Visualizzazione post con etichetta medioriente. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta medioriente. Mostra tutti i post

domenica 11 gennaio 2009


Intorno a Gaza e Israele


Oggi copio e incollo due articoli in cui due persone perbene espongono i problemi, ricercano responsabilità e cause dei massacri in corso, prevedono soluzioni possibili in un dilemma apparentemente senza soluzioni. Ho sempre pensato che due fossero le date importanti nella questione palestinese: il 1948 e il 1967. Moni Ovadia mi fa capire che ce n'è una terza: il 1995, anno dell'uccisione di Yitzhak Rabin . I palestinesi hanno bisogno di un leader amato ed autorevole. Gli stessi israeliani hanno pensato a Marwan Barghouti, condannato in Israele a cinque ergastoli: Liberare Barghouti. Un ministro israeliano rompe il tabù (Panorama, Martedì 19 Giugno 2007 ). Non so nulla di preciso su Barghouti, ma l'ho sentito spesso nominare come un possibile mediatore, nonostante le accuse per le quali è in prigione. 


Rischio pacificazione senza pace


Moni Ovadia -



di Moni Ovadia


L'orrore che viene dalla "terrasanta" ha il corpo tecnologico di armi micidiali, ci pietrifica, ci carica di colpa, ci ferisce con l'insulto dei corpicini inerti, con la brutalità degli occhi terrorizzati di un'infanzia la cui vita è sospesa, ma ha anche il volto di un missile di "scarsa" efficienza che demolisce un ospizio per vecchi. La litania della violenza non deve tuttavia paralizzare la nostra capacità di pensare in termini politici. Se ciò accadesse la deriva dell'odio e della morte sarebbe inarrestabile.


Le responsabilità del tragico status quo non sono univoche, ci sono responsabilità dei paesi arabi, di parte della dirigenza palestinese, ma è mia persuasione che il bandolo della matassa stia nella classe politica israeliana che governa da quasi tre lustri. Da che Rabin è stato assassinato, nessun politico israeliano al potere ha creduto nella soluzione dei due stati sovrani sulla base delle risoluzioni dell'Onu. Tutti i leader, ciascuno a suo modo, hanno optato per il mantenimento dello status quo, con lo strumento della deterrenza militare al fine di logorare ogni prospettiva di soluzione definitiva. La propaganda ha sempre cercato il colpevole nell'altro campo. Prima era Arafat, adesso è Hamas. Sharon ha abilmente preparato il piano per disgregare ogni possibilità di uno stato palestinese sovrano. Il ritiro unilaterale da Gaza non concordato con Abu Mazen ha umiliato il presidente dell'Autorità e gli ha fatto perdere le elezioni. La riduzione di Gaza ad una prigione a cielo aperto ha rinforzato Hamas e spaccato la società palestinese già in gravissime difficoltà.


Ho l'impressione che questi politici israeliani miopi mirino alla "two Bantustan solution": uno in Cisgiordania federato con la Giordania e uno a Gaza sotto tutela egiziana.


Ovvero una pacificazione senza pace.


*


Il fardello dell'uomo israeliano


Barbara Spinelli


di Barbara Spinelli


Non molto tempo prima dell’offensiva contro Gaza, il premier israeliano Ehud Olmert pose a se stesso e al proprio popolo una domanda gelida, senza precedenti. Una domanda non concernente i valori e la morale, ma la pura utilità.

Era il 29 settembre, e in un’intervista a Yedioth Ahronoth denunciò quarant’anni di cecità: quella d’Israele e la propria. Disse che era arrivato il momento, non rinviabile, in cui lo Stato doveva mutare natura e scegliere come vivere e sopravvivere: se guerreggiando in permanenza, o cercando la pace coi vicini.

Non negò le colpe di Hamas e di molti Stati arabi, ma invitò i connazionali a concentrarsi sul «proprio fardello di colpa». Il fardello consisteva negli automatismi del pensiero militarizzato: «Gli sforzi di un primo ministro devono puntare alla pace o costantemente aspirare a rendere il paese più forte, più forte, più forte, con l’obiettivo di vincere una guerra?».

Aggiunse che personalmente non ne poteva più di leggere i rapporti dei propri generali: «Possibile che non abbiano imparato assolutamente nulla? Per loro esistono solo i carri armati e la terra, il controllo dei territori e i territori controllati, la conquista di questa e quella collina. Tutte cose senza valore». L’unico valore da ritrovare era la pace, perseguibile a un’unica condizione: liquidando le colonie, restituendo «quasi tutti se non tutti i territori», dando ai palestinesi «l’equivalente di quel che Israele terrà per sé». Alla Siria andava reso il Golan, ai palestinesi parte di Gerusalemme. Così parlò il primo ministro d’Israele, non un preconcetto nemico dello Stato ebraico e del suo popolo.

Da queste parole sembra passato un tempo enorme e oggi non sono che fumo e fame di vento, come nel Qohèlet. Allora l’opportunità era imperativa, vicina. Nemmeno tre mesi dopo, la guerra è decretata «senza alternative». Allora Olmert pareva ascoltare gli intellettuali contrari alle soluzioni belliche: da Tom Segev a Gideon Levy a Abraham Yehoshua che tra i primi, su La Stampa, ha invocato negli ultimi giorni la tregua. Tre mesi dopo il pensiero militarizzato si riaccende e il dissenso si dirada. Non restano che Segev, Gideon Levy, Yossi Sarid. Perfino Yehoshua considera vana una reazione proporzionata ai missili di Hamas «perché la capacità di sopportazione e resistenza dei palestinesi è infinitamente superiore a quella degli israeliani». La domanda gelida di Olmert, a settembre, era la seguente e resta valida: «Che faremo, dopo aver vinto una guerra? Pagheremo prezzi pesanti e dopo averli pagati dovremo dire all’avversario: cominciamo un negoziato».

Secondo Olmert, Israele era a un bivio: «Per quarant’anni abbiamo rifiutato di guardare la realtà con occhi aperti (...). Abbiamo perso il senso delle proporzioni».
Non poche cose s’intuiscono, anche se ai giornalisti è vietato il teatro di guerra. Quel paesaggio che da giorni vediamo sugli schermi, alle spalle dei reporter, è praticamente tutta Gaza: non più di 40 chilometri di lunghezza, 9,7 chilometri di profondità. Con 360 chilometri quadrati, Gaza è più piccola di Roma e abitata da 1,5 milioni di palestinesi.

Inevitabile che in un lembo sì minuscolo i civili abbattuti siano tanti (metà degli uccisi, secondo alcuni). Inevitabile chiedersi se i governanti israeliani non persistano nella cecità, quando negano che la loro guerra sia contro i civili e un disastro umanitario.
Israele ha serie ragioni da accampare: i missili di Hamas sulle città del Sud, da anni e malgrado il ritiro unilaterale voluto da Sharon nel 2005, generano angoscia e collera indicibile, anche se i morti non sono molti. Ma ci sono cose non dette, in chi giustamente s’indigna: cose che questi ultimi nascondono a se stessi, dure da ammettere, non vere.
Non è vero, innanzitutto, che lo Stato israeliano reagisca senza voler penalizzare i civili.

