l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder all’interrogativo iniziale risponde che possono pur essere gli eurobond, “anche se – sottolinea – non sono veloci da realizzare, oppure – aggiunge poi – può essere un’obbligazione comune e una tantum”.

Tuttavia l’impressione dell’ex cancelliere tedesco tra il 1998 e il 2005 è che “l’atteggiamento della Germania sul debito stia cambiando” perché “la situazione è anche molto diversa da quella della crisi finanziaria del 2008” e “le conseguenze economiche, sociali e umane sono molto più devastanti di allora”. Tanto più, aggiunge l’ex primo ministro, che nel frattempo proprio “molti economisti tedeschi, gli stessi che finora avevano sempre osteggiato gli eurobond, esprimono l’opinione che siano proprio questi la direzione da prendere”.

E a proposito del Fondo per la ricostruzione proposto dal premier italiano Conte, Schröder sostiene che “se c’è un Paese che deve capire che dopo una crisi esistenziale è indispensabile avere un sostegno paneuropeo per la ricostruzione, questo è la Germania” in quanto “noi – aggiunge – siamo stati aiutati molto dopo la Seconda guerra mondiale, nonostante fossimo stati proprio noi a causarla” per aggiungere anche di ritenere che “ci avvantaggiamo tutti dall’Europa unita, sul piano politico, culturale ed economico” dunque per questo “dobbiamo rapidamente tornare a una normalizzazione della vita” dice l’ex cancelliere federale, perché “le frontiere interne non possono rimanere chiuse a lungo. Le persone devono potersi incontrare di nuovo. Le imprese devono tornare a produrre. È una questione che si pone non solo la Germania”. E lancia un appello: “Cruciale è agire insieme e possibilmente cercare soluzioni europee”.

Dunque, “invece di confrontazione, abbiamo bisogno di più cooperazione. Se questa semplice verità venisse compresa a Washington, a Mosca, a Pechino e a Bruxelles, sarebbe un bene per tutti” conclude l’intervista Gerhard Schröder.

https://www.agi.it/economia/news/2020-04-08/coronavirus-germania-debito-ue-schroeder-eurobond-8274498/

domenica 12 luglio 2015

La Germania in due libri

La politica tedesca letta attraverso due libri

www.sbilanciamoci.info. 

11/07/2015
Gli sviluppi recenti del gigante europeo nel volume del politologi britannico Hans Kundnani e in quello del deputato Ue Jean Luc Mélenchon
Negli ultimi tempi abbiamo segnalato, in diversi articoli pubblicati in questo stesso sito, una decina di studi sulla Germania. E le librerie di tutta Europa si vanno riempiendo di ulteriori volumi sul soggetto, tanto la necessità di capire il paese sembra farsi pressante, in relazione al progressivo aumento del suo peso nei destini del nostro continente. Ora i recenti avvenimenti greci acuiscono ancora il desiderio di capire.
Oggi vogliamo aggiungere all’elenco due studi, uno francese e, per la prima volta, anche un testo scritto da uno studioso inglese. L’autore del primo libro è un ben noto politico della sinistra radicale transalpina, Jean Luc Mélenchon (Mélenchon, 2015); egli è stato ministro dal 2000 al 2002, è oggi deputato europeo, cofondatore nel 2008 del partito della sinistra; alle presidenziali del 2012 ha preso l’11% dei voti. Nel secondo caso si tratta invece di un politologo britannico, Hans Kundnani (Kundnani, 2014). Egli è direttore della ricerca presso il Consiglio Europeo per le Relazioni Estere, collabora con l’Università di Birmingham, scrive infine su alcuni noti giornali britannici. Il suo libro sta per essere pubblicato anche da noi.
Due caratteristiche che accumunano i volumi è da una parte il loro approccio fortemente politico, dall’altra le conclusioni sostanzialmente molto negative con cui essi guardano agli sviluppi recenti del paese. Ma molte cose li distinguono.
Il testo di Kundnani
Il libro di Kundnami, che sta suscitando un ampio dibattito nel mondo anglosassone e nella stessa Germania, è in sostanza una rassegna di 150 anni di politica economica tedesca, con l’attenzione comunque focalizzata sulle attuali strategie del paese.
Molti studiosi pensano che la Germania, dopo la catastrofe del 1945, abbia decisamente imboccato una strada totalmente nuova, abbracciando decisamente la democrazia e i valori occidentali, sposando in pieno il progetto europeo e contemporaneamente perseguendo una politica di stretta alleanza con gli Stati Uniti. Per tali studiosi “la questione tedesca”, lo spettro che si era aggirato per l’Europa così a lungo dopo la creazione dell’impero tedesco nel 1871 e la guerra franco-prussiana, è ormai stata seppellita.
Ma H. Kundnani non è dello stesso parere. Dopo la guerra, afferma l’autore, all’inizio la questione tedesca sembrava accantonata per la debolezza stessa del paese. La sua politica era vincolata dal suo passato nazista e dalla guerra fredda, fattori che spingevano al rispetto di tre principi di base, “mai di nuovo”, “mai da soli”, “la politica prima della forza”.
Ma la riunificazione e l’affermazione della piena sovranità del paese dopo la fine della guerra fredda hanno presto portato, per l’autore, a una riconsiderazione dell’identità nazionale e ad una rivisitazione delle opzioni politiche.
Così Kundnani pensa che almeno dal 1999 in poi, a partire dalla costituzione del governo rosso-verde di Schroeder, il paese abbia di nuovo cominciato a sviluppare delle preoccupanti tendenze nazionalistiche. D’altro canto, egli valuta anche che la Germania sta anche progressivamente allentando i legami con i paesi occidentali e con gli Stati Uniti.
Essa ha sempre più presente in particolare quanto le sue fortune economiche dipendano da una parte dell’importazione del gas russo, dall’altra dalle sue esportazioni verso la Cina, paese in particolare verso cui le attenzioni si fanno sempre più rilevanti.
I suoi atteggiamenti egoistici in materia economica hanno portato ad un nuovo e duro atteggiamento verso l’Europa, atteggiamento che minaccia ora di distruggere l’eurozona e l’intero progetto europeo. I politici tedeschi, ossessionati dalla questione del potere e della prosperità economica, sono in effetti concentrati in una visione di breve termine e non si curano del disastro verso il quale stanno portando il loro paese, l’Europa e forse l’intero occidente. In altri termini, la Germania è oggi un paese sempre più potente, ma nello stesso tempo esso appare incapace di guidare l’Europa; così, dopo la crisi, la situazione che emerge nel nostro continente non è tanto quella di un’egemonia tedesca, ma di caos. Il paese è diventato di nuovo come in passato una potente fonte di instabilità.
Sin qui l’analisi di Kundnani.
Le questioni trattate dall’autore appaiono certamente cruciali e a chi scrive le tesi esposte appaiono nella sostanza condivisibili. In particolare, l’ipotesi che le attuali politiche tedesche portino al possibile disastro nel nostro continente appare largamente accettabile e testimoniata da tanti recenti episodi. Il problema cruciale ci sembra quello che per portare avanti il progetto di un’unione politica ed economica europea ci vorrebbe una forte capacità di spinta e di guida che oggi solo la Germania potrebbe fornire; ma tale paese non è oggi in grado di farlo e quando peraltro riesce ad imporre le sue tesi esse vanno nella direzione sbagliata.
Su di un altro fronte, ci sembra invece non pienamente condivisibile la critica al fatto che il paese voglia sviluppare quanto più possibile gli affari, oltre che con la Russia, con la Cina. In realtà ci stanno provando quasi tutti, solo che la Germania ci riesce meglio per una certa complementarietà esistente tra le due economie. Che da questo possa poi nascere un allentamento dei legami con l’occidente è ipotesi forse plausibile, ma certamente soggetta a qualche dubbio; comunque il problema se lo deve essere posto anche Obama se, come sembra, egli ha portato avanti la questione Ucraina anche per tentare di bloccare a una nuova politica verso l’est del paese teutonico.
Un libro comunque da leggere.
Il libro di Mélenchon
Quanto il testo di Kundnani appare rigoroso e approfondito, tanto quello di Mélenchon è invece sostanzialmente sommario ed affrettato, quasi fosse stato preparato per qualche occasionale scadenza politica interna. In sintesi il volumetto si configura come un pamphlet violentemente antitedesco; esso appare condizionato dal vecchio demone antigermanico così presente ancora oggi in Francia. Le sue tesi sono anche presentate con un tono molto aspro.
Le riassumiamo sommariamente.
L’autore afferma nell’introduzione di essersi deciso a scrivere il libro dopo aver visto come la nomenclatura tedesca abbia trattato il nuovo governo greco e il popolo a nome del quale esso parla.
Mélenchon mette subito l’accento sull’affermazione che oltre Reno è nato un mostro, sottolineando l’idea che la Germania è diventata un pericolo per i suoi vicini e i suoi partner. Essa manifesta, per il politico transalpino, una crescente arroganza ed essa cerca di imporre il suo modello soltanto a suo profitto. Una nuove e crudele stagione della storia comincia in Europa, continente tedesco. L’imperialismo tedesco è di ritorno. L’abito europeo è la sua nuova uniforme, l’ordoliberismo il suo credo.
Il testo affronta molti temi specifici, da quelli economici a quelli sociali, a quelli politici. Così, sul fronte sociale il libro ricorda come il 20% dei lavoratori tedeschi siano oggi poveri, come 7 milioni di persone guadagnino meno di 450 euro al mese, come ormai ci siano ormai nel paese due volte di più contratti precari che in Francia. Al netto dell’inflazione un salariato medio guadagnava nel 2013 meno che nel 1999.
L’autore sottolinea anche come il made in Germany oggi sia in gran parte dovuto ai lavoratori polacchi, cechi, ungheresi, slovacchi, con i loro paesi praticamente annessi alla Germania in un ruolo ampiamente subordinato. I piromani tedeschi hanno in effetti per Mélenchon guidato a loro vantaggio la spinta militare dell’occidente verso est, a partire dal Kossovo e dalla Serbia, per trarne poi ampi vantaggi economici.
Oggi quindi per l’autore cambiare il nostro modello sociale e cambiare la Germania sono diventati una sola cosa. Nella conclusione del testo Mélenchon, dopo aver distinto nettamente, con toni quasi razzisti, i due mondi che si collocano rispettivamente di qua e di la del Reno, incita la Francia a rompere l’accerchiamento dell’ordoliberismo, ad avviare un confronto franco e duro con la Germania e a cercare di avviare un progetto alternativo, mettendosi alla testa di una rifondazione dell’Europa dei popoli.
Alla fine, il libro di Melenchon ci sembra troppo affrettato, caratterizzato da un tono molto dogmatico, basato su dati molto parziali, fatto più di slogan che di analisi approfondite, anche se alcune della sue conclusioni, ma certamente non tutte, appaiono condivisibili.

