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sabato 25 maggio 2013

La Costituzione "non è cosa vostra" di Gustavo Zagrebelsky


 
 
Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. 
                      
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.
 
La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
 
Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.[47]
 
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Non è cosa vostra 

di  GUSTAVO ZAGREBELSKY
18 maggio 2013 - 29
Da anni, ormai, sotto la maschera della ricerca di efficienza si tenta di cambiare il senso della Costituzione: da strumento di democrazia a garanzia di oligarchie. Non dobbiamo perdere di vista questo, che è il punto essenziale. Non è in gioco solo una forma di governo che, per motivi tecnici, può piacere più di un’altra. L’uguaglianza, la giustizia sociale, la protezione dei deboli e di coloro che la crisi ha posto ai margini della società, la trasparenza del potere e la responsabilità dei governanti sono caratteri della democrazia, cioè del governo diffuso tra i molti. L’oligarchia è il regime della disuguaglianza, del privilegio, del potere nascosto e irresponsabile, cioè del governo concentrato tra i pochi che si difendono dal cambiamento, sempre gli stessi che si riproducono per connivenze e clientele. Parlando di oligarchie, non si deve pensare solo alla politica, ma al complesso d’interessi nazionali e internazionali, economico-finanziari e militari, che nella politica trovano la loro garanzia di perpetuità e i loro equilibri.
 
Ora, di fronte alle difficoltà di salvaguardare questi equilibri e alla volontà di rinnovamento che in molte recenti occasioni si è manifestata nella società italiana, è evidente la pulsione che si è impadronita di chi sta al vertice della politica: si vuole “razionalizzare” le istituzioni in senso oligarchico. Invece di aprirle alla democrazia, le si vuole chiudere o, almeno, congelare. L’incredibile decisione di confermare al suo posto il Presidente della Repubblica uscente è l’inequivoca rappresentazione d’un sistema di complicità che vuole sopravvivere senza cambiare. L’ancora più incredibile applauso, commosso e grato, che ha salutato quella rielezione – rielezione che a qualunque osservatore sarebbe dovuta apparire una disfatta – è la dimostrazione del sentimento di scampato pericolo. Ogni sistema di potere a rischio, o per incapacità di mediare le sue interne contraddizioni o per la pressione esterna da parte di chi ne è escluso, reagisce con l’istinto di sopravvivenza. Ma le riforme, in questo contesto, non possono essere altro che mosse ostili. Per questo, di fronte alla retorica riformista, noi diciamo: in queste condizioni, le vostre riforme non saranno che contro-riforme e il fossato che vi separa dalla democrazia si allargherà. Contro gli accordi che nascondono contro-riforme, noi, per parte nostra, useremo tutti gli strumenti per impedirle e chiediamo a coloro che siedono in Parlamento di prendere posizione con chiarezza e impegnativamente e di garantire comunque la possibilità per gli elettori di esprimersi con il referendum, se e quando fosse il momento.
 
Soprattutto, a chi si propone di cambiare la Costituzione si deve chiedere: qual è il mandato che vi autorizza? Il potere costituente non vi appartiene affatto. Siete stati eletti per stare sotto, non sopra la Costituzione. Se pretendete di stare sopra, mancate di legittimità, siete usurpatori. Se proprio non vogliamo usare parole grosse, diciamo che siete come la ranocchia che cerca di gonfiarsi per diventare bue. Non è la prima volta. E’ già accaduto. Ma ciò significa forse che ciò che è illegittimo sia perciò diventato legittimo?
 
Per questo, difenderemo la Costituzione come cosa di tutti e ci opporremo a coloro che la considerano cosa loro. La costituzione della democrazia è, per così dire, il vestito di tutta la società; non è l’armatura del potere di chi ne dispone. La mentalità dominante tra i tanti, finora velleitari, “costituenti” che si sono succeduti nel tempo nel nostro Paese, è stata questa: di fronte alle difficoltà incontrate e al discredito accumulato, invece di cambiare se stessi, mettere sotto accusa la Costituzione. La colpa è sua! Non sarà invece che la colpa è vostra o, meglio, della vostra concezione della politica e degli interessi che vi muovono?
 
Su un punto, poi, deve farsi chiarezza per evitare gli inganni. Chi vuol cambiare, normalmente, è un innovatore e le novità sono la linfa vitale della vita politica. Per questo, gli innovatori godono d’una posizione pregiudiziale di vantaggio. Ma, esiste anche un riformismo gattopardesco di segno contrario: si può voler cambiare le istituzioni per bloccare la vita politica e salvaguardare un sistema di potere in affanno. Allora, il movimentismo istituzionale equivale alla stasi politica. La stasi solo apparentemente è pace: è la quiete prima della tempesta.
 