Bersagliando i luoghi da cui partono i missili di Hamas, esso sa che subito Hamas e i missili si sposteranno altrove, e che in quei luoghi non resteranno che i civili: vecchi, donne, bambini. Lo dicono essi stessi, ai giornalisti: «Quando parte un missile vicino alle nostre case, scuole, moschee, sappiamo che non Hamas sarà colpito, ma noi». La domanda è tremenda: come spiegare agli abitanti di Gaza la differenza con rappresaglie che, come a Marzabotto, sacrificarono centinaia di civili al posto di introvabili partigiani?
Secondo: non è vero che non esistessero alternative all’attacco aereo e terrestre. Se la tregua con Hamas non ha funzionato, è perché mai iniziò veramente. Perché i coloni avevano evacuato la Striscia ma Israele manteneva il controllo dei cieli, del mare, dei confini. Il cessate il fuoco negoziato a giugno prevedeva la fine del lancio di missili palestinesi ma anche la rimozione del blocco di Gaza, imputabile a Israele. I missili son diminuiti, anche se non scomparsi: ne cadevano a centinaia tra maggio e giugno, ne son caduti meno di 20 nei quattro mesi successivi. Nulla invece è accaduto per il blocco.

Questo è il «fardello di colpe» israeliane, non piccolo, e ancora una volta la geografia aiuta a capire. Dice il governo d’Israele che dal 2005 Gaza appartiene ai palestinesi, ma che non è servito a nulla. È falso anche questo, perché Gaza essendo priva di autonomia non è messa alla prova. Non le manca solo il controllo dell’aria, del mare. Ci sono sei punti di passaggio che dovrebbero consentire il transito di cibo, acqua, elettricità, uomini (lungo la frontiera con Israele il valico Erez a Nord, i valichi Nahal Oz, Karni, Kissufim, Sufa a Est; ai confini con l’Egitto il valico Rafah) e tutti sono chiusi. Per una briciola come Gaza è impossibile vivere senza rapporti coll’esterno, ed essi sono bloccati da quando Hamas ha vinto le elezioni e rotto con Fatah. Anche in tal caso un’intera popolazione paga per i politici, e quando il cardinale Martino parla di campo di concentramento (altri parlano di prigione a cielo aperto) non s’allontana dai fatti. I tunnel servono a contrabbandare armi, è vero. Ma anche a trasportare cibo, medicine, pezzi industriali di ricambio. Il disastro umanitario a Gaza non comincia oggi. E quel milione e mezzo è lì perché cacciatovi dall’esercito israeliano nel ’48.
La punizione è parola chiave, in numerose guerre israeliane. Ma la punizione en masse dei civili non punisce in realtà nessuno, e accresce ire omicide nei contemporanei e nei discendenti. È una sorta di vendetta esibita. È guerra terapeutica che libera da inibizioni morali, guerra fatta per roteare gli occhi, scrive Yossi Sarid (Haaretz, 9 gennaio). È non solo feroce, ma vana. I missili di Hamas continuano a colpire e hanno addirittura allungato la gittata: ormai colpiscono Beer Sheva (36 chilometri dalla centrale atomica di Dimona) e la base di Tel Nof (27 chilometri da Tel Aviv).

Gaza e Cisgiordania sono più che mai interdipendenti. Quel che accade in Cisgiordania ha pesato amaramente su Gaza, e pesa ancora. In questo caso sì: non c’è alternativa alla decolonizzazione e al ritiro. Anche Israele, come tanti imperi, deve passare di qui. Deve smettere di separare i teatri d’azione: di edificare nuove colonie ogni volta che negozia o ogni volta che guerreggia su altri fronti, in Libano o a Gaza. È quello che teme anche oggi Dror Etkes, coordinatore dell’associazione israeliana Yesh Din (volontari per i diritti umani): «Posso certificare che proprio in queste ore stanno spianando terre in Cisgiordania per una nuova colonia presso Etz Efraim, e per un avamposto presso Kedumim». In un libro di Idith Zertal e Akiva Eldar (Lords of the Land, New York 2007) è scritto che la pace è irraggiungibile se non si riconosce che ogni singola colonia, e non solo i cosiddetti avamposti illegali, viola la legge internazionale; se non ci si spoglia dell’ossessione delle armi e delle terre idolatrate, che Olmert stesso ha denunciato poche settimane fa.