Testi citati nell’articolo
-Kundnani H., The paradox of german power, Hurst, Londra, 2015
-Mélenchon J.-L., Le hareng de Bismark (le poison allemand), Plon, Parigi, 2015
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domenica 4 gennaio 2015

«La Merkel ha dimenticato quando l’Europa dimezzò i debiti di guerra alla Germania» 

di

Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2014

«Scheitert Europa?», «L’Europa fallisce?» si chiede l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer nel suo libro, appena pubblicato, in Germania che è un durissimo atto di accusa contro le «politiche di euroegoismo» attuate dalla Cancelliera Angela Merkel e dal suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, la politica dell’«ognuno per sé», come la definisce l’ex leader dei verdi, politico-maratoneta, voce critica dell’attuale dirigenza tedesca.
Fischer scrive che è «sorprendente» che la Germania abbia dimenticato la storica Conferenza di Londra del 1953, quando l’Europa le cancellò buona parte dei debiti di guerra. «Senza quel regalo - scrive l’ex ministro tedesco nel suo libro - non avremmo riconquistato la credibilità e l’accesso ai mercati. La Germania non si sarebbe ripresa e non avremmo avuto il miratolo economico».
La cura di austerità imposta dalla coppia Merkel-Schaeuble, secondo l’ex ministro tedesco, è stata «devastante» perché ha imposto ai Paesi del Sud Europa «una deflazione dei salari e dei prezzi» impossibile da superare con il peso del rigore; «alla trappola della spirale dei debiti», che condanna questi Paesi a non uscire dalla crisi con il pretesto del risanamento dei conti. Fischer, in definitiva, accusa la Germania della signora Merkel e della sua grande coalizione di «euroegoismo» e di avere la memoria troppo corta. «Se la Bce non avesse seguito le decisioni di Draghi ma le obiezioni dei tedeschi a quest’ora l’euro non esisterebbe più. Il più grande pericolo per l’Europa - conclude il politico tedesco -attualmente è la Germania».
Ma cosa si decise alla Conferenza di Londra del 1953? La prima della classe Germania è andata in default due volte durante il Novecento (nel 1923 e, di fatto, nel secondo dopoguerra). In quella conferenza internazionale le sono stati condonati i debiti di due guerre mondiali per darle la possibilità di ripartire. Tra i Paesi che decisero allora di non esigere il conto c’era l’Italia di De Gasperi, padre fondatore dell’Europa, e anche la povera e malandata Grecia, che pure subì enormi danni durante la seconda guerra mondiale da parte delle truppe tedeschi alle sue infrastrutture stradali, portuali e ai suoi impianti produttivi.