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Anche noi siamo per la pace; vediamo che il nostro Paese ha bisogno di pacificazione, pur se esitiamo a usare questa parola, corrotta ormai dall’abuso. Sappiamo però, anche, che la pace è esigente, molto esigente. Non può esistere senza condizioni. Dice la Saggezza Antica: “su tre cose si regge il mondo: la giustizia, la verità e la pace”. E commenta così: in realtà sono una cosa sola, perché la giustizia si appoggia sulla verità e alla giustizia e alla verità segue la pace. La pace è la conseguenza della verità e della giustizia. Altrimenti, pacificare significa solo zittire chi vuole verità e giustizia, per nascondere segreti, inganni e ingiustizie e continuare come prima. Non è questa la pace di cui il nostro Paese ha bisogno.
 
Non siamo né i velleitari né i giacobini che ci dipingono. Non crediamo affatto al regno perfetto della Verità e della Giustizia sulla terra. Sappiamo bene che la politica non si fa con i paternoster e temiamo i fanatici della virtù rigeneratrice. Ma da qui a tutto accettar tacendo, il passo è troppo lungo. Siamo disposti alla pacificazione, ma a condizione che, nelle forme e con i mezzi della democrazia, si abbia come fine la ricerca della verità e la promozione della giustizia. Altrimenti, pacificazione è parola al vento. La pacificazione non è un sentimento o una predica, ma è una politica. È, dunque, una cosa molto concreta, difficile e impegnativa, perché non significa stare tutti insieme in un patto di connivenza. Significa combattere le zone oscure del potere, le sue illegalità, i suoi privilegi e le sue immunità; significa operare per la giustizia in favore del riequilibrio delle posizioni sociali, della riduzione delle disuguaglianze, dei diritti dei più deboli, di coloro che la crisi economica ha ridotto allo stremo, spingendoli ai margini della società. Solo questa è pacificazione operosa e veritiera.
 
Si dice che le “riforme istituzionali e costituzionali” hanno questo scopo. Ma, noi temiamo che, dietro alcune riforme “neutre”, semplificatrici e razionalizzatrici (numero dei parlamentari, province, bicameralismo), ve ne siano altre, pronte a saltar fuori quando se ne presenti l’occasione propizia, le quali con la pacificazione non hanno a che vedere. Piuttosto, hanno a che vedere con ciò che si denomina “normalizzazione”.
 
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La procedura. Esiste, nella Costituzione (art. 138) una procedura prevista per la sua “revisione”. Ma oggi se ne immagina un’altra, farraginosa e facente capo a un’assemblea, chiamata “convenzione”. Si sta cercando la via per una spallata per la quale le procedure ordinarie, per la volontà impotente delle forze politiche, non sono sufficienti? Già il nome induce al dubbio che di ben altro che di una “revisione” si tratti. Le “convenzioni costituzionali” (a iniziare da quella di Filadelfia del 1787) possono essere convocate con limitati compiti riformatori, ma poi prendono la mano e pretendono di essere “costituenti”, cioè di scrivere nuove costituzioni. Il fatto poi che qualcuno abbia fatto riferimento a una “Commissione dei 75”, come la “Commissione per la Costituzione” che elaborò ex novo la vigente Costituzione del 1947, non fa che rafforzare questa supposizione, confermata dal fatto che ritorna il linguaggio e la mentalità della “grande riforma”. Par di capire che si voglia la riscrittura ex novo dell’architettura della politica. L’odierna procedura – da quel poco che si capisce e dal molto che non si capisce – è un miscuglio in cui sono messi insieme parlamentari ed “esperti”, scelti dai partiti, presumibilmente in proporzione alle forze che compongono il Parlamento. Il prodotto dovrebbe passare per le commissioni “affari costituzionali” e giungere alle Camere, separate o riunite (presumibilmente per superare l’ostilità del Senato), per concludersi con l’approvazione, non senza una concessione alla democrazia del web. Il voto finale dovrebbe essere un “prendere o lasciare” (su tutto il “pacchetto” o sulle singole parti, non si sa), senza possibilità di emendamento. Poiché un tale procedimento è totalmente estraneo alla Costituzione vigente, le è anzi contrario, s’immagina che poi, con una legge costituzionale si ratificherà l’accaduto. Non è nemmeno il caso di commentare in dettaglio questo pasticcio annunciato: la legge costituzionale di ratifica ex post non è essa stessa la confessione che quel che intanto si fa è fuori della Costituzione? i “garanti della Costituzione” non hanno nulla da eccepire? la convenzione nascerebbe come proiezione di un parlamento eletto con una legge elettorale che, col premio di maggioranza, altera profondamente la rappresentanza, ma non s’è sempre detto che le assemblee con compiti costituenti devono essere “proporzionali”? gli “esperti”, scelti dai partiti, saranno dei “fidelizzati”? il loro compito non si ridurrà alla “copertura” delle posizioni di chi li ha scelti con quello scopo? come si esprimeranno: con una voce sola, che fa tacere i dissidenti, o con più voci? se le opinioni saranno diverse – come necessariamente dovrà essere se gli “esperti” saranno scelti senza preclusioni – che cosa aggiungerà il loro lavoro a un dibattito che, tra gli esperti, dura già da più di trent’anni? se saranno chiamati a votare, cioè a scegliere, non avremmo allora dei tecnici chiamati a esprimersi politicamente? in fine, come potrebbero i parlamentari degnamente accettare l’umiliazione del voto bloccato “sì-no” sulle proposte della Convenzione? Questi arzigogoli contraddittorii non sono forse il segno della confusione in cui si caccia la volontà, quando è impotente?
 