La Stampa, 11 gennaio 2009

sabato 10 gennaio 2009

La questione morale del nostro tempo


di Ali Rashid, Moni Ovadia


Le immagini che giungono da Gaza ci parlano di una tragedia di dimensioni immani e le parole non bastano per esprimere la nostra indignazione. Col passare dei giorni cresce la barbarie che insieme alla vita, alle abitazioni, agli affetti, ai luoghi della cultura e della memoria, distrugge in tutti noi l'umanità e con essa il sogno e la speranza. E deforma in noi il buon senso, mortifica la cultura del diritto, forgiata dalle tragedie del secolo passato per prevenirne la ripetizione.
Così diventano carta straccia le convenzioni internazionali e le norme basilari del diritto internazionale nonché le sue istituzioni, paralizzate dai veti e svuotate di autorevolezza oltre che di strumenti per l'agire.
Così crescono l'odio e il rancore, si radicalizzano le posizioni e le distanze diventano incomunicabilità. Le stesse responsabilità si confondono, tanto che la vita in una prigione a cielo aperto diviene la normalità, l'invasione di uno degli eserciti più potenti del mondo è alla stessa stregua di un atto pur esecrabile di terrorismo.
Ma così non si aiuta la pace, che è fatta in primo luogo di ascolto, dialogo e compromesso. Certo, anche di diritto, ma abbiamo visto che per questa sola via sessant'anni non sono bastati e dopo ogni crisi ci si è ritrovati con un po' di rancore in più e di certezza del diritto in meno.
Noi sappiamo che l'occupazione genera resistenza, la guerra rafforza il terrorismo, la violenza cambia le persone e i fondamentalismi si alimentano reciprocamente. Ma abbiamo anche imparato in tutti questi anni che gli obiettivi di pace, sicurezza e prosperità non passano attraverso l'uso della forza delle armi, ma attraverso l'adozione di scelte accettabili per entrambe le parti in causa e l'avvio di un processo di riconoscimento reciproco, del dolore dell'altro in primo luogo, che è il primo passo verso la riconciliazione.
Al contrario, ogni volta che ci si è avvicinati ad un compromesso accettabile, il ricorso scellerato alla violenza, all'assassinio premeditato, all'annichilimento dell'altro, è servito a demolire ciò che si era pazientemente costruito, quel po' di fiducia reciproca in primo luogo.
Il tutto viene poi complicato dal peso della storia che in questo contesto, nel rapporto fra Europa, «Terrasanta» e Medio Oriente, agisce come un macigno non elaborato, generando falsa coscienza, ipocrisia, irresponsabilità.
L'esito è stato l'incancrenirsi di una questione, quella palestinese, che ha avuto ed ha effetti destabilizzanti in tutta la regione ed anche oltre, diventando - come ebbe a definirla Nelson Mandela - «la questione morale del nostro tempo».
Di questo vulnus si sono nutriti in questi anni il terrorismo e il fondamentalismo, regimi autoritari e cultori dello scontro di civiltà. A pagare sono state le popolazioni della regione, sono i bambini e i ragazzi cresciuti in un contesto di odio, di violenza e di paura, ma anche la democrazia e la cultura laica che pure traevano vigore dalle tradizioni ebraiche e arabo-palestinesi.
Così anche da questa guerra, assassina e stupida come ogni guerra, a trarne vantaggio saranno solo i fondamentalismi e chi pensa che la soluzione possa venire dall'annichilimento dell'avversario.
Come hanno scritto nei giorni scorsi Vaclav Havel, Desmond Tutu ed altri uomini di cultura «...quello che è in gioco a Gaza è l' etica fondamentale del genere umano. Le sofferenze, l' arbitrio con cui si distruggono vite umane, la disperazione, la privazione della dignità umana in questa regione durano ormai da troppo tempo. I palestinesi di Gaza, e tutti coloro che in questa regione vivono nel degrado e privi di ogni speranza non possono aspettare l' entrata in azione di nuove amministrazioni o istituzioni internazionali. Se vogliamo evitare che la Fertile Crescent, la "Mezzaluna fertile" del Mediterraneo del Sud divenga sterile, dobbiamo svegliarci e trovare il coraggio morale e la visione politica per un salto qualitativo in Palestina».
Per questo facciamo appello alle persone che amano la pace e che vedono nella tragedia di queste ore la loro stessa tragedia, di fare tutto ciò che è nelle loro possibilità affinché vi sia
l'immediato, totale, cessate il fuoco - non la beffa delle «tre ore»;
la fine dell'assedio sulla Striscia di Gaza e il rispetto delle istituzioni palestinesi democraticamente elette;
l'intervento di una forza di pace internazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza lungo i confini del '67;
l'avvio di un negoziato per arrivare ad una soluzione politica basata sul rispetto dei diritti dei popoli, delle minoranze e della persona, nell'ambito di un processo che possa garantire nell'immediato confini sicuri per lo Stato di Israele e per lo Stato di Palestina;
la creazione di un comitato per la pace in Palestina, che superi i limiti e le strumentalizzazioni che hanno caratterizzato le iniziative degli ultimi anni;
l'adesione delle persone e delle associazioni che hanno a cuore la pace in Medio Oriente per impedire che il conflitto si trasformi in guerre di religione e tra civiltà, con la promozione di iniziative su tutto il territorio italiano e la convocazione di una manifestazione nazionale al più presto.
Non di meno, in un contesto dove l'interdipendenza è il tratto del nostro tempo e come persone che hanno comuni radici mediterranee, non smettiamo di pensarci come cittadini di una comune regione post-nazionale euromediterranea, parte di una cultura che - attraverso la storia di conflitti tra città e campagna, o nella concorrenza tra fede e sapere, o nella lotta tra i detentori del dominio politico e le classi antagoniste - si è lacerata più di tutte le altre culture e non ha potuto fare a meno di apprendere nel dolore come le differenze possano comunicare.
In questo spirito ci impegniamo a ricostruire quel che la guerra sta abbattendo, i ponti fra le persone, le culture, i luoghi della pace in e fra entrambe le società, per creare nuovi terreni di relazione e collaborazione fra l'Italia e la Palestina, intensificando altresì gli atti di solidarietà verso tutte le vittime, in modo particolare la popolazione della Striscia di Gaza.
Per le adesioni a questo appello


paceinpalestina@gmail.com - Il Manifesto, 8 gennaio 2009

martedì 6 gennaio 2009

QUALI  BOMBE SU GAZA?


TIMESONLINE_January 04, 2009_Gaza_Israeli artillery shells explode with a chemical agent designed to create smokescreen for ground forces_(Jack Guez/AFP/Getty Images)


TIMESONLINE. January 04, 2009. Gaza. Israeli artillery shells explode with a chemical agent designed to create smokescreen for ground forces. (Jack Guez/AFP/Getty Images)


*


Israelis deny using phosphorus. Richard Norton-Taylor . The Guardian, Tuesday 6 January 2009



Israeli military spokesmen deny that their forces have used phosphorus in Gaza, despite photographs and film of munitions showing similar characteristics to the potentially lethal shells.


The Israelis have not said what kind of munitions they have been using, other than saying that their use is permitted under international law.


Phosphorous shells are not illegal if they are used to create a smokescreen or to illuminate targets, rather than as a weapon against people, military experts and human rights campaigners said yesterday.


Mark Garlasco, senior military analyst at Human Rights Watch, said it seemed from news films that Israel had used "artillery-delivered obscurants" which were not illegal. ... continua qui .


*


Israele usa le bombe al fosforo a Gaza di RACHELE GONNELLI


Israele usa bombe a grappolo al fosforo bianco. Si tratta di armi che in base alla Convenzione di Ginevra e ai relativi protocolli internazionali del 1980 non possono essere utilizzate contro la popolazione civile e in aree densamente popolate.Dell’impiego massiccio di queste bombe, con il loro caratteristico effetto tracciante simile a un fuoco d’artificio, se viste da lontano, esiste una vasta documentazione fotografica nei reportage delle principali agenzie del mondo che arrivano in questi giorni dalla Striscia di Gaza.

A parlarne, a denunciarne l’uso durante l’avanzata terrestre dell’esercito israeliano dopo aver visto queste foto, sono stati soprattutto i blogger. Una denuncia che corre sul web da un capo all’altro del mondo ma che finora non ha trovato finora molto spazio sulle pagine dei giornali cartacei. Se ne parla però su alcuni forum di quotidiani inglesi, da "The Guardian" al "Times" di Londra.  ... L'Unità, 5 gennaio 2009



L'Unità_5 gennaio 2009


*


Tra gli altri orrori, speriamo che questo sia smentito. Ampiamente  smentito, non con le consuete menzogne dei vertici militari, come è stato fatto in altre occasioni. In Iraq, per esempio. I nostri giornali non ne parlano. Vedremo perché. Per capire meglio la situazione di Gaza nel post precedente ho incollato delle carte geografiche:qui .


domenica 4 gennaio 2009

GUERRA, VITA, MORTE


http://it.wikipedia.org/wiki/Striscia_di_Gaza



«Per il nuovo anno vorrei che Israele si rendesse conto che il conflitto non può essere risolto con mezzi militari. E che Hamas capisse che non è suo interesse servirsi della violenza». Daniel Barenboim, direttore d'orchestra, ha semplicemente evidenziato il carattere irresolvibile del conflitto armato che dura dal 1948. Più di sessant'anni. Una guerra che richiama quella dei Cento anni: quanti ne ricordano i motivi? Immane stupidità. Annidata nel nostro cervello, come sostiene Rita Levi Montalcini: "Il cervello spiega tutto. Bisogna partire da qui. Il nostro modo di comportarci è più emotivo che cognitivo. Esiste un centro arcaico del cervello, limbico: non ha avuto nessuno sviluppo dall’australopiteco ad oggi, è identico. È la sede dell’aggressività. Il cervello limbico ha salvato l’uomo quando è sceso dagli alberi, gli ha consentito di difendersi e combattere. Oggi può essere la causa della sua estinzione."