L'ammontare del debito di guerra tedesco dopo il 1945 aveva raggiunto i 23 miliardi di dollari (di allora). Una cifra colossale che era pari al 100% del Pil tedesco. La Germania non avrebbe mai potuto pagare i debiti accumulati in due guerre. Guerre da essa stessa provocate. I sovietici pretesero e ottennero il pagamento dei danni di guerra fino all’ultimo centesimo. Mentre gli altri Paesi, europei e non, decisero di rinunciare a più di metà della somma dovuta da Berlino.
Il 24 agosto 1953 ventuno Paesi (Belgio, Canada, Ceylon, Danimarca, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Norvegia, Pakistan, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Repubblica francese, Spagna, Stati Uniti d'America, Svezia, Svizzera, Unione Sudafricana e Jugoslavia), con un trattato firmato a Londra, le consentirono di dimezzare il debito del 50%, da 23 a 11,5 miliardi di dollari, dilazionato in 30 anni. In questo modo, la Germania poté evitare il default, che c’era di fatto.
L’altro 50% avrebbe dovuto essere rimborsato dopo l'eventuale riunificazione delle due Germanie. Ma nel 1990 l’allora cancelliere Helmut Kohl si oppose alla rinegoziazione dell’accordo che avrebbe procurato un terzo default alla Germania. Anche questa volta Italia e Grecia acconsentirono di non esigere il dovuto. Nell’ottobre 2010 la Germania ha finito di rimborsare i debiti imposti dal trattato del 1953 con il pagamento dell'ultimo debito per un importo di 69,9 milioni di euro. Senza l’accordo di Londra, la Germania avrebbe dovuto rimborsare debiti per altri 50 anni.
Il resto della storia è noto. E’ scritto nei sacrifici imposti dalla rigida posizione tedesca ai Paesi del Sud Europa che da anni combattono con una crisi che sembra senza fine. Fischer non ha dubbi. E punta il dito contro la sua connazionale Merkel: «Né Schmidt e né Kohl avrebbero reagito in modo così indeciso, voltandosi dall’altra parte come ha fatto la cancelliera. Avrebbero anzi approfittato della impasse causata dalla crisi per fare un altro passo avanti verso l’integrazione europea. La Merkel così distrugge l’Europa».

 

 

lunedì 23 settembre 2013

Rigidità e Politica

Si metterà un po' calma la signora tedesca ora che è stata eletta con gran trionfo?



Copio da Micromega

I debiti della Germania e l’austerità della Merkel

di Luciano Gallino, da Repubblica, 26 agosto 2013

L'intervista concessa giorni fa dalla Cancelliera Merkel alla Frankfurter Allgemeine, apparsa anche su Repubblica, si presenta con due facce. La prima è quella di un manifesto elettorale, in vista della tornata di settembre. Angela Merkel è nota per saper interpretare come pochi altri politici le idee e gli umori del cittadino medio del suo paese.

Che si possono così compendiare: noi lavoriamo sodo, sappiamo fare il nostro mestiere e amministriamo con cura il denaro pubblico e privato; quasi tutti gli altri, nella Ue, lavorano poco, sono degli incapaci e vivono al di sopra dei loro mezzi. La seconda faccia dell'intervista è una calorosa difesa delle politiche di austerità e delle riforme che la Cancelliera ha imposto ai Paesi Ue affinché risanino i bilanci pubblici e riducano i debiti. Ogni personaggio politico sceglie le strategie comunicative che crede ed è probabile che quelle di Angela Merkel le assicurino il terzo mandato consecutivo. Su di esse non c'è quindi nulla da dire. Ma la difesa strenua dell'austerità e il messaggio implicito nell'intervista "i Paesi Ue sono pieni di debiti e noi no, per cui ci tocca insegnargli come si fa ad uscirne" meritano qualche osservazione.

La prima è che la Germania, se si guarda alla sua storia, non ha nessun titolo per impartire lezioni in tema di debiti. Un paio di anni fa un docente tedesco di storia economica, Albrecht Ritschl, ebbe a definire la Germania, in un'intervista a "Spiegel Online", il debitore più inadempiente del XX secolo. La Germania di Weimar aveva contratto tra il 1924 e il 1929 grossi debiti con gli Stati Uniti per pagare le riparazioni dellaI Guerra mondiale. La crisi economica del 1931 consentì al paese debitore di azzerarli, con un danno enorme per gli Usa. La Germania di Hitler smise semplicemente di pagare le riparazioni, sebbene esse fossero state drasticamente ridotte a confronto dell'entità punitiva indicata dal trattato di Versailles del 1919. Per parte sua il nuovo stato federale ha pagato somme minime per i danni provocati dalla Germania nella II Guerra mondiale, grazie anche al benvolere degli americani che gradivano si rafforzasse per fare da argine all'Urss.

Ma soprattutto non ha pagato quasi nulla per restituire ai Paesi europei occupati tra il 1940 e il 1944 le ingenti risorse economiche che la Germania nazista aveva prelevato a forza da essi. Lo stesso professor Ritschl ha stimato, in un articolo presentato nel 2012 alla 40a Conferenza di Scienze Economiche, che in moneta attuale codesto debito verso l'estero ammonterebbe a 2,2-2,3 trilioni di euro, equivalente all'incirca a un anno intero di Pil della Germania attuale. Avesse dovuto restituire anche soltanto un trilione ai Paesi spogliati dai nazisti, la nuova Germania avrebbe dovuto sborsare decine di miliardi l'anno per parecchi decenni.

A parte l'oblio del pessimo record della Germania come debitore, la orgogliosa difesa delle virtù dell'austerità che Angela Merkel fa nella sua intervista male si accorda con le cifre. Secondo dati Eurostat nei Paesi Ue si contano oggi oltre 25 milioni di disoccupati e 120 milioni di persone a rischio povertà per varie cause: reddito basso anche quando lavorano, gravi deprivazioni materiali, appartenenza a famiglie i cui membri riescono a lavorare soltanto poche ore la settimana. La scarsità di impieghi, i tagli alla spesa sociale e all'occupazione nel settore pubblico hanno ridotto male anche le classi medie dei Paesi Ue.

Neanche i lavoratori tedeschi se la passano bene. I "minijobbers", coloro che debbono accontentarsi dei contratti da 450 euro al mese sgravati da tasse e contributi sociali, sono in forte aumento e si aggirano oramai su 8 milioni, circa un quinto delle forze di lavoro. Tra le cause di tutto ciò va annoverata la crisi, certo. Ma la crisi è iniziata sei anni fa. La recessione che ha provocato avrebbe dovuto essere combattuta in modo rapido e deciso con un aumento mirato della spesa pubblica,ei governi europei avevano il sacrosanto dovere di farlo dopo che avevano salvato le banche private a colpi di trilioni di denaro pubblico. Tuttavia sotto la sferza del governo tedesco essi adottarono la più dissennata delle politiche concepibili dinanzi a una recessione: la contrazione della spesa. Perfino gli economisti del Fmi, per decenni fautori dei più duri aggiustamenti strutturali, sono arrivatia scrivere che l'austerità nella Ue ha prodotto risultati negativi. È rimasta la signora Merkel a vantarne i benefici.

La stessa Cancelliera e il governo tedesco dovrebbero inoltre ricordarsi più spesso che la prosperità della Germania deve molto alla sottovalutazione del "suo" euro, senza la quale i 200 miliardi di eccedenza delle esportazioni sulle importazioni - 80 dei quali sono generati entro la Ue - si ridurrebbero a poca cosa. A fine 2011 un team di economisti della Ubs aveva stimato che l'euro tedesco fosse sottovalutato del 40 per cento.

