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martedì 23 giugno 2015

“Basta con le banche il destino dell’Unione lo scelgano i popoli”

di Jürgen Habermas   23 Giugno 2015

«Il filosofo tedesco: i politici non possono nascondersi dietro le lacune dovute a chiare incapacità istituzionali». Ancora una voce dal mondo della saggezza a favore delle ragioni di Alexis Tsipras. La Repubblica, 23 giugno 2015
 
La recente sentenza della Corte di Giustizia europea getta una luce impietosa su un errore di fondo della costruzione europea: quello di aver costituito un’unione monetaria senza un’unione politica. Tutti i cittadini dovrebbero essere grati a Mario Draghi, che nell’estate 2012 scongiurò con un’unica frase le conseguenze disastrose dell’incombente collasso della valuta europea. Aveva tolto la patata bollente dalle mani dell’Eurogruppo annunciando la disponibilità all’acquisto di titoli di stato senza limiti quantitativi in caso di necessità: un salto in avanti cui l’aveva costretto l’inerzia dei capi di governo, paralizzati dallo shock e incapaci di agire nell’interesse comune dell’Europa, aggrappati com’erano ai loro interessi nazionali. I mercati finanziari reagirono positivamente a quell’unica frase, benché il capo della Bce avesse simulato una sovranità fiscale che non possedeva, dato che oggi come ieri, sono le banche centrali degli Stati membri a dover garantire i crediti in ultima istanza.

GLI SPAZI DELLA BCE
Di fatto, la Corte di Giustizia europea non poteva confermare questa competenza, in contraddizione col testo dei Trattati europei; ma dalla sua decisione consegue la possibilità per la Banca centrale europea di disporre – tranne poche limitazioni - dei margini di manovra di un erogatore di crediti di ultima istanza. La Corte di Giustizia ha dunque ratificato quell’azione di salvataggio, benché non del tutto conforme alla Costituzione. Verrebbe voglia di dire che il diritto europeo dev’essere in qualche modo piegato, anche se non proprio forzato, dai suoi stessi custodi, per appianare di volta in volta le conseguenze negative del difetto strutturale dell’unione monetaria. L’unione monetaria resterà instabile finché non sarà integrata da un’unione bancaria, economica e fiscale. In altri termini, se non vogliamo che la democrazia sia palesemente ridotta a puro elemento decorativo, dobbiamo arrivare ad un’unione politica.

Fin dal maggio 2010 la cancelliera tedesca ha anteposto gli interessi degli investitori al risanamento dell’economia greca. Il risultato è che siamo di nuovo nel mezzo di una crisi che pone in luce, in tutta la sua nuda realtà, un altro deficit istituzionale. L’esito elettorale greco è quello di una nazione la cui netta maggioranza insorge contro l’opprimente e avvilente miseria sociale imposta al paese dall’austerità. In quel voto non c’è nulla da interpretare: la popolazione rifiuta la prosecuzione di una politica di cui subisce il fallimento sulla propria pelle. Sorretto da questa legittimazione democratica, il governo greco sta tentando di ottenere un cambio di politica nell’Eurozona; ma a Bruxelles si scontra coi rappresentanti di altri 18 paesi che giustificano il loro rifiuto adducendo con freddezza il proprio mandato democratico.

Il velo su questo deficit istituzionale non è ancora del tutto strappato. Le elezioni greche hanno gettato sabbia negli ingranaggi di Bruxelles, dato che in questo caso gli stessi cittadini hanno deciso su un’alternativa di politica europea subita dolorosamente sulla propria pelle. Altrove i rappresentanti dei governi prendono le decisioni in separata sede, a livelli tecnocratici, al riparo dell’opinione pubblica, tenuta a bada con inquietanti diversivi. Le trattative per la ricerca di un compromesso a Bruxelles sono in stallo, soprattutto perché da entrambi i lati si tende a incolpare gli interlocutori del mancato esito nei negoziati, piuttosto che imputarlo ai difetti strutturali delle istituzioni e delle procedure. Certo, nel caso di specie siamo di fronte all’attaccamento cieco ostinato a una politica di austerità giudicata negativamente dalla maggior parte degli studiosi a livello internazionale. Ma il conflitto di fondo è un altro: mentre una delle parti chiede un cambiamento di rotta, quella contrapposta rifiuta ostinatamente persino l’apertura di una trattativa a livello politico: ed è qui che si rivela una più profonda asimmetria.