Continua la tragedia di Gaza e, in generale, dei due popoli costretti a convivere. Già la parola "striscia" mi provoca una sindrome claustrofobica. Se al dato geografico e politico aggiungo l'odio e l'impossibilità di una vita pacifica di due popoli l'uno accanto all'altro, sfioro la follia dell'animale in gabbia. Quando tento di immedesimarmi ora in un israeliano ora in un palestinese, non riesco a uscire dal mio schema mentale che rifiuta la guerra: rifiuterei tanto la logica del governo israeliano quanto quella di Hamas e vorrei costringerli a ragionare. Ma sarei sicuramente fuori della realtà umana che ancora contempla ancora la guerra come "soluzione" più o meno finale dei conflitti.



*


Riporto con orrore un breve pezzo di un lungo e complicato libro di psicoanalisi della guerra. Con orrore perché la guerra appare inscritta nei nostri archetipi e con speranza perché il progresso culturale ci consentirebbe di eliminarla dalla nostra storia.


"Non esiste una soluzione pratica alla guerra perché la guerra non è un problema risolvibile con la mente pratica, la quale è più attrezzata per la sua conduzione che per la sua elusione o conclusione. La guerra appartiene alla nostra anima come verità archetipica del cosmo. E' un'opera umana e un orrore inumano, e un amore che nessun altro amore è riuscito a vincere. Possiamo aprire gli occhi su questa terribile verità e, prendendone coscienza, dedicare tutta la nostra appassionata intensità a minare la messa in atto della uerra, forti del coraggio che la cultura possiede, anche nei secoli bui, di continuare a cantare mentre resiste alla guerra. Possiamo comprenderla meglio, differirla più a lungo, lavorare per sottrarla via via al sostegno di una religione ipocrita." (James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, pag. 259)



*


La guerra e l'etica della morte e della vita di Eugenio Scalfari (La Repubblica, 4 gennaio 2009)

sabato 1 marzo 2008

BAMBINI A GAZA





Quattro bimbi uccisi dall'aviazione israeliana mentre giocavano a pallone. Trenta palestinesi morti in 48 ore di attacchi. I razzi qassam di Hamas raggiungono Ashqelon. Il premier Olmert s'allinea a Barak, soltanto il ministro Shitrit contrario: l'invasione della Striscia sembra inevitabile. [ Il Manifesto, 29 febbraio 2008 <QUI> ]

.


...Almeno 49 palestinesi, tra cui anche donne e bambini, sono rimasti uccisi oggi nel corso di una vasta operazione israeliana nel nord della Striscia. I gruppi armati palestinesi hanno a loro volta lanciato oltre 50 razzi sulle città israeliane nei pressi del confine. Morti stamattina anche due soldati israeliani. ...


*


Il punto di vista di Peace man (palestinese di Gaza Strip) e di Hope man (israeliano di Sderot) nel loro blog

*



*




  • Saturday, March 1, 2008





What we have feared most is happening



For 4 days there has been ongoing escalation. Israel has continued to bomb from the air as rockets continued falling on Sderot and on Ashkelon. ... We need a quick cease fire to first stop the blood shed, then calm down for a few days from the situation, then think again of new ways to solve the situation. A cease fire will happen eventually. It always does. Why not now before even more pain and more hatred are created?

We need a cease fire now!










Since the killing of an Israeli in Sederot, Israel began shelling Gaza.
The total number of Palestinians killed was 17, including six children, and one baby seven months old. ... continua
qui - Peace man




  • Wednesday, February 27, 2008




Endless senssless circle of blood



This morning 5 Palestinians were killed by an Israeli air strike.
Associated Press wrote: "An Israeli aircraft blew up a minivan carrying Hamas gunmen in southern Gaza on Wednesday, killing five militants including two key commanders involved rocket attacks on Israel, the militant group said."... continua
qui - Hope man


Aggiornamento in tarda serata



Bambini Palestinesi ad Amman. 1 marzo 2008. (Reuters)


Altre fotografie, molte altre, si trovano qui: Mideast Conflict Penso che sia giusto guardare per sapere e per condividere. Ci sono orrori immani, e tuttavia bisogna attaccarsi a esperienze altre, come questa dei blogger che intrecciano amicizia su sponde opposte e nemiche, lungo i confini dell'odio e della follia.