Altre fonti recenti indicano che esso vale2 dollarie non 1,40 come dice il cambio ufficiale - uno scarto appunto del 40 per cento. E pochi mesi fa Wofgang Münchau del "Financial Times", senza fare cifre, parlava di "enormi squilibri" tra il valore dei diversi euro dell'eurozona. Tali squilibri, tra cui primeggia quello tedesco, sono dovuti al fatto che essendo l'euro una moneta unica, il suo valore nominale non può variare in modo da compensare le differenti capacità di produrre ed esportare delle economie europee. Se così fosse, le esportazioni tedesche sarebbero diventate da tempo assai più care. Ora non ci permetteremo qui di definire i tedeschi "portoghesi d'Europa", come ha fatto qualche commentatore, ma un miglior apprezzamento dei vantaggi differenziali che l'euro reca alla Germania da parte del suo governo sarebbe gradito.

Ad onta dei suoi difetti di nascita, di un trattato istitutivo che assomiglia più allo statuto di una camera di commercio che a un documento politico, dei suoi squilibri interni, l'Unione europea rimane la più grande invenzione politica, civile ed economica degli ultimi due secoli. Per continuare a rafforzare tale invenzione gli stati membri hanno bisogno della Germania, così come questa ha bisogno di loro. Gioverebbe a tale processo poter discutere con governanti tedeschi che tengano più presente la storia economica e sociale del loro Paese, siano meno altezzosi nei confronti dei Paesi che giudicano colpevoli per il solo fatto di essere indebitati (non a caso Schuld in tedesco significa sia colpa che debito), e studino magari un po' di economia per capire che l'austerità in tempi di recessione è una ricetta suicida. Per chi è costretto ad applicarla, ma, alla lunga, anche per chi la predica. Inutile aggiungere che allo stesso sviluppo gioverebbe avere negli altri Paesi, compresa l'Italia, dei governanti che a Berlino o a Bruxelles non vadano soltanto per dire che il loro Parlamento approverà senza condizioni qualsiasi trattatoo dettato che le due capitali (una, in realtà) si sognino di confezionare.

mercoledì 10 ottobre 2012

PAURE STORICHE

 
 
E' di nuovo una questione di egemonie teutoniche? Cambiano i modi e gli strumenti ma non le ideologie di potenza? L'incomprensione dei fatti presenti, la volontà di dimenticare i fatti del passato continueranno come sempre? Quando finirà il buio della democrazia sopraffatta dai "mercati"? Chi farà nuove leggi attuative in difesa della democrazia e dei diritti umani, dopo la cancellazione dell'ultimo baluardo, lo Glass-Steagall Act, nel lontanissimo 1999?
 
 
Forse si muove qualcosa, nella mente della potenza tedesca che da anni comanda in Europa sapendola solo dividere, non guidarla e federarla?

Ancora non è chiaro, ma se
Angela Merkel ieri è corsa a Atene 1 - dove la sua politica e il suo Paese sono esecrati, dove è stato necessario militarizzare la capitale per domarne la collera - vuol dire che vi sono elementi nuovi, che destano spavento a Berlino.
 
Uno spavento che si è dilatato, dopo l'intervista di Antonis Samaras al quotidiano Handelsblatt di venerdì. Sono parole diverse dal solito: il Premier greco non si sofferma sui debiti, né sul Fiscal Compact, né sul Fondo salva-Stati approvato lunedì a Lussemburgo.
 
La prima visita del Cancelliere, invocata da Samaras, avviene perché si comincia a parlare dell'essenziale: di storia, di memorie rimosse e vendicative, di democrazia minacciata. Estromessa, la politica prende la sua rivincita e fa rientro. Caos è il vocabolo usato nell'intervista, e il caos impaura la Germania da sempre. Anche perché quel che le tocca vedere è una replica: più precisamente, la replica di una storia che Berlino finge di dimenticare, ma che è gemella della sua.

Il caos, i tedeschi sanno cos'è: specie quello di Weimar, quando la democrazia, stremata dai debiti di guerra e dalla disoccupazione, cadde preda di Hitler. È lo scenario descritto da Samaras: anche qui incombe una formazione nazista, che si ciba di caos e povertà. Alba dorata ha ottenuto alle elezioni il 6,9 per cento, ma oggi nei sondaggi è il terzo partito. I suoi principali nemici sono l'Unione, e tutto quel che l'Europa ha voluto essere dal dopoguerra: luogo di tolleranza democratica, di assistenza ai deboli attraverso il Welfare.

Lo straripare della disoccupazione, spiega Samaras, dà le ali a un partito che non ha eguali in Europa, tanto esplicita è la sua parentela con il nazismo e perfino con i suoi simboli (una variazione della svastica). L'odio dell'immigrante, del gay, del disabile, è la sua ragion d'essere.
 
Se l'Europa non aiuta la Grecia dandole più tempo, a novembre le casse statali saranno vuote e può succedere di tutto. In parlamento i deputati nazisti si fanno sempre più insolenti, sicuri. L'ex Premier George Papandreou è bollato come "greco al 25 per cento": la madre è americana. Ogni nuovo emigrato va tenuto lontano, con mine anti-uomo lungo le frontiere.

Non è male che infine si cominci a dire come stanno davvero le cose, e quel che rischiamo: non tanto lo sfaldarsi dell'euro, quanto il tracollo delle mura che l'Europa si diede quando nacque. Mura contro le guerre, contro le diffidenze nazionaliste, contro la logica delle punizioni. Fare l'Europa significava dire No a questo passato mortifero, ed ecco che esso si ripresenta nelle stesse vesti. Per la coscienza tedesca, uno scacco immenso: la storia le si accampa davanti come memento e come Golem, da lei stessa resuscitato.

Oltrepassare i calcoli sull'euro e sondare verità sin qui nascoste aiuta a scoprire quel che Atene sta divenendo: un capro espiatorio. Un laboratorio dove si sperimentano ricette costruttiviste e al tempo stesso si collauda la storia che si ripete: non come tragedia, non come farsa, ma come memoria stordita, morta.

Come possono i tedeschi scordare il muro portante del dopoguerra, e cioè la coscienza che la punizione nei rapporti tra Stati è veleno, e che i debiti bellici della Germania andavano perciò condonati? Nell'accordo di Londra sul debito estero, nel '53, fu deciso di prorogare di 30 anni il rimborso, e di esigerlo solo qualora non avesse impoverito la Repubblica federale. I greci non l'hanno dimenticato: un comitato di esperti sta calcolando quel che Berlino deve a Atene per i disastri dell'occupazione hitleriana (circa 7,5 miliardi di euro). "Le riparazioni non sono più un problema", replica il governo tedesco. Lo saranno di nuovo, se il castigo ridiventa criterio europeo come nel 1918 verso la Germania.

La Grecia certo non è senza colpe. All'indisciplina di bilancio s'accoppiano la corruzione politica, l'enorme evasione fiscale. Il caos è in buona parte endogeno, come sostenne Alexis Tsipras del partito Syriza quando mise al primo punto del programma la lotta ai corrotti. Ma è un caos non più grave dell'italiano, e anche se Syriza ha manifestato ieri contro la Merkel, assieme ai sindacati, è scandaloso che il Cancelliere si rifiuti di incontrare il primo partito d'opposizione, solo perché le ricette anti-crisi sono ritenute fallimentari.