SCELTE SCANDALOSE
Occorre avere ben chiaro il carattere scandaloso di un tale rifiuto: se il compromesso fallisce, non è per qualche miliardo in più o in meno, e neppure per la mancata accettazione di una qualche condizione, ma unicamente per via della richiesta greca di dare la possibilità di un nuovo inizio all’economia della Grecia, e alla sua popolazione sfruttata dalle élite corrotte, attraverso un taglio del debito o una misura analoga, quale ad esempio una moratoria collegata alla crescita. I creditori insistono invece sul riconoscimento di una montagna di debiti che l’economia greca non riuscirà mai a smaltire. Si noti che presto o tardi un taglio del debito sarà inevitabile. Eppure, contro ogni buon senso, i creditori non cessano di esigere il riconoscimento formale di un onere debitorio realmente insostenibile. Fino a poco tempo fa ribadivano anzi una pretesa surreale: quella di un avanzo primario superiore al 4%, ridotto poi a un 1% comunque non realistico. Così è fallito finora ogni tentativo di arrivare un accordo da cui dipende il futuro dell’Ue, soltanto in nome della pretesa dei creditori di mantenere in piedi una finzione.

Per parte mia, non sono in grado di giudicare se i procedimenti tattici del governo greco siano fondati su una strategia ragionata, o in qualche misura determinati da condizionamenti politici, incompetenza o inesperienza dei suoi esponenti. Ma le carenze del governo greco non tolgono nulla allo scandalo dell’atteggiamento dei politici di Bruxelles e Berlino, che rifiutano di incontrare i loro colleghi di Atene in quanto politici. Anche se si presentano come tali, sono presi in considerazione esclusivamente sul piano economico, nel loro ruolo di creditori. Questa trasformazione in zombie ha il significato di conferire alle annose insolvenze di uno Stato la parvenza di una questione di diritto privato, da deferire a un tribunale. In tal modo risulta anche più facile negare qualsiasi responsabilità politica.

L’ADDIO DELLA TROIKA
La nostra stampa ironizza sul cambio di nome della troika, che effettivamente assomiglia a un’operazione di magia. Ma è anche espressione del desiderio legittimo di far uscire allo scoperto, dietro la maschera dei finanziatori, il volto dei politici. Perché è solo in quanto tali che i responsabili possono essere chiamati a rispondere di un fallimento che porta alla distruzione di massa delle opportunità di vita, alla disoccupazione, alle malattie, alla miseria sociale, alla disperazione.

Per le sue opinabili misure di salvataggio Angela Merkel ha coinvolto fin dall’inizio l’Fmi. Questa dissoluzione della politica nel conformismo di mercato spiega tra l’altro l’arroganza con cui i rappresentanti del governo federale tedesco – persone moralmente ineccepibili, senza eccezione alcuna - rifiutano di ammettere la propria corresponsabilità politica per le devastanti conseguenze sociali che pure hanno messo in conto nell’attuazione del programma neoliberista. Lo scandalo nello scandalo è l’ingenerosità con cui il governo tedesco interpreta il proprio ruolo di guida.

IL RUOLO TEDESCO
La Germania deve lo slancio della sua ascesa economica, di cui si alimenta tuttora, alla saggezza delle nazioni creditrici, che nell’accordo di Londra del 1954 le condonarono la metà circa dei suoi debiti.Ma non si tratta qui di scrupoli moralistici, bensì di un punto politico essenziale: le élite della politica europea non possono più nascondersi ai loro elettori, eludendo le decisioni da prendere a fronte dei problemi creati dalle lacune politiche dell’unità monetaria. Devono essere i cittadini, e non i banchieri, a dire l’ultima parola sulle questioni essenziali per il destino dell’Europa. E davanti all’intorpidimento post-democratico di un’opinione pubblica tenuta ove possibile lontano dai conflitti, ovviamente anche la stampa dovrà fare la sua parte. I giornalisti non possono continuare a inseguire come un gregge quegli arieti della classe politici che già li avevano ridotti a fare da giardinieri.

(Traduzione di Elisabetta Horvat)


mercoledì 10 ottobre 2012

PAURE STORICHE

 
 
E' di nuovo una questione di egemonie teutoniche? Cambiano i modi e gli strumenti ma non le ideologie di potenza? L'incomprensione dei fatti presenti, la volontà di dimenticare i fatti del passato continueranno come sempre? Quando finirà il buio della democrazia sopraffatta dai "mercati"? Chi farà nuove leggi attuative in difesa della democrazia e dei diritti umani, dopo la cancellazione dell'ultimo baluardo, lo Glass-Steagall Act, nel lontanissimo 1999?
 