Israele e il diritto alla critica

Zvi Schuldiner



Negli ultimi giorni il Sapir College dove lavoro e sono capo di dipartimento si ritrova sotto una pioggia di missili, che hanno anche provocato la morte di uno dei nostri studenti e mettono in pericolo le nostre vite. Noi ci troviamo subito fuori Sderot e come molti in questa regione soffriamo le conseguenze della folle politica di Hamas a Gaza.
La politica criminale e sbagliata di Hamas rientra in uno scenario di cui la maggior responsabilità ricade sul mio paese - Israele - e sul mio governo, con una politica non meno - anzi più - criminale e sbagliata che provoca decine di morti e immense distruzioni a Gaza. Con l'aiuto degli Stati uniti, la politica di strangolamento di Hamas continua, e palestinesi e israeliani pagano prezzi durissimi.
Qualche settimana fa una delegazione del parlamento europeo guidata da Luisa Morgantini ha visitato la regione. Luisa mi ha chiamato, mi ha detto che sarebbe andata a Gaza e che sarebbe stata interessata anche a una visita a Sderot. Allora l'ho invitata ufficialmente al nostro college e lei ha accettato l'invito.
Perché mi sembrava così importante invitare una delegazione dell'euro-parlamento guidata da Luisa Morgantini? Per la stessa ragione per cui il 64% degli israeliani pensa che si debba negoziare con Hamas.
Sia Hamas, sia la leadership israeliana - con il pieno appoggio dell'America - ci stanno portando su una strada senza uscita, colma di sangue e dolore. Ogni voce che possa aprire nuovi orizzonti deve essere la benvenuta.
Io sono altrettanto israeliano di molti altri e deploro la politica del mio governo. Insieme a tanti altri israeliani dopo la guerra del '67, mi oppongo all'occupazione di territori palestinesi e credo che i nostri leader ci stiano portando al disastro. Questo non fa di noi degli anti-semiti né ci porta a negare l'esistenza di Israele.
I miei primi incontri con Luisa, quando era nella Fiom, furono durante la prima intifada. L'Arci - con Tom Benetollo -, Chiara Ingrao e Luisa Morgantini della Fiom mi aiutarono a instaurare il dialogo con Peace Now e nell'89 furono il fondamento di «Time for Peace». Time for Peace aprì a Peace Now le porte del dialogo con i palestinesi ed ebbe una grande importanza nella ricerca di strade per la pace.
Il tentativo di screditare Peace Now o noi che siamo su posizioni più radicali, sono una costante. Siamo traditori, per qualcuno siamo ebrei che odiano se stessi.
La manipolazione demagogica dell'Olocausto, la storia, l'anti-semitismo e il resto non possono farci dimenticare che il diritto alla critica a qualsiasi governo - italiano o israeliano - è elemento fondamentale non solo di un'ideologia di sinistra ma anche delle conquiste dello stato liberale negli ultimi 200 anni.
Ho incontrato Luisa in un'infinità di manifestazioni pacifiste a Gerusalemme o in altri luoghi d'Israele, e la sua presenza era una prova ulteriore di solidarietà con il pacifismo israeliano. Luisa - vice-presidente dell'europarlamento - è arrivata al nostro college per ascoltare la voce, per tre ore, di chi come noi si trova sotto l'attacco dei missili. Gli abitanti di Sderot e di un kibbutz della zona hanno spiegato bene che noi non vogliamo essere né vittime né eroi. E' Luisa che ha reso possibile ascoltare queste voci. Gli europarlamentari hanno ascoltato le nostre voci grazie alla sua disponibilità e le nostre voci hanno parlato chiaro: l'alternativa non è più fuoco ma più negoziati, è una politica europea più attiva per il dialogo.
I tentativi di far tacere Morgantini e altri critici della politica israeliana non sono altro che un modo sbagliato di servire una propaganda israeliana che ci porta a una via senza uscita. Luisa, come tanti israeliani, non critica «lo stato di Israele» ma la politica sbagliata dei suoi governi. Una politica non solo disastrosa per i palestinesi ma enormemente dannosa anche per gli israeliani. E sarebbe assai consigliabile che gli ebrei italiani, che si preoccupano per il nostro futuro in Israele, cominciassero ad aprire gli occhi e le menti per immaginare un'altra strada e un altro futuro.
zvi schuldiner [Il Manifesto, 1 marzo 2008]

giovedì 3 agosto 2006

Se solo fossimo in grado di sentirci europei e volessimo fare una politica europea di soluzione dei conflitti, proprio noi europei, col nostro passato remoto e recente di guerre e atrocità!


La crisi di Tehran
nelle mani dell’Europa


Terence Ward 


con Daniele Castellani Perelli - 10 marzo 2006


Stati Uniti e Gran Bretagna non hanno credibilità in Iran. La questione del nucleare di Tehran è nelle mani dell’Europa, che deve lavorare a stretto contatto con Cina e Russia, senza dimenticare che il nucleare è l’unico tema in grado di mettere d’accordo tutti in Iran.


Terence Ward è uno scrittore americano cresciuto in Arabia Saudita e in Iran. Cosmopolita e poliglotta, è consulente per aziende che operano nel mondo islamico. Alla sua vita di americano in Iran ha dedicato un romanzo di grande successo, applaudito dalla migliore stampa americana e prossimo ormai alla trasposizione cinematografica. In Alla ricerca di Hassan (Ponte alle Grazie 2003 e TEA), Ward torna in Iran dopo 30 anni alla ricerca del suo vecchio educatore persiano, e l’occasione è ottima per raccontare come è cambiato il paese che forse egli ama di più. Lo abbiamo incontrato a Roma ad un convegno organizzato dal Centro studi americani, in cui ha preso la parola insieme a Giancarlo Bosetti e al grande scrittore israeliano Abraham Yehoshua.


Per noi occidentali la fantasia dei media è diventata realtà – ci dice Ward, molto severo verso la politica dei neocon di Bush – I nostri media descrivono la stessa immagine dell’Iran che vuole comunicare il regime di Tehran. E così pare che i nostri ayatollah lavorino insieme ai loro ayatollah.


Come è cambiato l’Iran rispetto agli anni Sessanta, gli anni della sua infanzia a Teheran?


E’ cambiato molto, ma quello che vediamo in tv è esattamente l’opposto di quello che si può vedere vivendo in Iran. In questo clima di grande paura, i media occidentali scelgono di proiettare una particolare immagine dell’Iran, un’immagine che è diventato difficile discutere, perché la fantasia dei media è diventata realtà. Gli unici iraniani che vediamo in tv sono quel centinaio di persone che vengono pagate dal regime per manifestare contro l’Occidente, mentre non vedremo mai i dodici milioni di teheraniani che quel giorno rimangono a casa. Non vedremo mai gli Hassan (l’iraniano protagonista del romanzo dell’autore, ndr) che si svegliano la mattina, che studiano, che vanno al lavoro, che sognano un futuro per le proprie figlie. Il mio amico Hassan non è mai andato a scuola in vita sua. Ha cominciato a lavorare all’età di sei anni, mentre sua moglie a quattro anni già cuciva tappeti, eppure tutti i loro figli sono andati all’università e uno di loro ha anche conseguito un master in ingegneria elettronica. Questo è l’Iran che sui media occidentali non vedremo mai.


Un paese cambiato così tanto da essersi affidato all’ultraconservatore Ahmadinejad.


Una cosa fondamentale da capire sull’Iran è che l’attuale governo non rappresenta per nulla gli iraniani. I giovani sotto i 30 anni, che sono il 70% della popolazione, sono altamente istruiti. In fin dei conti non possono incolpare gli occidentali di nessuno dei loro problemi, ma solo chi li ha governati finora. Il paese cambierà, e tutti lo sanno. La questione è capire solo se l’Occidente cadrà nella trappola che gli stanno tendendo gli ultraconservatori.


Lei dice che il presidente Ahmadinejad non rappresenta per nulla il popolo iraniano. Però è stato il popolo a votarlo.


Ahmadinejad rappresentava gli iraniani in un messaggio chiaro che era riuscito a comunicare e a offrire: arricchire i poveri. Il paese, nonostante le sanzioni e i problemi, ha buoni standard di vita e infrastrutture molto avanzate. Ahmadinejad prometteva di rimediare agli squilibri sociali, ben sapendo di poter attingere alle ingenti entrate del petrolio e ben sapendo che la maggior parte della ricchezza è nelle mani di gruppi semiprivati governativi, che sono una sorta di cooperative controllate da certe fazioni dell’Ayatollah. Per questo è stato eletto, e non perché prometteva di isolare l’Iran, di attaccare verbalmente Israele o di impegnarsi nella questione del nucleare. Ed è stato eletto anche perché la sua controparte, Akbar Hashemi Rafsanjani, è visto come un uomo che si è arricchito grazie alla guerra in Iraq.


E ora la gente è delusa dal governo dell’ex sindaco di Teheran?