In fondo non c'è bisogno di Samaras, per penetrare la realtà greca ed europea, e ammettere che nessuno può sopportare una recessione quinquennale. Basta leggere blog e libri indipendenti. Bastano i testi di storia, che raccontano di un paese dove la resistenza antinazista non fu artefice della democrazia postbellica come in Italia, ma venne perseguitata ed esiliata dagli anglosassoni: il potere militare fu da loro favorito per decenni (colonnelli compresi).

I romanzi di Petros Markaris sul commissario Kostas Charitos - una specie di Montalbano greco - sono conosciuti in Italia. L'ultimo, pubblicato da Bompiani nel 2012, s'intitola L'Esattore, e narra di un assassino seriale che elimina uno dopo l'altro grandi evasori e politici corrotti, visto che lo Stato non sa né vuole agire. L'assassino assurge a eroe nazionale, gli indignados di Piazza Sìntagma vogliono candidarlo: "L'Esattore nazionale è un Dio!", gridano. Oggi esce in Francia un film di Ana Dumitrescu, Khaos, che raffigura il pandemonio ellenico. Dicono nel film: "Il pericolo è che la collera del popolo si trasformi in terribile bagno di sangue, sostituendosi all'azione politica".
Il sottotitolo di Khaos è "i volti umani della crisi": volti che la trojka non vede, né la Merkel, né i governi del Sud Europa che trattano Atene come paria, per paura d'esser confusi con essa. Ma il paria parla di noi, e dell'Europa tutta. Habermas probabilmente pensava alla Grecia, nel discorso tenuto il 5 settembre davanti al partito socialdemocratico: i piani di austerità delineano, ovunque, un percorso post-democratico. Quel che assottigliano non è tanto la sovranità assoluta degli Stati nazione - oggi anacronistica - quando la sovranità del popolo, che è costitutiva della democrazia e non è affatto obsoleta. I diritti sovrani sottratti tramite Patto fiscale e Fondo salva-stati semplicemente evaporano, "perché non trasferiti verso un autentico, democratico legislatore europeo".
 
Il potere resta nelle mani di trojke e Consigli dei ministri non eletti dai cittadini europei, o di tecnici che possedendo la scienza infusa pretendono di superare gli Stati nazione da soli, e surrettiziamente.

"Credo che questo sia il prezzo che paghiamo alla soluzione tecnocratica della crisi", conclude il filosofo: "In tale configurazione, imbocchiamo un percorso postdemocratico che approderà a un federalismo esecutivo. La democrazia si perde per strada, e tutti mancheremo l'occasione di regolare i mercati finanziari (...). Un esecutivo europeo del tutto indipendente da elettorati che possano essere democraticamente mobilitati smarrirà ogni motivazione e ogni forza per azioni di contrasto".

L'ora della verità è quella in cui i numeri non occupano l'intero spazio mentale, e in scena fanno irruzione la storia, le memorie scomode delle guerre europee e dei dopoguerra. Per questo sono importanti l'allarme di Samaras, il disagio che ha suscitato in Germania, l'impervia corsa della Merkel a Atene.
 
Qualcosa si muove: non necessariamente in meglio, ma almeno si è più vicini al vero. Si chiama Alba dorata il pericolo greco, ed è alba tragica. All'orizzonte si staglia la figura dell'Esattore Nazionale, salutato come Apollo vendicatore: che viene e uccide i traditori della democrazia. È così, dai tempi dell'Iliade, che dalle nostre parti iniziano le guerre.
 
 
LA REPUBBLICA, 10 ottobre 2012   -   © Riproduzione riservata  

martedì 24 luglio 2012

«La Germania non affondi l'Europa
Sarebbe la terza volta in cent'anni»

Fischer, ex ministro degli Esteri tedesco: «La cancelliera miope. Se l'euro cade, noi saremo i grandi perdenti»


BERLINO - «Per due volte, nel XX secolo, la Germania con mezzi militari ha distrutto se stessa e l'ordine europeo. Poi ha convinto l'Occidente di averne tratto le giuste lezioni: solo abbracciando pienamente l'integrazione d'Europa, abbiamo conquistato il consenso alla nostra riunificazione. Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell'ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è proprio questo».

Joschka Fischer sceglie parole pesanti come pietre per lanciare un allarme fatto di passione e ragione, cuore e testa d'europeo. L'ex ministro degli Esteri tedesco è «preoccupato» da una situazione che definisce «seria, molto seria» per l'Europa. Ed è anche scettico, perché non vede in giro «forze e leader, disposti a fare i passi necessari», senza i quali «rischia di essere spazzato via il miracolo di due generazioni di europei: l'investimento massiccio in una costruzione istituzionale, che ha garantito il più lungo periodo di pace e prosperità nella storia del Continente».

Lo incontro nella sede della «Joschka Fischer and Company», la società di consulenza strategica che ha fondato da pochi anni. Le finestre del suo ufficio danno sulla Gendarmenmarkt, la piazza dove i re prussiani facevano sfilare i loro reggimenti e il regime comunista della Ddr organizzava i suoi raduni. Ora è il cuore pulsante della nuova Berlino, magnifica capitale di una Germania cui l'Europa in crisi torna a guardare con diffidenza e malumore.
«Mi preoccupa - spiega Fischer - che l'attuale strategia chiaramente non funziona. Va contro la democrazia, come dimostrano i risultati delle elezioni in Grecia, in Francia e anche in Italia. E va contro la realtà: lo sappiamo sin dalla crisi del 1929, dalle politiche deflattive di Herbert Hoover in America e del cancelliere Heinrich Brüning nella Germania di Weimar, che l'austerità in una fase di crisi finanziaria porta solo a una depressione. Sfortunatamente, sembra che i primi a dimenticarlo siamo proprio noi tedeschi. Certo l'economia della Germania è in crescita, ma ciò può cambiare rapidamente, anzi sta già cambiando».
L'ex vice-cancelliere del governo rosso-verde invita a non farsi alcuna illusione: l'Europa è oggi sull'orlo di un abisso. «O l'euro cade, torna la re-nazionalizzazione e l'Unione Europea si disintegra, il che porterebbe a una drammatica crisi economica globale, qualcosa che la nostra generazione non mai vissuto. Oppure gli europei vanno avanti verso l'Unione fiscale e l'Unione politica nell'Eurogruppo. I governi e i popoli degli Stati membri non possono più sopportare il peso dell'austerità senza crescita. E non abbiamo più molto tempo, parlo di settimane, forse di pochi mesi».
Ma perché non sarebbe possibile limitare le conseguenze di un'uscita controllata della Grecia dall'Eurozona?