 
Forse si muove qualcosa, nella mente della potenza tedesca che da anni comanda in Europa sapendola solo dividere, non guidarla e federarla?

Ancora non è chiaro, ma se
Angela Merkel ieri è corsa a Atene 1 - dove la sua politica e il suo Paese sono esecrati, dove è stato necessario militarizzare la capitale per domarne la collera - vuol dire che vi sono elementi nuovi, che destano spavento a Berlino.
 
Uno spavento che si è dilatato, dopo l'intervista di Antonis Samaras al quotidiano Handelsblatt di venerdì. Sono parole diverse dal solito: il Premier greco non si sofferma sui debiti, né sul Fiscal Compact, né sul Fondo salva-Stati approvato lunedì a Lussemburgo.
 
La prima visita del Cancelliere, invocata da Samaras, avviene perché si comincia a parlare dell'essenziale: di storia, di memorie rimosse e vendicative, di democrazia minacciata. Estromessa, la politica prende la sua rivincita e fa rientro. Caos è il vocabolo usato nell'intervista, e il caos impaura la Germania da sempre. Anche perché quel che le tocca vedere è una replica: più precisamente, la replica di una storia che Berlino finge di dimenticare, ma che è gemella della sua.

Il caos, i tedeschi sanno cos'è: specie quello di Weimar, quando la democrazia, stremata dai debiti di guerra e dalla disoccupazione, cadde preda di Hitler. È lo scenario descritto da Samaras: anche qui incombe una formazione nazista, che si ciba di caos e povertà. Alba dorata ha ottenuto alle elezioni il 6,9 per cento, ma oggi nei sondaggi è il terzo partito. I suoi principali nemici sono l'Unione, e tutto quel che l'Europa ha voluto essere dal dopoguerra: luogo di tolleranza democratica, di assistenza ai deboli attraverso il Welfare.

Lo straripare della disoccupazione, spiega Samaras, dà le ali a un partito che non ha eguali in Europa, tanto esplicita è la sua parentela con il nazismo e perfino con i suoi simboli (una variazione della svastica). L'odio dell'immigrante, del gay, del disabile, è la sua ragion d'essere.
 
Se l'Europa non aiuta la Grecia dandole più tempo, a novembre le casse statali saranno vuote e può succedere di tutto. In parlamento i deputati nazisti si fanno sempre più insolenti, sicuri. L'ex Premier George Papandreou è bollato come "greco al 25 per cento": la madre è americana. Ogni nuovo emigrato va tenuto lontano, con mine anti-uomo lungo le frontiere.

Non è male che infine si cominci a dire come stanno davvero le cose, e quel che rischiamo: non tanto lo sfaldarsi dell'euro, quanto il tracollo delle mura che l'Europa si diede quando nacque. Mura contro le guerre, contro le diffidenze nazionaliste, contro la logica delle punizioni. Fare l'Europa significava dire No a questo passato mortifero, ed ecco che esso si ripresenta nelle stesse vesti. Per la coscienza tedesca, uno scacco immenso: la storia le si accampa davanti come memento e come Golem, da lei stessa resuscitato.

Oltrepassare i calcoli sull'euro e sondare verità sin qui nascoste aiuta a scoprire quel che Atene sta divenendo: un capro espiatorio. Un laboratorio dove si sperimentano ricette costruttiviste e al tempo stesso si collauda la storia che si ripete: non come tragedia, non come farsa, ma come memoria stordita, morta.

Come possono i tedeschi scordare il muro portante del dopoguerra, e cioè la coscienza che la punizione nei rapporti tra Stati è veleno, e che i debiti bellici della Germania andavano perciò condonati? Nell'accordo di Londra sul debito estero, nel '53, fu deciso di prorogare di 30 anni il rimborso, e di esigerlo solo qualora non avesse impoverito la Repubblica federale. I greci non l'hanno dimenticato: un comitato di esperti sta calcolando quel che Berlino deve a Atene per i disastri dell'occupazione hitleriana (circa 7,5 miliardi di euro). "Le riparazioni non sono più un problema", replica il governo tedesco. Lo saranno di nuovo, se il castigo ridiventa criterio europeo come nel 1918 verso la Germania.