Il presidenzialismo. Nel merito della riforma, ancora una volta, dietro le quinte s’affaccia la volontà di presidenzialismo: “semi” o intero. L’argomento sul quale, da ultimo, si basano i presidenzialisti, è il seguente: i tempi della presidenza Napolitano hanno visto una trasformazione “di fatto” dell’ordinamento, in questo senso. Non è allora naturale che si costituzionalizzi, regolandolo, quanto è già avvenuto? A questo riguardo, però, occorre distinguere. Una cosa è l’espansione dell’azione presidenziale utile a preservare le istituzioni parlamentari previste dalla Costituzione, nel momento della loro difficoltà, in vista del ritorno alla normalità. Altra cosa è l’azione che prelude a trasformazioni per instaurare una diversa normalità. Queste contraddicono l’obbligo di fedeltà alla Costituzione che c’è, obbligo contratto da chi fa parte delle istituzioni. Aut, aut. Non sono rispettosi dei doveri costituzionali presidenziali, e del Presidente medesimo, i sostenitori dell’avvenuta trasformazione della “costituzione materiale”. Il “garante della Costituzione” agisce per preservarla o per trasformarla?
 
Noi temiamo che il presidenzialismo, quali che siano le sue formulazioni e i “modelli” di riferimento, nel nostro Paese non sarebbe una semplice variante della democrazia. Si risolverebbe in una misura non democratica, ma oligarchica. Sarebbe, anzi, la costituzionalizzazione, il coronamento della degenerazione oligarchica della nostra democrazia. Sarebbe la risposta controriformista alla domanda di partecipazione politica che si manifesta nella nostra società al tempo presente. L’investitura d’un uomo solo al potere, portatore e garante d’una costellazione d’interessi costituiti, non è precisamente l’idea di democrazia partecipativa che sta scritta nella Costituzione, alla quale siamo fedeli.
 
Controlli. Il senso concreto del presidenzialismo che viene proposto in questa fase della nostra vita politica si chiarisce minacciosamente anche con riguardo ad altri due temi all’ordine del giorno dei riformatori costituzionali: l’autonomia della magistratura e la libertà dell’informazione. Ogni oligarchia ha bisogno di organizzare e gestire il potere in maniera nascosta, segreta. Ma la democrazia è il regime in cui il potere pubblico è esercitato in pubblico. La pubblicità delle opere dei governanti, è la condizione della loro responsabilità. Il potere non responsabile è autocratico, non democratico. Qual è il rimedio contro la chiusura del potere politico su se stesso? È la conoscenza veritiera dei fatti. E quali sono gli strumenti di tale conoscenza? Le indagini giudiziarie e le inchieste giornalistiche. Per nulla sorprendente è che chiunque si trovi ad esercitare un potere oligarchico sia ostile alla libertà delle une e delle altre, quando forse, invece, trovandosi all’opposizione, l’aveva difesa a spada tratta. Nulla di sorprendente: non sorprendente, ma certamente inquietante la concomitanza di proposte restrittive dell’azione giudiziaria e giornalistica con i progetti di riforma del sistema di governo. Chi ha a cuore la democrazia non può ragionare secondo la logica contingente della convenienza, ma deve difendere la libertà della pubblica opinione, indipendentemente dal fatto che questa libertà possa giovare o nuocere a questa o quella parte, a questi o quegl’interessi.
 