«L'Euro è un progetto politico. Non è che avessimo bisogno della moneta unica agli inizi degli Anni Novanta. Doveva essere il vettore dell'integrazione politica: questa era l'idea di fondo. Nessuno oggi può garantire che se la Grecia abbandona l'euro, non si verifichino un crollo della fiducia, una corsa alle banche in Spagna, in Italia, probabilmente anche in Francia, cioè una valanga finanziaria che seppellirebbe l'Europa. Secondo, cosa pensa che farebbero i greci una volta fuori? Cercherebbero altri partner, come la Russia per esempio, che è già pronta e nessuno ne parla. Diremmo addio all'ampliamento verso Sud-Est, l'integrazione europea dei Balcani sarebbe finita. È una follia: si possono avere opinioni diverse sulla vocazione europea della Turchia, ma non c'è dubbio che i Balcani, regione intrinsecamente instabile, siano parte dell'Europa. Senza contare che la Grecia fuori dall'euro precipiterebbe nel caos».

La discussione attuale si concentra sugli eurobond. Ma per concretizzarli occorrerebbero mesi, se non anni. Non è un falso dibattito, rispetto ai tempi brevi di cui lei parla?
 
«No, è un dibattito importante. In fondo dietro gli eurobond c'è uno dei prossimi passi da compiere. Gli elementi della soluzione sono quattro: Unione politica e Unione fiscale dell'Eurogruppo, crescita e riforme strutturali. Sono per esempio ammirato dal fatto che in questa fase, l'Italia abbia mobilitato i suoi istinti di sopravvivenza dando vita al governo Monti, che sta lavorando bene. Ma rimango perplesso che Hollande, il nuovo presidente francese del quale apprezzo l'impegno per la crescita, voglia riportare a 60 anni l'età pensionabile. Nessuno di questi elementi va trascurato o annacquato, devono viaggiare insieme se l'Europa vuole davvero superare la sua crisi esistenziale».

Perché la cancelliera Merkel non si muove dalla linea dell'austerità?
«Angela Merkel pensa solo alla sua rielezione. Ma è un calcolo miope e fa un grosso errore. Perché sul piano interno è già molto indebolita. Merkel è forte finché l'economia tedesca è forte. In Germania non c'è crisi economica, ma stiamo attenti perché ci coglierà in modo brutale. Se non ci assumiamo la responsabilità di guidare l'Europa insieme fuori dalla crisi, saranno guai grossi, perché noi saremmo i grandi perdenti, sia sul piano economico che su quello politico».

Quale governo tedesco può fare ciò che lei propone?
«Solo un governo di grande coalizione. Altrimenti, ogni partito all'opposizione sarebbe tentato di sfruttare questa situazione. Ma un governo di unità nazionale ce la farebbe. Non è un passo semplice. "Perché dovremmo farlo?", è la domanda prevalente in Germania"».

Già, perché dovreste farlo?
«Semplice, perché altrimenti vanno a rotoli sessant'anni di unità europea. Fine. Rien ne va plus . Purtroppo non abbiamo più un Helmut Kohl a dircelo».

E come dovrebbero svolgersi gli avvenimenti, qual è il primo passo
immediato?
«L'europeizzazione del debito. Il problema, qui la Germania ha ragione, è di evitare che poi le riforme strutturali per migliorare la competitività si fermino o vengano ammorbidite. Non si tratta di europeizzare l'intero debito, ci sono proposte interessanti sul tavolo. Ma il punto di fondo è che la Germania deve garantire con il suo potere economico e le sue risorse la sopravvivenza dell'Eurozona. Bisognerà dire: siamo un'Unione fiscale, restiamo insieme. Sarà difficile, i mercati diranno la loro, le agenzie di rating toglieranno probabilmente la tripla A alla Germania, ma bisognerà resistere e per farlo abbiamo bisogno dell'Unione politica. E qui è la Francia che deve dire sì a un governo comune, con controllo parlamentare comune della zona euro. In gioco è il ruolo globale dell'Europa nel XXI secolo. Vogliamo averne uno? Solo insieme potremo dire qualcosa sul nostro futuro ed essere ascoltati».

Non è troppo tardi per tutto questo?
«No, abbiamo una chance, che probabilmente si aprirà concretamente poco prima del crollo. Bisogna avere nervi saldi, il lusso delle illusioni non ci è concesso. Finora abbiamo solo reagito. Le decisioni dell'Ue hanno sempre inseguito gli avvenimenti. Non abbiamo mai agito in modo strategico. Non basta più».

Cosa vuol dire governo e controllo parlamentare comuni?
«Dimentichiamo per un attimo i 27. Al momento decisivi sono i Paesi dell'Eurozona. I capi di governo agiscono già di fatto da esecutivo europeo, i Parlamenti nazionali hanno la sovranità sul bilancio. Dobbiamo fare passi concreti verso una federazione: nel 1781 c'era una situazione simile in America. Cosa fece Alexander Hamilton? Federalizzò il debito degli Stati, in bancarotta per le spese della Rivoluzione contro gli inglesi. Se non lo avesse fatto, la giovane Confederazione non sarebbe sopravvissuta. Ecco cosa dobbiamo fare anche noi, qui e subito. Purtroppo non siamo governati da leader politici, ma da contabili».

E d'accordo a eleggere un presidente dell'Ue a suffragio universale, come suggerisce Wolfgang Schäuble?
«Non porterebbe nulla. Avrebbe molto più senso se le maggioranze e le opposizioni parlamentari di ogni Stato dell'Eurozona fossero rappresentate in una Eurocamera, dove discutere direttamente, con tutta la legittimità necessaria, l'attenzione mediatica e il coinvolgimento delle popolazioni. Non sarebbe più una creazione esterna come l'Europarlamento, che potrebbe diventare Camera bassa. Mentre i leader sarebbero membri del governo europeo».
L'intervista è finita. Ma Fischer, sempre affascinato dalla Storia, vuole ancora raccontare un aneddoto: «Sono stato spesso a Venezia, ma solo alcuni mesi fa, per la prima volta ho dormito in laguna. Un'esperienza indimenticabile: alle 7 della sera, la città era vuota, nulla sembrava vivo. E allora ho pensato alla Serenissima, alla grande potenza che ha dominato il Mediterraneo e parte del Medio Oriente, esercitando per secoli una forte egemonia economica, politica e culturale, ridotta a un bellissimo museo deserto. Vogliamo che anche l'Europa diventi questo? Non credo, ma potremmo esservi molto vicini».

