MEMENTO MORI

"Modi di morire" di Iona Heat, medico di base inglese.
Bollati Boringhieri. Recensione di Umberto Galimberti.
La morte, il destino, la scienza
Siamo ancora capaci di morire? O abbiamo a tal punto rimosso il concetto di morte da non essere più in grado di affrontare l'evento con quello sguardo sereno di cui forse erano capaci gli uomini di altre culture, non ancora educati dalla cultura cristiana in cui noi occidentali siamo cresciuti, dai progressi della scienza medica che riduce il nostro corpo a semplice organismo, e infine dall'enfasi giornalistica che annuncia promesse che il sapere medico non è ancora in grado di garantire?
Per effetto della cultura cristiana, infatti, si è affievolita la persuasione interiore, ben radicata nella cultura greca, secondo la quale l'uomo è "mortale", e perciò non muore perché si ammala, ma si ammala perché fondamentalmente deve morire. L'affievolirsi della promessa di una vita ultraterrena, per effetto della secolarizzazione del cristianesimo, ha fatto del prolungamento della vita ad opera della scienza medica il supremo valore a cui tutti tendono, per cui la morte non appare più come un "destino", ma come un "fallimento" del sapere e della pratica medica.
I medici, a loro volta, avendo a che fare con la "salute", che è una sottospecie della categoria religiosa della "salvezza", sono stati investiti da un alone di sacralità, quando invece sono dei semplici funzionari di un sapere limitato, in grado non di salvare chiunque in qualsiasi circostanza, ma, come diceva Ippocrate: "di evitare la morte evitabile", o come a più riprese ribadisce Aristotele: "di aiutare la natura a risanarsi da sé". I limiti della scienza non sono noti ai pazienti, che tendono ad attribuire al sapere medico quell'onnipotenza che in ambito religioso viene attribuito a Dio o ai santi che fnno i miracoli.
A tutto ciò si aggiunge il fatto che il medico, nel corso della sua preparazione universitaria e specialistica, non è mai a contatto con l'"uomo ", ma sempre e soltanto con il suo "organismo", per cui se è capace di cogliere il "male" che è un elemento oggettivo, può faticare a capire il "dolore" che è un tratto soggettivo, e ancor più l'angoscia di menomazione o di morte che è il nucleo più profondo della soggettività di ciascuno di noi. Nell'Ottocento chi si laureava in medicina doveva aver seguito due corsi di filosofia per capire chi è un uomo al di là del suo organismo. Oggi non è più così.
In Modi di morire, Iona Heat, medico di base con alle spalle oltre trent'anni di pratica in uno dei quartieri più poveri di londra, affronta in modo non consolatorio, ma incisivo e radicale questo problema, a partire dalla trasformazione della figura del medico che, da intermediario tra noi e la morte, s'è fatto: o seguace della sfida teconologica che ha come suo scopo il prolungamento della vita e non la sua qualità, o sacerdote della prevenzione, come se il nostro rapporto con la morte fosse solo quello di prevenirla o di posticiparla. E allora: state a dieta, non fumate, fate jogging, pensate positivo, come se queste pratiche potessero cambiare l'incidenza o l'esito di buona parte delle nostre effettive disgrazie.
Scienziati e medici, ma anche giornalisti e politici sono ampiamente responsabili di queste illusioni, che hanno come risultato quello di "colpevolizzare la vittima", come ben ci ha insegnato Susan Sontag in Malattia come metafora, o quello ben peggiore di distoglierci dal pensiero della morte, con il risultato di farci morire male, senza dignità, ridotti a puro materiale biologico nelle mani dei medici, che vivono la nostra morte come una sconfitta del loro sapere, a cui mancano le parole che nessuno ha loro insegnato per accompagnarci quando la vita si congeda. [da La Repubblica, sabato 2 febbraio 2008]

Venezia_Palazzo Grassi sul Canal Grande
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Aggiornamento di martedì 5 febbraio 2008
Tra informazione e disinformazione: un post aiuta
Il documento sui prematuri redatto dai direttori delle cliniche ginecologiche delle facoltà di medicina delle università romane (Tor Vergata, La Sapienza, Cattolica e Campus Biomedico) ha scatenato l’ennesima polemica.
Il documento originale (ne ho fatto richiesta alla AGUI che cortesemente me lo ha inviato) è il seguente: La prematurità estrema: margini di gestione ostetrica e risvolti neonatologici. Convegno promosso dalle Facoltà di Medicina e Chirurgia delle Università Romane. Documento conclusivo: con il momento della nascita la legge attribuisce la pienezza del diritto alla vita e quindi all’assistenza sanitaria. Pertanto un neonato vitale va trattato come qualsiasi persona in condizioni di rischio ed assistito adeguatamente. L’attività rianimatoria esercitata alla nascita dà quindi il tempo necessario per una migliore valutazione delle condizioni cliniche, della risposta alla terapia intensiva e della possibilità di sopravvivenza e permette di discutere il caso con il personale dell’Unità ed i genitori. Se ci si rendesse conto dell’inutilità degli sforzi terapeutici, bisogna evitare ad ogni costo che le cure intensive possano trasformarsi in accanimento terapeutico.
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