La legge elettorale. La riforma della legge vigente è riconosciuta come emergenza democratica, da tutti e non da oggi. Dopo che la Corte costituzionale, con l’improvvida sentenza che aveva dichiarato inammissibile il referendum che avrebbe ripristinato la legge precedente (soluzione realisticamente prospettata, fin dall’inizio, da Libertà e Giustizia), tutti dissero in coro: riforma elettorale, fatta subito con legge. Si è visto. Anche oggi si ripete la stessa cosa, ma con quali prospettive? Esiste una convergenza di vedute in Parlamento? È difficile crederlo e già emergono le resistenze. I due maggiori aspetti critici della legge attuale, dal punto di vista della democrazia, sono l’abnorme premio di maggioranza e le liste bloccate. Ma il premio di maggioranza farà gola ai due raggruppamenti maggiori che, sondaggi alla mano, possono sperare di avvalersene. Le liste bloccate (i parlamentari “nominati”) sono nell’interesse delle oligarchie di partito e degli stessi membri attuali del Parlamento, che possono contare sulla ricandidatura facile, tanto più in mancanza d’una legge sulla democrazia nei partiti, anch’essa sempre invocata (subito la legge!) quando scoppia qualche scandalo. Dal punto di vista della funzionalità o governabilità del sistema, occorrere poi eliminare il diverso metodo di attribuzione del premio di maggioranza nelle due Camere, ciò che ha determinato la vittoria di un partito nell’una, e la sua sconfitta nell’altra. Il ritorno al voto con questa incongruenza sarebbe come correre verso il disastro, verso il suicidio della politica. Ma anche a questo proposito, non si può essere affatto sicuri che calcoli interessati, questa volta non a vincere ma impedire ad altri di vincere, non abbiano alla fine la meglio. Il Capo dello Stato ha minacciato le sue dimissioni, ove a una riforma non si addivenga. Altri immaginano una riforma imposta dal Governo con decreto-legge.  Sono ipotesi realistiche? Possiamo davvero immaginare che un Presidente della Repubblica, che porti le responsabilità inerenti alla sua carica, al momento decisivo sarebbe pronto a sottrarvisi, precipitando nel caos? Quanto al Governo, possiamo credere ch’esso possa agire facendo tacere al suo interno le divisioni esistenti tra le forze parlamentari che lo sostengono, le quali sarebbero comunque chiamate a convertire in legge il decreto (senza contare – ma chi presta più attenzione a questi dettagli? – che la decretazione d’urgenza è vietata in materia elettorale).
 
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E allora?  C’è da arrendersi a questa condizione crepuscolare della democrazia? Al contrario. C’è invece da convocare tutte le energie disponibili, dovunque esse si possano trovare, proprio come abbiamo cercato di fare con questa pubblica manifestazione. Per raccogliere in un impegno e in un movimento comune la difesa e la promozione della democrazia costituzionale che, per tanti segni, ci pare pericolare. Dobbiamo crescere fino a costituire una massa critica di cui non sia possibile non tenere conto, da parte di chi cerca il consenso e chiede il nostro voto per entrare nelle istituzioni. Per questo dobbiamo riuscire a spiegare ai molti che la questione democratica è fondamentale; che non possiamo rassegnarci. Essa riguarda non problemi di fredda ingegneria costituzionale da lasciare agli esperti, ma la possibilità, da tenere ben stretta nelle nostre mani, di lavorare e cercare insieme le risposte ai problemi della nostra vita. Domandare pace, lavoro, uguaglianza e giustizia sociale, diritti individuali e collettivi, cultura, ambiente, salute, legalità, verità e trasparenza del potere, significa porre una domanda di democrazia. Non che la democrazia assicuri, di per sé, tutto questo. Ma, almeno consente che non si perda di vista la libertà e la giustizia nella società e che non ci si consegni inermi alla prepotenza dei più forti.
Tags: Convenzione, Costituzione, Gustavo Zagrebelsky
***Tutte le info della manifestazione. Tutti a Bologna domenica 2 giugno dalle ore 13.30 alle ore 17.30 in piazza s. Stefano.
Sul palco: Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Roberto Saviano, Salvatore Settis, Sandra Bonsanti, Nando dalla Chiesa, Maurizio Landini, Carlo Smuraglia, Lorenza Carlassare e molti amici rappresentanti di associazioni in difesa della Carta.***
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Art. 139
 
La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.
 
 
Nemmeno con furbi artifizi e occulti maneggi. harmonia

 

 
 
 

 
 

giovedì 28 febbraio 2013

Riflessioni

Riflessioni

Napolitano, la Consulta e quel silenzio sulla Costituzione ...

Napolitano, la Consulta e quel silenzio sulla Costituzione ...


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di GUSTAVO ZAGREBELSKY .... (17 agosto 2012) © Riproduzione riservata ... "Quirinale contro pm è conflitto tra poteri dello Stato" 19 settembre 2012 ...



Eterogenesi dei fini. Delle nostre azioni siamo, talora, noi i padroni. Ma il loro significato, nella trama di relazioni in cui siamo immersi, dipende da molte cose che, per lo più, non dipendono da noi. Sono le circostanze a dare il senso delle azioni. È davvero difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani, abbia previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per assumere il significato d'un tassello, anzi del perno, di tutt'intera un'operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la "trattativa" tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia. Sulla straordinaria importanza di queste indagini e sulla necessità che esse siano non intralciate, ma anzi incoraggiate e favorite, non c'è bisogno di dire parola, almeno per chi crede che nessuna onesta relazione sociale possa costruirsi se non a partire dalla verità dei fatti, dei nudi fatti. Tanto è grande l'esigenza di verità, quanto è scandaloso il tentativo di nasconderla.