26 maggio 2012 (modifica il 27 maggio 2012)

lunedì 23 luglio 2012

Helmut Schmidt:

La mia Germania deve cambiare rotta


Chi crede che l’Europa possa essere risanata solo grazie ai tagli alla spesa dovrebbe studiare le nefaste ripercussioni della politica deflazionistica perseguita da Heinrich Brüning nel 1930-1932 che provocò la depressione e un’insostenibile disoccupazione, avviando di fatto il declino della prima democrazia tedesca. Oggi come ieri, il prezzo del nostro fallimento politico ed economico può essere altissimo. (MicroMega)
di Helmut Schmidt, da il Sole 24 Ore, 5 giugno 2012

Quando si è ormai avanti con l’età, si tende a ragionare per ampi lassi di tempo, con uno sguardo alla storia passata, ma anche verso un futuro auspicato e desiderato. Tuttavia, qualche giorno fa non sono stato in grado di dare una risposta univoca a una domanda molto semplice: "Quando la Germania diventerà finalmente un Paese normale?" Ho risposto che in un futuro prossimo la Germania non diventerà un Paese "normale" a causa del nostro enorme e peculiare fardello storico e della posizione centrale e soverchiante che il nostro Paese occupa a livello demografico ed economico in un continente molto piccolo, ma articolato in una compagine variegata di Stati nazionali.
Ogni volta che i sovrani, gli Stati o i popoli al centro erano deboli, i vicini avanzavano dalla periferia verso iI centro svigorito. Quando però le dinastie o gli Stati dell’Europa centrale erano più potenti o quando credevano di esserlo, sono stati loro ad attaccare la periferia.
Mentre la conoscenza e il ricordo delle guerre medioevali sono praticamente sprofondati nella coscienza dell’opinione pubblica e di massa delle nazioni europee, la memoria del secondo conflitto mondiale e dell’occupazione tedesca svolge ancora oggi un ruolo dominante anche se latente. Per noi tedeschi è decisivo il fatto che quasi tutti i nostri vicini e quasi tutti gli ebrei sparsi nel mondo ricordano l’Olocausto e le infamie commesse nei Paesi della periferia durante l’occupazione tedesca. Forse. Non ci è sufficientemente chiaro il fatto che quasi tutti i nostri vicini, probabilmente ancora per molte generazioni, coveranno una diffidenza latente nei nostri confronti.
Anche le generazioni che sono venute dopo devono fare il conto con questo fardello. La generazione di oggi non deve dimenticare che è stata la diffidenza verso un futuro sviluppo della Germania che nel 1950 ha aperto la strada all’integrazione europea.
Due le ragioni che indussero Churchill nel 1946 a invitare i francesi a riconciliarsi con i tedeschi per fondare gli Stati Uniti d’Europa: la creazione di una resistenza comune contro la minaccia dell’Urss e l’imbrigliamento della Germania in una più ampia unione. Con lungimiranza Churchill aveva previsto il rafforzamento della Germania. I leader europei e americani (cito George Marshall, Eisenhower, Kennedy, Churchill, Jean Monnet, Adenauer, de Gaulle, De Gasperi ed Henri Spaak) non agirono in forza di un "euro-idealismo", ma perché conoscevano la storia. Intravvedevano la necessità di evitare una prosecuzione della lotta tra periferia e centro tedesco.
Chi non ha compreso questo motivo originario dell’integrazione europea ignora una premessa imprescindibile per la soluzione dell’attuale crisi. Quanto più nel corso degli anni la Repubblica federale tedesca andava incrementando il proprio peso economico, militare e politico, tanto più l’idea di un’integrazione europea si profilava ai leader europei come una garanzia contro una presumibile inclinazione e debolezza dei tedeschi nei confronti del potere. La resistenza che Margaret Thatcher, Mitterand o Andreotti opposero nel 1989-1990 a una riunificazione nasceva dalla preoccupazione nei confronti di una Germania troppo potente. Ho ascoltato Jean Monnet quando fui chiamato a partecipare al Comitato "Pour les États Unis d’Europe" nel 1955 e ritengo che, in materia d’integrazione, il suo acume si palesò proprio nell’idea di perseguire l’intento mediante un processo graduale.
Da allora, non per ragioni ideologiche, ma perché comprendo l’interesse strategico della nazione tedesca, sono un sostenitore dell’integrazione e dell’imbrigliamento della Germania. L’intesa che instaurai con Giscard d’Estaing aprì le porte a un periodo di cooperazione franco-tedesca e al rafforzamento dell’integrazione, continuati con successo da Mitterand e Kohl. Al tempo stesso, dal 1950-1952 al 1991 la Comunità europea crebbe gradualmente da sei a dodici Stati.
Sul terreno preparato da Jacques Delors, Mitterand e Kohl diedero vita nel 1991 a Maastricht, all’Unione monetaria, concretizzatasi nel 2001. Alla base c’era, la preoccupazione francese per una Germania troppo potente e per un marco tedesco troppo forte. Nel frattempo l’euro è diventato la seconda valuta nell’economia mondiale.
Nelle relazioni interne come in quelle esterne la moneta unica si è rivelata la più stabile del dollaro e di quanto fosse stato il marco nei suoi ultimi dieci anni di vita. Tutto il parlare di questi tempi su una presunta "crisi dell’euro" non è altro che uno sventato ciarlare.
Dal Trattato di Maastricht il mondo ha vissuto grandi cambiamenti. C’è stata la liberazione dell’Europa dell’Est e l’implosione dell’Urss, la straordinaria ascesa della Cina e degli altri "emergenti". L’economia reale è ormai "globalizzata" e gli attori dei mercati finanziari globali si sono accaparrati un potere incontrollato. Al tempo stesso, la popolazione mondiate entro la prima metà del XXI secolo arriveremo a 9 miliardi di persone e gli europei ne rappresenteranno solo il 7% mentre fino al 1950, per ben due secoli, ne costituivano più del 20%. Parimenti diminuisce la quota europea del Pil globale: entro il 2050 si ridurrà al 10% dal 30% del 1950.
Se guardiamo dall’esterno, notiamo che da un decennio la Germania suscita un certo disagio. Sono poi emersi dubbi rilevanti sulla continuità della politica tedesca e sulla sua affidabilità. Tali dubbi nascono anche da errori commessi dai nostri politici e dall’altra parte dalla forza economica della Germania. Tuttavia non siamo sufficientemente consapevoli che la nostra economia è fortemente integrata nel mercato europeo ed è anche largamente dipendente dalla congiuntura mondiale. Andremo perciò incontro a un rallentamento della crescita delle esportazioni tedesche. Allo stesso tempo assistiamo a uno squilibrio nel nostro sviluppo a fronte di una persistente e massiccia eccedenza della bilancia commerciale e delle partite correnti.
Queste eccedenze rappresentano da anni il 5% del Pil e sono pari a quelle della Cina. Non ne siamo del tutto coscienti perché non sono più espresse in marchi tedeschi, ma i politici sono però costretti a prenderne atto. Tutte le nostre eccedenze sono in realtà deficit per gli altri. I crediti che abbiamo verso gli altri sono i loro debiti. Si tratta di una incresciosa lesione dell’«equilibrio nei rapporti economici con l’estero» che un tempo abbiamo elevato a ideale di legge. Questa infrazione preoccupa i nostri partner. E le voci che negli ultimi tempi si sono sollevate, soprattutto dagli Stati Uniti, che pretendono dalla Germania l’assunzione di un ruolo di leader europeo, non fanno che aumentare il sospetto dei nostri vicini, richiamando in vita i temuti fantasmi del passato.