Ci sono moltissime persone che disapprovano il suo esecutivo. Non solo tra i pragmatici riformisti, ma anche tra i conservatori, perché Ahmadinejad dice che presto tornerà il Mahdi (il dodicesimo imam che, secondo gli sciiti, tornerà a salvare il mondo, ndr) ed è come se un cattolico annunciasse l’arrivo dell’apocalisse: non tutti i cattolici sarebbero d’accordo. In entrambi i casi si annuncia la fine del mondo, ed è uno scenario che mette a disagio molte persone. Tutto questo per dire che in Iran esistono oggi molti conflitti, e quello principale non è tra l’Iran e l’Occidente, ma tra l’Iran e se stesso. Gli ultraconservatori sperano nell’isolamento dell’Iran, perché questo permetterebbe loro di avere il controllo del paese per altri 5-10 anni.


La comunità internazionale è sempre più preoccupata. Ultimamente anche la Francia di Jacques Chirac sta alzando la voce. Cosa pensa della possibilità di sanzioni nei confronti di Teheran?


Tutte le esperienze passate ci dicono che non funzionano, non scalfiscono il regime, e anzi le sanzioni contro l’Iraq hanno rafforzato a suo tempo Saddam Hussein. Usa e Europa sono consapevoli del fatto che non si deve penalizzare il popolo iraniano, che è un grande popolo. Il problema è che tutti, in Iran, sostengono il diritto di perseguire attività nucleari, da quelli che sono per lo Scià ai democratici, dai liberali ai conservatori, e così il tema del nucleare è l’unico in grado di ricompattare i conservatori.


Un mio amico iraniano mi ha detto: “Pare che i vostri ayatollah lavorino insieme ai nostri ayatollah”. E’ vero. Ahmadinejad e Bush sono entrambi anti-intellettuali, nascondono la propria ignoranza proclamandosi attori di una missione divina, sono patologicamente paranoici, attaccano tutti i moderati e i pacifisti come traditori, e pretendono che questa sia una battaglia tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Usano lo stesso linguaggio, operano la stessa politica della paura, spiano o stilano dossier sui propri oppositori. America e Iran hanno bisogno l’una dell’altra, si considerano nemici, e senza l’altra perderebbero parte della propria identità.


Le minacce verbali avanzate da Ahmadinejad nei confronti di Israele cambiano però il quadro, e rendono più delicata la questione del nucleare.


E’ vero. Ma ci vorranno altri sei anni prima che l’Iran possa dotarsi delle armi nucleari. Siamo sicuri che abbiamo bisogno di una guerra oggi? E qualche attacco aereo agli impianti nucleari risolverebbe la questione? Si stima che sarebbero necessari mille raid aerei, su 15-20 siti che circondano centri abitati. Non sento mai nessuno porsi la questione morale: sottoporre 3 milioni di persone a radiazioni pur di risolvere la questione. Significa che quei 3 milioni di iraniani sono sacrificabili? Mille raid non sono un attacco, sono una guerra. Ci sono vie per trattare? Rimpiazzando Mossadeq (il primo ministro iraniano rimosso nel 1953 dalla Cia e dalla Gran Bretagna, ndr) l’Occidente ha scoperto Khomeini. Non sostenendo e incentivando i riformisti di Khatami, ora ci ritroviamo Ahmadinejad.


E allora cosa dovrebbero fare i paesi occidentali, se le sanzioni non sono praticabili?


I paesi occidentali avrebbero dovuto fare molto negli 8 anni in cui Khatami è stato al potere. Avrebbero dovuto finanziare il più possibile quel governo. Io sono cresciuto nel Medio Oriente, e sono abituato a pensare in termini di causa-effetto. Negli Usa, che io chiamo gli “Stati Uniti d’Amnesia”, nessuno si è mai chiesto perché gli americani siano presenti in Medio Oriente.


Sì, ma cosa dovrebbe fare ora l’Occidente?


Oggi il problema è enorme. Condoleezza Rice ha appena annunciato lo stanziamento di 75 milioni di dollari per educare gli iraniani alla democrazia. Dove erano 7 anni fa? A cosa pensavano? Temo che ci troviamo di fronte a due gruppi terribilmente irresponsabili che capiscono solo il conflitto come strumento per rimanere al potere. Così ora la questione è nelle mani dell’Europa. Deve lavorare a stretto contatto con la Cina e la Russia. La Gran Bretagna, in Iran, è una potenza coloniale ed è malvista dalla popolazione. Come gli Stati Uniti, ha ben poca credibilità nel paese. Guardiamo cosa sta succedendo dall’altra parte del mondo. In Corea del Nord , un paese che possiede il nucleare, abbiamo sei potenze sedute al tavolo del negoziato, pronte ad offrire incentivi. Il governo di Washington ha interrotto per un anno le trattative. Ci si chiederà: sarà stato per un motivo grave e terribile? No, accusavano i nordcoreani di falsificare dollari. Ma allora gli americani dovrebbero rompere i rapporti anche con l’Italia e la Russia! Questa amministrazione vuole risolvere la situazione senza l’uso delle armi? Il mio sospetto è che siano solo dei cowboy, di cui non mi fido per niente. Che siano l’impero più isolato e provinciale di tutti i tempi, senza nessuna conoscenza del mondo.


Nel suo libro lei scrive che, quando era piccolo, in Iran la festa più amata dai bambini era quella delle Nazioni Unite. Quanto prestigio è rimasto oggi all’Onu, presso il popolo iraniano?


Per decenni l’Onu è stato visto come un forum presso cui l’Iran doveva acquisire credibilità e rispetto. Oggi però è visto come un’espressione dei suoi donatori, più che come un forum delle nazioni. L’ex presidente Khatami si è impegnato moltissimo per il dialogo tra le culture, in un’iniziativa che ha trovato il consenso dello stesso segretario generale Kofi Annan. Se l’Onu diventa espressione della volontà politica di Usa e Gran Bretagna, è difficile che continui ad essere rispettato dagli iraniani.


Nel suo romanzo sua madre ad un certo punto dice che “l’America è come un’isola, staccata dal resto del mondo. Molte persone non comprendono la realtà”. Leggendo il suo libro viene da pensare: Terence Ward non è molto fiero di essere americano.