Questa è una prima considerazione. Ma c'è dell'altro. Innanzitutto, ci sono i riflessi sulla Corte costituzionale e sulla posizione che è chiamata ad assumere. Non è dubbio che il presidente della Repubblica, come "potere dello Stato", possa intentare giudizi, per difendere le attribuzioni ch'egli ritenga insidiate da altri
poteri. Ma non si può ignorare che la Corte, in questo caso, è chiamata a pronunciarsi in una causa dai caratteri eccezionali, senza precedenti. Non si tratta, come ad esempio avvenne quando il presidente Ciampi rivendicò a sé il diritto di grazia, d'una controversia sui caratteri d'un singolo potere e sulla spettanza del suo esercizio. Qui, si tratta della posizione nel sistema costituzionale del Presidente, in una controversia che lo coinvolge tanto come istituzione, quanto come persona.

Non è questione, solo, di competenze, ma anche di comportamenti. Questa circostanza, del tutto straordinaria, non consente di dire che si tratti d'una normale disputa costituzionale che attende una normale pronuncia in un normale giudizio. È un giudizio nel quale una parte getta tutto il suo peso, istituzionale e personale, che è tanto, sull'altra, l'autorità giudiziaria, il cui peso, al confronto, è poco. Quali che siano gli argomenti giuridici, realisticamente l'esito è scontato. Presidente e Corte, ciascuno per la sua parte, sono entrambi "custodi della Costituzione". Sarebbe un fatto devastante, al limite della crisi costituzionale, che la seconda desse torto al primo; che si verificasse una così acuta contraddizione proprio sul terreno di principi che sia l'uno che l'altra sono chiamati a difendere. Così, nel momento stesso in cui il ricorso è stato proposto, è stato anche già vinto. Non è una contesa ad armi pari, ma, di fatto, la richiesta d'una alleanza in vista d'una sentenza schiacciante.

A perdere sarà anche la Corte: se, per improbabile ipotesi, desse torto al Presidente, sarà accusata d'irresponsabilità; dandogli ragione, sarà accusata di cortigianeria. Il giudice costituzionale, ovviamente, è obbligato al solo diritto. Ma perché così possa essere, è lecito attendersi che gli si risparmi, per quanto possibile, d'essere coinvolto in conflitti di tal genere, non nell'interesse della tranquillità della Corte e dei suoi giudici, ma nell'interesse della tranquillità del diritto.

C'è ancora dell'altro. Sulla fondatezza di un ricorso alla Corte, chi di essa ha fatto parte è bene che si astenga dall'esprimersi. Ma, almeno alcune cose possono dirsi, riguardando il campo non dell'opinabile, ma dei dati giuridici espliciti, e quindi incontestabili. Questi dati sono esigui. Una sola norma tratta espressamente delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica e della loro intercettazione, con riguardo al Presidente sospeso dalla carica dopo essere stato posto sotto accusa per attentato alla Costituzione o alto tradimento.

"In ogni caso", dice la norma, l'intercettazione deve essere disposta da un tale "Comitato parlamentare" che interviene nel procedimento d'accusa con poteri simili a quelli d'un giudice istruttore. Nient'altro. Niente sulle intercettazioni fuori del procedimento d'accusa; niente sulle intercettazioni indirette o casuali (quelle riguardanti chi, non intercettato, è sorpreso a parlare con chi lo è); niente sull'utilizzabilità, sull'inutilizzabilità nei processi; niente sulla conservazione o sulla distruzione dei documenti che ne riportano i contenuti. Niente di niente.

A questo punto, si entra nel campo dell'altamente opinabile, potendosi ragionare in due modi. Primo modo: siamo di fronte a una lacuna, a un vuoto che si deve colmare e, per far ciò, si deve guardare ai principi e trarre da questi le regole che occorrono. Il presupposto di questo modo di ragionare è che si abbia a che fare con una dimenticanza o una reticenza degli autori della Costituzione, alle quali si debba ora porre rimedio. Secondo modo: siamo di fronte non a una lacuna, ma a un "consapevole silenzio" dei Costituenti, dal quale risulta la volontà di applicare al presidente della Repubblica, per tutto ciò che non è espressamente detto di diverso, le regole comuni, valide per tutti i cittadini. Il presidente della Repubblica, nel suo ricorso, ragiona nel primo modo, appellandosi al principio posto nell'art. 90 della Costituzione, secondo il quale egli, nell'esercizio delle sue funzioni, non è responsabile se non per alto tradimento e attentato alla Costituzione.

La "irresponsabilità" comporterebbe "inconoscibilità", "intoccabilità" assoluta da cui conseguirebbero, nella specie, obblighi particolari di comportamento degli uffici giudiziari, fuori dalle regole e delle garanzie ordinarie del processo penale. La Corte costituzionale è chiamata ad avallare quest'interpretazione, che è una delle due: l'una e l'altra hanno dalla loro parte l'opinione di molti costituzionalisti. Le si chiede di dire che l'irresponsabilità, di cui parla la Costituzione, equivale, per l'appunto, a garanzia di intoccabilità-inconoscibilità di ciò che riguarda il presidente della Repubblica, per il fatto d'essere presidente della Repubblica.