Lo sviluppo economico e la contemporanea crisi della capacità d’azione degli organi della Ue hanno spinto la Germania ancora una volta a occupare un ruolo centrale. Insieme al presidente francese, il cancelliere Merkel ha accettato questo ruolo. Ma in diverse capitali europee cresce l’ansia nei confronti di un dominio tedesco.Questa volta non si tratta di un potere politico e militare, ma di una preponderanza economica. Se noi tedeschi ci lasciassimo tentare a pretendere una leadership europea avremo come risposta una decisa opposizione da un numero sempre crescente di Paesi limitrofi. La preoccupazione della periferia nei confronti di un centro troppo forte tornerebbe alla ribalta in tempi rapidi e le conseguenze ipotizzabili sarebbero deleterie per la Ue e implicherebbero un isolamento di Berlino.
La posizione centrale che la Germania occupa dal punto di vista geopolitico, l’infausto ruolo che ha assunto nel corso della storia europea fino alla metà del XX secolo, il rendimento attuale impongono a ogni governo tedesco di acquisire la capacità di immedesimarsi negli interessi dei partner europei e di mostrarsi pronti a offrire aiuto.
Del resto lo straordinario processo di ricostruzione degli ultimi decenni non è frutto solo delle nostre forze. La ricostruzione sarebbe stata impensabile senza l’aiuto delle potenze vincitrici del blocco occidentale, senza il nostro inquadramento all’interno della Comunità europea e del Patto atlantico, senza l’apertura dell’Europa dell’Est e senza la fine della dittatura comunista. Noi tedeschi abbiamo buone ragioni per essere riconoscenti e abbiamo l’obbligo di ricambiare con dignità la solidarietà ricevuta. Sono convinto che rientri nell’interesse strategico a lungo termine della Germania non isolarsi e non farsi isolare.
L’isolamento all’interno dell’occidente sarebbe pericoloso, ma nell’Unione europea o nella zona euro ancor più rischioso. Ritengo che questo vada ben oltre qualsiasi altro interesse di partito.
Effettivamente la Germania è stata per lunghi decenni un contribuente netto. Ce lo potevamo permettere e lo abbiamo fatto fin dai tempi di Adenauer. E naturalmente la Grecia, il Portogallo o l’Irlanda sono stati sempre beneficiari. Di questa solidarietà l’attuale classe politica tedesca non è sufficientemente cosciente; eppure fino a oggi è stata data sempre per scontata. Come scontato, e sancito dal trattato di Lisbona, è il principio di sussidiarietà; l’Unione Europea deve farsi carico di ciò che uno Stato non è in grado di regolare e superare da solo.
Adenauer ha valutato correttamente l’interesse strategico tedesco nel lungo termine, nonostante la divisione della Germania. Tutti i suoi successori, Brandt, Schmidt, Kohl e Schröder hanno proseguito la politica di integrazione. Qualsiasi tattica di politica interna o estera non ha mai messo in discussione l’interesse strategico nel lungo periodo. Per questo motivo i nostri partner hanno potuto fidarsi per decenni della continuità della politica europea perseguita dai tedeschi, indipendentemente dai cambi di governo. Questa continuità è necessaria anche in futuro. Non esiste formula sicura per far fronte all’attuate crisi di leadership della Ue.
Né possiamo presentare l’ordinamento del nostro Paese come un modello, ma solo come un esempio. Tutti insieme abbiamo la responsabilità per quello che la Germania fa e non fa e per gli effetti futuri della sua condotta sull’Europa. Abbiamo bisogno di una razionalità europea ma anche di un animo aperto nei confronti dei nostri partner. Su un punto importante concordo con Jürgen Habermas che di recente ha affermato: «Per la prima volta nella storia della Ue stiamo assistendo a uno smantellamento della democrazia». Ed è proprio cosi: il principio democratico non è stato accantonato solo dal Consiglio europeo e dai suoi presidenti, ma dalla Commissione e dai suoi presidenti mentre l’Europarlamento non ha saputo esercitare un ruolo decisivo.
Ci troviamo di fronte a uno scenario in cui alcune migliaia di speculatori finanziari americani ed europei e qualche agenzia di rating hanno preso in ostaggio i governi in Europa. Non possiamo aspettarci che Obama contrasti queste dinamiche. Lo stesso vale per il governo britannico. Nel 2008 e 2009 i governi di tutto il mondo hanno salvato le banche con le garanzie e il denaro dei contribuenti. Ma già dal 2010 questa schiera di manager finanziari super intelligenti ha ripreso a giocare al vecchio gioco dei profitti e dei bonus. Un gioco d’azzardo che va a scapito di tutti quelli che non partecipano.
Se nessun altro è disposto ad agire devono scendere in campo i membri dell’Eurozona. La strada da seguire è l’articolo 20 del Trattalo di Lisbona. Il quale prevede che uno o più membri della Ue «potenzino la loro collaborazione». In ogni caso gli Stati che adottano l’euro dovrebbero mettere in atto una serie di regole per i propri mercati finanziari che abbiano ripercussioni su tutta l’Eurozona.
Dalla distinzione tra le normali banche commerciali da una parte e le banche d’investimento e "banche ombra" dall’altra, al divieto di vendite allo scoperto di titoli e di commercio dei prodotti derivati se non ammessi dagli organi di vigilanza sulle borse, fino a un’efficace limitazione di giri d’affari delle agenzie di rating che si rìpercuotono sull’Eurozona, attività finora non soggette a vigilanza. È certo che la lobby bancaria globalizzata ostacolerà con ogni mezzo questo tipo di provvedimenti, come ha fatto finora contro analoghe misure drastiche, permettendo che la schiera di speculatori costringesse i governi europei a stanziare nuovi "fondi salva-Stati" e a escogitare ogni mezzo per ampliarli. E’ giunto il momento di opporsi a questo sistema.
Se gli europei avranno la forza e il coraggio di portare a compimento una drastica regolamentazione del mercato finanziario, potremmo pensare di diventare a medio termine una zona di stabilità. Se falliremo il peso dell’Europa continuerà a diminuire, mentre il mondo si avvierà verso il duumvirato Washington-Pechino.Per l’immediato futuro dell’Eurozona sono senza dubbio da compiere i passi fin qui annunciati, in cui rientrano i "fondi salva-Stati", le soglie massime di indebitamento e il loro controllo, una politica economica e fiscale comune e una serie di riforme nazionali in materia di fisco, spesa pubblica, politica sociale e mercato del lavoro. Per forza di cose diventerà inevitabile anche un indebitamento comune che noi tedeschi non dobbiamo rifiutare per ragioni di egoismo nazionale.
Nei contempo non dobbiamo però propagare una politica di deflazione estrema per tutta l’Europa. Jacques Delors ha ragione quando pretende che insieme al risanamento dei bilanci debbano essere introdotti e finanziati anche progetti di crescita economica. Senza crescita, senza nuovi posti di lavoro, nessuno Stato potrà risanare le proprie casse. Chi crede che l’Europa possa essere risanata solo grazie ai tagli alla spesa dovrebbe studiare le nefaste ripercussioni della politica deflazionistica perseguita da Heinrich Brüning nel 1930-1932 che provocò la depressione e un’insostenibile disoccupazione, avviando di fatto il declino della prima democrazia tedesca.
(5 giugno 2012)