La Grecia certo non è senza colpe. All'indisciplina di bilancio s'accoppiano la corruzione politica, l'enorme evasione fiscale. Il caos è in buona parte endogeno, come sostenne Alexis Tsipras del partito Syriza quando mise al primo punto del programma la lotta ai corrotti. Ma è un caos non più grave dell'italiano, e anche se Syriza ha manifestato ieri contro la Merkel, assieme ai sindacati, è scandaloso che il Cancelliere si rifiuti di incontrare il primo partito d'opposizione, solo perché le ricette anti-crisi sono ritenute fallimentari.

In fondo non c'è bisogno di Samaras, per penetrare la realtà greca ed europea, e ammettere che nessuno può sopportare una recessione quinquennale. Basta leggere blog e libri indipendenti. Bastano i testi di storia, che raccontano di un paese dove la resistenza antinazista non fu artefice della democrazia postbellica come in Italia, ma venne perseguitata ed esiliata dagli anglosassoni: il potere militare fu da loro favorito per decenni (colonnelli compresi).

I romanzi di Petros Markaris sul commissario Kostas Charitos - una specie di Montalbano greco - sono conosciuti in Italia. L'ultimo, pubblicato da Bompiani nel 2012, s'intitola L'Esattore, e narra di un assassino seriale che elimina uno dopo l'altro grandi evasori e politici corrotti, visto che lo Stato non sa né vuole agire. L'assassino assurge a eroe nazionale, gli indignados di Piazza Sìntagma vogliono candidarlo: "L'Esattore nazionale è un Dio!", gridano. Oggi esce in Francia un film di Ana Dumitrescu, Khaos, che raffigura il pandemonio ellenico. Dicono nel film: "Il pericolo è che la collera del popolo si trasformi in terribile bagno di sangue, sostituendosi all'azione politica".
Il sottotitolo di Khaos è "i volti umani della crisi": volti che la trojka non vede, né la Merkel, né i governi del Sud Europa che trattano Atene come paria, per paura d'esser confusi con essa. Ma il paria parla di noi, e dell'Europa tutta. Habermas probabilmente pensava alla Grecia, nel discorso tenuto il 5 settembre davanti al partito socialdemocratico: i piani di austerità delineano, ovunque, un percorso post-democratico. Quel che assottigliano non è tanto la sovranità assoluta degli Stati nazione - oggi anacronistica - quando la sovranità del popolo, che è costitutiva della democrazia e non è affatto obsoleta. I diritti sovrani sottratti tramite Patto fiscale e Fondo salva-stati semplicemente evaporano, "perché non trasferiti verso un autentico, democratico legislatore europeo".
 
Il potere resta nelle mani di trojke e Consigli dei ministri non eletti dai cittadini europei, o di tecnici che possedendo la scienza infusa pretendono di superare gli Stati nazione da soli, e surrettiziamente.

"Credo che questo sia il prezzo che paghiamo alla soluzione tecnocratica della crisi", conclude il filosofo: "In tale configurazione, imbocchiamo un percorso postdemocratico che approderà a un federalismo esecutivo. La democrazia si perde per strada, e tutti mancheremo l'occasione di regolare i mercati finanziari (...). Un esecutivo europeo del tutto indipendente da elettorati che possano essere democraticamente mobilitati smarrirà ogni motivazione e ogni forza per azioni di contrasto".

L'ora della verità è quella in cui i numeri non occupano l'intero spazio mentale, e in scena fanno irruzione la storia, le memorie scomode delle guerre europee e dei dopoguerra. Per questo sono importanti l'allarme di Samaras, il disagio che ha suscitato in Germania, l'impervia corsa della Merkel a Atene.
 
Qualcosa si muove: non necessariamente in meglio, ma almeno si è più vicini al vero. Si chiama Alba dorata il pericolo greco, ed è alba tragica. All'orizzonte si staglia la figura dell'Esattore Nazionale, salutato come Apollo vendicatore: che viene e uccide i traditori della democrazia. È così, dai tempi dell'Iliade, che dalle nostre parti iniziano le guerre.
 
 
LA REPUBBLICA, 10 ottobre 2012   -   © Riproduzione riservata  

lunedì 6 agosto 2012

Il passo decisivo per salvare l'Europa


Il passo decisivo per salvare l'Europa

di Jurgen Habermas Peter Bofinger Julian Nida-Ruemelin 





LA CRISI dell'Euro rispecchia il fallimento di una politica senza prospettive.

Al governo tedesco manca il coraggio di andare oltre uno status quo divenuto insostenibile.

Questa è la causa del continuo peggioramento della situazione nell'eurozona negli ultimi due anni, malgrado ambiziosi programmi di salvataggio e innumerevoli vertici d'emergenza.