Ma, in presenza di tanti punti interrogativi e di un'alternativa così netta, una decisione che facesse pendere la bilancia da una parte o dall'altra non sarebbe, propriamente, applicazione della Costituzione ma legislazione costituzionale in forma di sentenza costituzionale. Anzi, se si crede che il silenzio dei Costituenti sia stato consapevole, sarebbe revisione, mutamento della Costituzione. Per di più, su un punto cruciale che tocca in profondità la forma di governo, con irradiazioni ben al di là della questione specifica delle intercettazioni e con conseguenze imprevedibili sui settennati presidenziali a venire, che nessuno può sapere da chi saranno incarnati. Il ritegno del Costituente sulla presente questione non suggerisce analogo, prudente, atteggiamento in coloro che alla Costituzione si richiamano?

Coinvolgimento in una "operazione", inconvenienti per la Corte costituzionale, conseguenze di sistema sulla Costituzione: ce n'è più che abbastanza per una riconsiderazione. Signor Presidente, non si lasci fuorviare dal coro dei pubblici consensi. Una cosa è l'ufficialità, dove talora prevale la forza seduttiva di ciò che è stato definito il pericoloso "plusvalore" di chi dispone dell'autorità; un'altra cosa è l'informalità, dove più spesso si manifesta la sincerità. Le perplessità, a quanto pare, superano di gran lunga le marmoree certezze. Il suo "decreto" del 16 luglio, facendo proprie le parole di Luigi Einaudi (più monarchiche, in verità, che repubblicane), si appella a un dovere stringente: impedire che si formino "precedenti" tali da intaccare la figura presidenziale, per poterla lasciare ai successori così come la si è ricevuta dai predecessori.

Nella Repubblica, l'integrità e la continuità che importano non sono lasciti ereditari, ma caratteri impersonali delle istituzioni nel loro complesso. Col ricorso alla Corte, già è stato segnato un punto che impedirà di dire in futuro che un fatto è stato accettato come precedente, con l'acquiescenza di chi ricopre pro tempore la carica presidenziale. D'altra parte, da quel che è noto per essere stato ufficialmente dichiarato dal procuratore della Repubblica di Palermo il 27 giugno, le intercettazioni di cui si tratta sono totalmente prive di rilievo per il processo. Che cosa impedisce, allora, nello spirito della tante volte invocata "leale collaborazione", di raggiungere lo stesso fine cui, in ultimo, il conflitto mira - la distruzione delle intercettazioni, per la parte riguardante il presidente della Repubblica - attraverso il procedimento ordinario e con le garanzie di riservatezza previste per tutti? Che bisogno c'è d'un conflitto costituzionale, che si porta con sé quella pericolosa eterogenesi dei fini, di cui sopra s'è detto? Forse che i magistrati di Palermo hanno detto di rifiutarsi d'applicare lealmente la legge?




(17 agosto 2012)© Riproduzione riservata

da il Fatto quotidiano, 5 dicembre 2012
Dalle motivazioni della sentenza si capirà come abbia potuto la Consulta accogliere un conflitto di attribuzioni cervellotico, protervo e infondato come quello sollevato dal capo dello Stato contro la Procura di Palermo. Dal comunicato emesso ieri dopo 4 ore di Camera di Consiglio (segno forse di una discussione piuttosto accesa), si desume solo che si è deciso di piegare una norma pensata per tutt’altre evenienze al caso che tanto angustia Napolitano: la captazione casuale, anzi inimmaginabile di 4 sue telefonate sulle utenze intercettate di Nicola Mancino, un privato cittadino coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia.
L’art. 271 del Codice di procedura non c’entra nulla col capo dello Stato: riguarda le intercettazioni fuorilegge o quelle di conversazioni che svelino “fatti conosciuti per ragione del ministero, ufficio o professione” della persona ascoltata (il difensore che parla col cliente, il confessore col penitente). Ora, non esiste alcuna norma che proibisca di intercettare un cittadino che parla col capo dello Stato (né che vieti tout court di intercettare direttamente l’uomo del Colle, immune solo nell’esercizio delle sue funzioni). Dunque le intercettazioni sono perfettamente legali. In ogni caso la Procura, ritenendole irrilevanti, aveva già detto che avrebbe chiesto al Gup di distruggerle nell’apposita udienza a fine procedimento. Dunque non si comprende il comunicato della Consulta, là dove farfuglia con italiano malfermo e logica zoppicante: “Non spettava alla Procura di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione”. E chi l’ha detto che ha omesso, visto che anzi aveva preannunciato che l’avrebbe fatto?
Ma c’è di peggio: la Procura, secondo la Corte, avrebbe dovuto “escludere la sottoposizione” delle telefonate “al contraddittorio tra le parti”. Cioè: la Corte costituzionale rimprovera ai pm di non aver violato il principio costituzionale del contraddittorio. Non resta, purtroppo, che ricordare l’oracolo del presidente emerito Gustavo Zagrebelsky su Repubblica: “L’esito è scontato”. Cioè la Corte avrebbe dato ragione a Napolitano anche se aveva torto, pena una “crisi costituzionale”. Così, oltre ai pm, sarebbe uscita sconfitta la stessa Corte: “Se, per improbabile ipotesi, desse torto al Presidente, sarà accusata d’irresponsabilità; dandogli ragione, sarà accusata di cortigianeria”. Ecco: da ieri abbiamo una Corte cortigiana.
(5 dicembre 2012)