Sono cresciuto con certi ideali, come democrazia, libertà, giustizia. Poi nel sud degli Stati Uniti vedi che invece c’è razzismo. Vedi il maccartismo, vedi che quei valori americani vengono traditi dalla politica, e ti chiedi se puoi accettare il tuo paese così com’è. L’America oggi è isolata, e può uscire dal suo isolamento solo attraverso la cultura, il lavoro, la responsabilità. Tutte cose che oggi non vengono comunicate. I media americani comunicano solo fantasia, evasione, superficialità. Niente fatti. La nostra, purtroppo, è la più grande società dell’intrattenimento e probabilmente la meno colta. Purtroppo anche in Italia la situazione è simile. Menzogne, superficialità del messaggio, un premier che vuole assomigliare a una velina e che tramite le sue televisioni è riuscito ad abbassare il livello dell’intelligenza e dei valori di questa nazione. La storia della tv italiana e di quella americana è parallela, con la differenza che in Italia il capo del governo possiede direttamente le televisioni. Questa non è democrazia. Noi sappiamo cosa potrebbero essere i nostri paesi, e ci spezza il cuore sapere in che direzione stiano andando. Il denaro non è l’unico valore del mondo, perché i veri valori sono il rispetto, la compassione, l’impegno sociale, l’arricchimento attraverso le culture. E’ possibile che in meno di dieci anni governanti ignoranti, ricchissimi e avidi di potere siano riusciti a stracciare questi valori?


Crede che verso il Medio Oriente l’Europa abbia una sensibilità diversa rispetto all’America?


Senza dubbio. Paesi come l’Italia, la Spagna e la Grecia, in virtù della loro sensibilità mediterranea e del fatto che non siano state potenze coloniali, possono fare da mediatori. Il mediatore, l’honest broker, è terribilmente importante nel Medio Oriente, e deve avere la fiducia di entrambe le parti, cosa che per motivi storici non possono vantare né Usa né Gran Bretagna, ma solo l’Unione Europea.


Caro diario, il libro di Terence Ward è straordinario. Soprattutto per me, perché l'Iran e gli iraniani che vi sono descritti sono quelli che io stessa ho conosciuto e che ricordo con affettuosa nostalgia. Ho trovato oggi questa intervista che, da una parte, mi preoccupa, ma, dall'altra mi infonde tante speranze. Gli iraniani hanno affrontato e superato prove difficilissime nella loro storia millenaria. Perché non dovrebbero riuscirci anche questa volta?


Fonte dell'intervista: Caffè Europa  >>>>>

mercoledì 2 agosto 2006

Una lettera da Beirut


L'ho trovata nel blog The terminal (post del 31 luglio 2006).


Penso che sia un insostituibile documento di vita quotidiana che può allargare la comprensione e magari creare una possibilità di immedesimazione.

martedì 1 agosto 2006

Quando è cominciato tutto questo?




"Quando e dove è iniziata questa guerra? Poco dopo le nove ora locale, mercoledì 12 luglio, quando i militanti di hezbollah hanno sequestrato Ehud Goldwasser e Eldad Regev, riservisti israeliani all'ultimo giorno del loro periodo di richiamo, durante un'incursione oltre confine, nel nord di israele? Venerdì 9 giugno, quando bombe israeliane hanno ucciso almeno sette civili palestinesi su una spiaggia nella striscia di gaza? A gennaio di quest'anno quando Hamas ha vinto le elezioni legislative palestinesi, trionfo a doppio taglio della politica americana di democratizzazione? Nel 1982, quando Israele invase il Libano? Nel 1979, con la rivoluzione islamica in Iran? Nel 1948, con la creazione dello stato di israele? O si va alla Russia della primavera del 1881?".


Sono queste le domande che si pone Timothy Garton Ash nell'articolo "I doveri che nascono dalle colpe europee". Per continuare così:


"Che risposte complicate esigono le domande semplici. Pur concordando sui fatti fondamentali, si discute su ogni termine: militanti, soldati o terroristi? Sequestrati, catturati o rapiti? Ogni volta che si prende in esame un avvenimento lo si interpreta. E in storie come questa ogni orrore verrà spiegato o giustificato in riferimento a qualche orrore precedente.


Di tirannia in tirannia alla guerra
Di dinastia in dinastia all´odio
Di infamia in infamia alla morte
Di scelta politica in scelta politica alla tomba...


La canzone è vostra. Arrangiatela come volete", scrive il poeta James Fenton, nella sua Ballata dell´Imam e dello Shah. Tuttavia osservando le reazioni europee al conflitto in atto voglio ribadire la tesi secondo cui l´Europa ne è tra le prime cause, come essa stessa sostiene con forza. I pogrom russi del 1881, la folla in Francia che gridava "a´ bas les juifs" mentre al Capitano Dreyfus venivano strappate le mostrine all´École Militaire, la piaga dell´antisemitismo in Austria attorno al 1900 che plasmò Adolf Hitler fino ad arrivare all´Olocausto degli ebrei europei e alle ondate di antisemitismo che sconvolsero parte dell´Europa nel periodo immediatamente seguente.


Fu questa storia di rifiuto sempre più radicale da parte europea, dagli anni ´80 dell´ottocento agli anni ´40 del novecento a fare da volano al sionismo politico, all´emigrazione degli ebrei in Palestina e infine alla creazione dello stato di Israele. "Fu il processo Dreyfus a fare di me un sionista", disse Theodor Herzl, padre del moderno sionismo. Dato che l´Europa decise che ciascuna nazione dovesse avere un proprio stato, non avrebbe accettato come membri a pieno titolo della nazione francese o tedesca neppure gli ebrei emancipati e infine divenne scenario del tentativo di sterminio di tutti gli ebrei, questi ultimi dovevano necessariamente trovare la loro patria nazionale da qualche altra parte.


La patria, nella definizione amata da Isaiah Berlin, è il luogo in cui, se devi andarci, sono tenuti ad accoglierti. E mai più gli ebrei andranno come agnelli al macello. Da israeliani combatteranno per la vita di ogni singolo ebreo. Gli stereotipi del diciannovesimo secolo dei tedeschi Helden e degli ebrei Händler si sono invertiti. I tedeschi e con loro gran parte degli europei borghesi di oggi, sono diventati gli eterni commercianti, gli ebrei in Israele gli eterni guerrieri.


Ovviamente questo è solo un filo in quello che è forse l´arazzo più complesso del mondo, ma un filo importantissimo. Credo che tutti gli europei dovrebbero parlare o scrivere del conflitto odierno in medio oriente facendo mostra di una certa consapevolezza della nostra responsabilità storica. Temo che alcuni oggi non lo facciano, e non mi riferisco solo agli estremisti di destra tedeschi che hanno sfilato a Verden in bassa Sassonia sabato sorso agitando bandiere iraniane e gridando "Isralele, centro di genocidio internazionale". Mi riferisco anche a persone riflessive di sinistra, che partecipano ai forum di discussione del Guardian e simili. Pur criticando il modo in cui i militari israeliani uccidono i civili libanesi e gli operatori Onu per riprendersi Ehud Goldwasser (e distruggere le infrastrutture militari di Hezbollah) dobbiamo ricordare che tutto questo con quasi assoluta certezza non sarebbe accaduto se alcuni europei non avessero tentato, qualche decennio fa, di cancellare chiunque portasse il nome Goldwasser dalla faccia dell´Europa, se non della terra.


Voglio essere estremamente chiaro. Da questa terribile vicenda europea non consegue che gli europei debbano manifestare acriticamente solidarietà a qualunque scelta dell´attuale governo israeliano, per quanto violenta o sconsiderata. Al contrario, un vero amico ti dice in faccia quando sbagli.