La Grecia rischia dopo il crollo economico l'uscita dall'euro, che sarebbe collegato a incalcolabili reazioni a catena per gli altri membri dell'eurozona stessa.
Italia, Spagna e Portogallo sono cadute in una dura recessione, la disoccupazione non fa che salire. La sfavorevole congiuntura esaspera la situazione delle banche e la crescente incertezza sul futuro dell'Unione monetaria rende gli investitori sempre meno disposti ad acquistare titoli sovrani dei paesi deboli. Interessi in crescita sui titoli sovrani dei deboli, e la loro crisi economica sempre più grave rendono ancor più difficile il già non semplice processo di consolidamento.

Questa destabilizzazione che si rafforza da sola è creata essenzialmente dall'incapacità di formulare strategie anticrisi che vadano oltre la soglia di un approfondimento delle istituzioni europee. Ma giustificare un grande balzo in avanti del processo d'integrazione non è possibile solo pensando alla crisi dell'eurozona.

Occorre pensare anche alla necessità di imbrigliare con una riassunzione di poteri da parte della Politica lo spirito maligno degli universi paralleli e spettrali, creati da banche d'investimento e hedgefonds al di sopra dell'economia reale. Le misure necessarie per una regulation sono a portata di mano. Ma non vengono lanciate. Una potenza economica così grande come la Ue, o al minimo l'eurozona, potrebbero assumere un ruolo d'avanguardia. Solo con un significativo approfondimento dell'integrazione si può difendere una valuta comune, senza una catena di misure d'aiuti che alla lunga sovraccaricherebbe la solidarietà degli Stati nazionali europei. Una delega di sovranità a istituzioni europee è quindi inevitabile, e occorre un forte coordinamento di politiche finanziarie, economiche e sociali degli Stati membri, con l'obiettivo di riequilibrare le disuguaglianze strutturali nell'eurozona.

L'acutizzarsi della crisi mostra che la strategia finora imposta dal governo tedesco in Europa posa su una diagnosi errata.

La crisi attuale non è una crisi dell'euro. Il quale si è mostrato essere una valuta stabile. La crisi non è nemmeno una crisi del debito specifica dell'Europa; rispetto a Usa e Giappone, Ue ed eurozona sono ben poco indebitate. La crisi è una crisi di rifinanziamento di alcuni singoli Stati dell'eurozona, causata in prima linea da insufficienti garanzie istituzionali per la moneta comune.

L'escalation della crisi chiarisce che le soluzioni tentate finora sono insufficienti.

Dobbiamo perciò temere che l'unione monetaria, senza un cambio di fondo della strategia, non sopravviverà più a lungo nella sua forma attuale. Occorre una chiara diagnosi delle cause della crisi. Il governo tedesco sembra ritenere che i problemi siano causati in primo luogo da mancanza di disciplina fiscalea livello nazionalee che la soluzione sia prima di tutto una coerente politica di risparmi dei singoli Stati. Regole fiscali più severe e ombrelli di salvataggio legati a condizioni dovrebbero costringere quei paesi a una dura politica di austerità che indebolisce la loro forza economica e aumenta la disoccupazione.
In realtà nei paesi problematici non si è finora riuscito a limitare i costi di rifinanziamento e ridurli a dimensioni sopportabili, nonostante una serie di dure misure tra tagli e riforme di struttura.

Diagnosi e terapie espresse dal governo tedesco fin dall'inizio sono stati troppo unidimensionali. La crisi nasce non solo da errori a livello nazionale, ma anche da problemi di sistema. La risposta deve essere sistemica, non solo a livello nazionale. Solo una responsabilità comune per titoli sovrani dell'eurozona può eliminare o limitare i rischi d'insolvenza di un singolo paese. I dubbi secondo cui ciò lancerebbe stimoli sbagliati sono da prendere sul serio. La responsabilità comune dovrà andare insieme a severi controlli comuni sui bilanci nazionali, i controlli non saranno più realizzabili nel quadro della sovranità nazionale.