domenica 30 settembre 2012

IL SUCCESSO DI QOHÉLET IL LIBRO SULLA VANITÀ CHE PIACE IN TEMPI DI CRISI
 
di Gustavo Zagrebelsky

                               
Il figlio di Davide, re in Gerusalemme, non è un sistematico. Il suo linguaggio è a salti, pezzi e bocconi, aggiunte e contraddizioni. Tale composizione ha permesso agli interpreti di Qohélet di rispecchiare se stessi nel testo con molta libertà, piuttosto che rispecchiarlo. In quanto sfogo d'uno spirito radicalmente sfiduciato o deluso circa il vero, il giusto, il buono, circa tutto ciò che ha valore in sé, si è considerato questo piccolo libro (chiamato anche Ecclesiaste) un precursore dell'arte di vivere senza eccessi («non essere né troppo giusto né troppo malvagio»: 7,16) à la Montaigne o la testimonianza d'un disperato della vita ("voglio provare la gioia, ma a che giova?: 2, 2) à la Leopardi, per fare solo due nomi.
 
Si è visto in lui un padre dello scetticismo, del nichilismo, della disperazione e, alla fine, dell'edonismo egoistico, come farmaco e rimedio al taedium vitae di Lucrezio e Seneca o allo spleen di Baudelaire. Ma l'esaltazione della vita, soprattutto giovanile, ha fatto pensare anche a un'apologia della gioia di vivere. Altri, nella denigrazione dei beni del mondo hanno visto un "antidoto all'idolatria" delle cose vane e brevi (E. Bianchi): oggi, il successo, il denaro, i prodotti della tecnologia.

Queste sono più o meno arbitrarie interpretazioni attualizzanti. Qualcuno, seguendo Renan, vi ha perfino visto tratteggiato il profilo psicologico dell' Ebreo moderno, completamente secolarizzato e assimilato al mondo: una visione che può facilmente essere generalizzata. Ma, in fondo, ogni interpretazione è attualizzazione e riflette il volto dell'interprete nelle condizioni del tempo che è il suo.

In quanto testo privo di certezze "ontologiche", che colloca l'essere umano in uno spazio non governato dalla dura verità dell'essere divino che si rivela o che è rivelata, lo si è considerato espressione di "spirito laico": lo spirito della ricerca e dalla sperimentazione pragmatica di "tecniche di sopravvivenza" materiale e spirituale.

Oppure, infine, s'è parlato di "spirito d'attesa", soggiacente all'esaltazione della vanità del mondo. Nel vuoto della vita e nell'insignificanza in cui siamo immersi, Qohélet ci fa sentire l'urgente bisogno di uno svelamento, di una "rivelazione".

Sarebbe un libro dell'attesa, quasi un'invocazione messianica. Finalmente, la denigrazione del mondo si può intendere come una spinta, una preparazione all'accoglienza di un mondo che verrà, un "mettersi sulla soglia" di qualche evento o avvento portatore di senso (P.De Benedetti). Questa è la pia interpretazione cristiana, già a partire dall'orazione "Vanitas vanitatum" di Giovanni Crisostomo: un'interpretazione che la svalutazione luterana del mondo e l'attesa della salvezza solo "per grazia" accentueranno.
 
Qui, non c'è da prendere posizione. Il testo è fisso, le parole sono ricche di significati e le interpretazioni sono libere. L'unica cosa che non si può negare è l'esistenza del filo conduttore, la vanità delle vanità che lega tutto il discorso, dall'inizio alla fine, in un moto circolare, che riproduce letterariamente la legge universale che muove in un circolo chiuso le cose del mondo, sotto il sole.

Un libro attuale? All'epoca in cui fu il libro fu scritto (tra il III e il II secolo a. C.) dovette esserlo. Non mancano accenni polemici, oggi quasi incomprensibili, a vicende contemporanee. In generale, Qohélet è figlio del suo tempo, un tempo d'incertezze rispetto ai valori della tradizione, insidiati da influenze scettiche provenienti dalla cultura ellenistica, dal sorgere di sette fanatiche come quella degli Esseni, e da movimenti politico-radicali per la restaurazione della pura fede dei padri, senza che valori nuovi apparissero all'orizzonte: un tempo del "non più" e del "non ancora". Qohélet reagisce con distaccata indifferenza, come i grandi scettici che additano nei piccoli piaceri l'efficace lenimento dei dolori d'una vita senza speranza.