Esistono solo due strategie per superare la crisi: il ritorno alle valute nazionali in tutta la Ue, che lascerebbe ogni paese in balìa di oscillazioni e speculazioni imprevedibili, o la garanzia istituzionale di una politica fiscale, economica e sociale comune nell'eurozona con l'obiettivo di recuperare la capacità perduta d'agire della Politica davanti agli imperativi transnazionali del Mercato. Da una prospettiva che vada oltre la crisi attuale dipende anche la promessa di una "Europa sociale". Perché solo un'Europa politicamente unita potrà rovesciare il trend del passaggio da una democrazia dei cittadini e dello Stato sociale a una democrazia di facciata conforme ai mercati. La seconda opzione merita preferenza rispetto alla prima. Occorre porre le basi per un'unione politica. Chiediamo di non rinviare questi passi.

Chi vuole mantenere la moneta unica deve anche approvare una responsabilità comune, per non svuotare le deboli fondamenta democratiche della Ue. Il grido di battaglia della guerra d'indipendenza americana, 'no taxation without representation', trova oggi sorprendente eco. Serve un Legislatore europeo che rappresenti i cittadini e decida queste politiche, altrimenti violeremmo il principio secondo cui il legislatore che decide sulla ripartizione delle spese pubbliche coincida col legislatore democraticamente eletto il quale impone a tal fine le tasse.

Ma il ricordo storico dell'unificazione del Reich tedesco dovrebbe esserci di monito. I mercati finanziari non possono essere soddisfatti con costruzioni complesse e difficili da attuare mentre i governi in silenzio prendono in conto l'ipotesi che un potere centralizzato sia imposto ai popoli sopra le loro teste. I popoli devono prendere la parola. La Repubblica federale, rappresentante del maggiore paese donatore nel Consiglio europeo, dovrebbe prendere l'iniziativa della convocazione di un Convent costituzionale. Con un esito positivo di referendum i popoli europei potrebbero recuperare la sovranità strappata loro dai "Mercati".

La strategia del cambiamento dei trattati punta alla fondazione di un territorionocciolo dell'unione monetaria politicamente unito, aperto all'ingresso di altri paesi Ue, specie la Polonia.

Ciò richiede chiare idee costituzionali di una democrazia sopranazionale, che permettano un governo comune senza assumere le sembianze di uno Stato federale, modello sbagliato che metterebbe troppo alla prova la solidarietà di popoli storicamente indipendenti. L'approfondimento delle istituzioni europee può ispirarsi all'idea che un nocciolo europeo democratico rappresenti l'insieme dei cittadini dell'eurozona, ma nella loro duplice qualità di cittadino direttamente partecipante all'Unione riformata e di membro indirettamente partecipante di uno dei popoli europei.
Non è da escludere che la Corte costituzionale tedesca strappi l'iniziativa ai partiti, i quali allora non potrebbero più sottrarsi al dibattito. Un'iniziativa di Spd, Cdu e Verdi per un Convent costituzionale non sarebbe allora più illusoria.

La crisi che dura ormai da 4 anni ha suscitato una spinta alla tematizzazione, che sveglia come non mai l'attenzione delle opinioni pubbliche nazionali a temi europei. La coscienza della necessità di regolamento dei mercati finanziari e di superamento degli squilibri strutturali nell'eurozona è stata risvegliata.

Per la prima volta nella Storia del capitalismo una crisi scatenata da un suo settore avanzato, le banche, è stata risolta solo perché i governi hanno chiamato a responsabilità i cittadini come contribuenti per compensare i danni. I cittadini giustamente ritengono ciò scandaloso. Il diffuso sentimento di ingiustizia viene dal fatto che processi anonimi di mercato hanno acquistato nella coscienza dei cittadini una dimensione politica. Tale sensazione coincide con collera o impotenza.

Una discussione sulla finalità (ndr in francese nel testo) offre l'occasione di allargare la discussione finora limitata alle questioni economiche. La percezione dei rapporti di forza mondiali mutati da ovest a est e di un cambiamento nei rapporti con gli Usa spingono sotto un'altra luce i vantaggi sinergici di un'unificazione europea.

Nel mondo postcoloniale il ruolo dell'Europa è cambiato. Progetti e statistiche oggi preannunciano all'Europa il destino d'un continente sempre meno popolato, dal peso economico e dal ruolo politico decrescenti. I popoli europei devono imparare che potranno difendere e conservare il loro modello sociale di società del welfare e la molteplicità delle culture dei loro Stati nazionali solo agendo insieme. Devono unire le forze, se vogliono ancora avere influenza nell'agenda della politica mondiale e nella soluzione di problemi globali. La rinuncia all'unificazione europea sarebbe anche un'addio alla Storia del mondo.


JÜRGEN HABERMAS PETER BOFINGER JULIAN NIDA-RUEMELIN

La Repubblica, 4 agosto 2012