E oggi? Se guardiamo al successo che il nostro testo incontra, e in misura crescente, nella letteratura esegetica, nella poesia, nel teatro, nella musica, nel senso comune che si è appropriato di tante espressioni di Qohélet, facendole sue e dimenticando la fonte; se diamo al giovanilismo odierno, alla paura dell'invecchiamento e agli esorcismi contro la morte il significato d'un marchio del tempo, al di là del loro aspetto grottescoe disperato, possiamo forse credere in Qohélet come filosofo per i nostri giorni, e fare nostra la parola di Ceronetti: qohéletite. Anche questo odierno incontro potrebbe essere un sintomo di qualcosa, come un'infezione dello spirito.

Oppure, potrebbe essere il segno della speranza in qualcosa che deve nascere. Per capirne di più, occorrerebbe l'interrogazione, niente di meno, sui caratteri profondi dello spirito dell'epoca attuale, nel confronto con lo spirito cui Qohélet, ventidue secoli fa, diede voce.

Anche la saggezza di Qohélet è vana? Di qohéletite si può morire. E anche morire percorrendo una strada di piacevolezze. Chi non ha sentito il fascino poetico delle potenti immagini che descrivono l'insignificanza dei giorni della vita "sotto il sole"? Chi non direbbe: è proprio così, so anch'io che è così?

Le parole di Qohélet cadono su un terreno predisposto ad accoglierle. E chi non ha detto: prendiamo dalla vita, momento per momento, il piacere effimero che può dare, senza pensare al futuro? Anche a questo, il terreno è predisposto. E se poi Dio "ti convocherà in giudizio" (11,9), gli si potrà dire: ma proprio tu mi hai messo nella disperata condizione mortale e non mi hai detto come uscirne. Devo sì ricordarmi del mio creatore (12, 1), ma proprio perché me ne ricordo e so d'essere quello che hai voluto ch'io fossi, procedo così. Condannami, se puoi! Dunque, la voce di Qohélet è seducente.
 
Ma è anche convincente? Egli si presenta spoglio d'ogni orgoglio e anche in questo consiste il suo potere seduttivo. Ma la sua è modestia solo apparente. Non dice: questo o quello è vanità, ma tutto, veramente tutto, è vanità, anzi è vanità delle vanità.

In verità, qui non c'è modestia, ma massima prova d'orgoglio. È un mettersi al di sopra di tutto e di tutti. Ma quest'atto d'orgoglio troppo s'innalza e rovina su se stesso. Se tutto è vano, infatti, lo sono anche, e specialmente, le parole di Qohélet stesso. Se non sono vane, allora non è vero che tutto è vano e altro ci può essere che contraddice "non vanamente" quelle parole.

Del resto, Qohélet, sulla sua "vanità" costruisce addirittura un'etica, l'etica del vano godimento della vita. In base a quale principio o autorità preminente può egli dire che tutto è senza valore, salvo ciò che viene detto da lui stesso?

Si uscirebbe dalla difficoltà se si dicesse che il nostro testo non parla della "vanità" della vita, ma solo dei "vanitosi" che incontriamo nella vita: questi sì sarebbero vani e vuoti, ma tra questi potrebbe non esserci Qohélet stesso in quanto egli prenda le distanze (come in 7, 8) dalla vanità dei vanitosi. La vanità e la vuotaggine, allora, potrebbero non riguardarlo. Ma, per quanto le interpretazioni possano spaziare, una come questa varrebbe ad appianare le impervie vette del testo in una visione banalizzatrice, ma trascurerebbe il dato più evidente: Qohélet non si professa affatto diverso da tutti gli altri mortali; non si dichiara esente dalla legge generale della vanità della vita.

Al contrario, anch'egli è completamente irretito nella vanità del mondo, nell'assurdità di tutte le vite che si svolgono sotto il sole, destinate a essere ugualizzate nella morte. Si considera un "pezzo" della generale insensatezza; anzi, un testimone autorevole di questa generale condizione.

Non dobbiamo considerare quelle che precedono vane esercitazioni logiche.
Dobbiamo invece respingere, come fallaci e tentatrici, tutte le affermazioni autoriflessive circa il valore (vero o falso, vano o non vano) delle affermazioni medesime. Esse sì sono insensate. Una proposizione nonè vera o falsa perché tale è detta da chi la pronuncia. Occorrerebbe un fondamento, un criterio esterno. Orbene, potrebbe essere tanto che Qohélet abbia ragione quanto che abbia torto. Ma, per poter dire una cosa o l'altra, dobbiamo cercare la verità fuori delle sue parole. Non c'è verità in Qohélet.

C'è molta suggestione e poesia, autocompiacimento d'un animo depresso, ideologia - qohéletite - tipica d'un tempo di crisi.

C'è nelle sue parole "fame di vento". O, forse, c'è la generalizzazione d'un'esistenza individuale di fallimenti. Ma perché dovremmo concedergli l'autorità di parlare per tutti e per sempre, e condannare come insensata in generale la ricerca di qualcosa che vale, e come illusoria l'azione rivolta a costruire, nella vita individuale e in quella collettiva, qualcosa che vana non sia?

GUSTAVO ZAGREBELSKY