Non ne consegue che dobbiamo sottoscrivere le più recenti pericolose semplificazioni riguardo ad una "terza guerra mondiale" contro "un´alleanza terrorista tra Iran, Siria, Hezbollah e Hamas" (come afferma il repubblicano statunitense Newt Gingrich) o un "movimento totalitario coerente" dell´islamismo politico (nelle parole del parlamentare conservatore e giornalista britannico Michael Gove).


Non ne consegue che tutti gli europei che criticano Israele siano tacitamente antisemiti, come danno a intendere alcuni commentatori negli Usa.


E di certo non ne consegue che dovremmo essere meno attenti alle sofferenze degli arabi, inclusi gli arabi palestinesi fuggiti o scacciati dalle loro case al momento della fondazione dello stato di Israele. E i loro discendenti cresciuti nei campi profughi. La vita di ogni singolo libanese ucciso o ferito dalle bombe israeliane vale esattamente quanto quella di ogni israeliano ucciso o ferito dai razzi lanciati da Hezbollah.


Ne consegue invece che gli europei hanno un obbligo speciale a impegnarsi per cercare di garantire un accordo di pace in cui lo stato di Israele possa vivere entro frontiere sicure a fianco di uno stato palestinese vitale? Secondo me sì. Di certo dato che gli europei in un modo o nell´altro hanno esercitato un´influenza su quasi ogni angolo della terra, una tesi storica del genere potrebbe in teoria condurci ovunque, adducendo l´eredità dell´imperialismo europeo a giustificazione morale universale del neo-imperialismo europeo. Ma la storia degli ebrei scacciati dalle loro patrie europee che a loro volta hanno scacciato gli arabi palestinesi dalla loro patria non ha equivalenti. Pur non accettando questa tesi di responsabilità storica e morale, è palese che sono in gioco interessi vitali per l´Europa: petrolio, proliferazione nucleare e le potenziali reazioni all´interno delle nostre alienate minoranze musulmane, per citarne solo tre. Meno chiaro è quale genere di coinvolgimento sia opportuno.


Una proposta è che le forze europee partecipino ad una forza multinazionale di pace nel sud del Libano, ma ha senso solo se si stabiliscono i parametri di una missione trasparente, realizzabile e circoscritta. Di questi parametri non si vede ancora traccia. Né è in vista un cessate il fuoco. Il vertice di Roma si è chiuso ieri pomeriggio camuffando semplicemente la netta divergenza tra Usa e Israele da un lato e gran parte del resto del mondo, Ue e Onu inclusi, dall´altro, su come arrivare ad un cessate il fuoco. La verità è che oggi più che mai la soluzione diplomatica sta nell´impegno totale degli Usa, sfruttando il rapporto esclusivo di influenza con Israele e avviando negoziati il più possibile diretti con tutte le parti in causa nel conflitto, per quanto sgradite. Finché ciò non accadrà l´Europa, da sola, può far poco. Eppure il punto non è solo cambiare le realtà in campo in medio oriente. Per gli europei parlare e scrivere riguardo alla posizione degli ebrei nella regione in cui li cacciarono significa anche autodefinirsi. Faremmo bene a misurare ogni parola.


La Repubblica, 28 luglio 2006. Traduzione di Emilia Benghi www. timothygartonash. com


Collego questo articolo di Timothy Garton Ash a quello di Eduardo Galeano: "Fino a quando?", che ho postato QUI.


E' da poco passato il mezzogiorno e le ultime notizie (TG3) sono terrificanti: Israele sta invadendo il Libano, senza freni e senza remore, in profondità. Nonostante la necessità di capire, non ho dubbi: questa invasione non ha alcuna giustificazione e deve essere fermata. Dalla forza di dissuasione che spero l'Unione Europea voglia mettere in campo.


Fotografia: La Repubblica, 1 agosto 2006

martedì 4 luglio 2006

NON    UCCIDERE!



GAZA - E' scaduto alle 6 ora locale (le 5 in Italia) l'ultimatum di 24 ore che i rapitori del soldato israeliano Ghilad Shalit hanno lanciato contro Israele per la liberazione di detenuti palestinesi e che lo stato ebraico ha respinto.

I gruppi che tengono prigioniero il soldato israeliano sequestrato il 25 giugno hanno affermato, alla scadenza dell'ultimatum, che non lo uccideranno.


"Certi pensano che i gruppi autori dell'operazione (l'attacco con rapimento del soldato Gilad Shalit) possano ucciderlo, ma i nostri principi islamici stabiliscono che bisogna rispettare i prigionieri, e non ucciderli", ha detto un portavoce dell'Esercito dell'Islam, Abu Muthanna.


Ma, ha aggiunto il portavoce, "abbiamo dato un ultimatum che é scaduto. Tutti gli sforzi sono stati vanificati. Il nemico porta la responsabilità intera del suo atteggiamento e del destino del soldato".


(La prima dichiarazione contiene un principio che esiste nel Corano: non si uccide il nemico inerme. La seconda è ambigua e solo i fatti potranno disambiguarla. In un senso favorevole al soldato Shalit, spero e mi auguro.)


Ghilad Shalit, il soldato israeliano catturato da un commando palestinese il 25 giugno, "é vivo". Lo ha detto oggi il portavoce del governo israeliano Avi Pzner, alla catena francese Lci.

GAZA, CARRI ARMATI AVANZANO DI UN CHILOMETRO
Nel nord della striscia di Gaza i carri armati israeliani stanno lentamente avanzando in direzione della città di Beit Hanun e si prefiggono di raggiungere una profondità di un chilometro. Il loro obiettivo è di avvicinarsi alle postazioni dei lanciatori di razzi. Ieri i carri armati erano entrati in quella zona di 200 metri, per cercare ordigni e tunnel. Nella nottata soldati israeliani hanno ucciso due miliziani palestinesi: uno a Gaza, e l'altro a Jenin. L'aviazione israeliana è tornata compiere raid, uno dei quali ha centrato la università islamica. In Cisgiordania, a Ramallah, unità israeliane di elite hanno catturato tre palestinesi: secondo la radio militare sarebbero coinvolti nella uccisione, avvenuta la scorsa settimana, del ragazzo israeliano Eliahu Asheri. I tre, ha aggiunto la emittente, sono miliziani di al-Fatah e sono stati catturati in un edificio della sicurezza palestinese dopo uno scontro a fuoco protrattosi per ore. Pazner ha aggiunto: "Sappiamo che fino ad ora Ghilad Shalit è vivo, sappiamo che è ferito e che qualche giorno fa è stato visitato da un medico palestinese". Il portavoce del governo israeliano ha ribadito di avere "informazioni sicure" sullo stato di salute del ragazzo.


Difficile, quasi impossibile districarsi tra queste vicende, tagliandone il tragico nodo come fece Alessando Magno  con il nodo di Gordio. Ci vogliono conoscenze profonde del problema, e profondissimo senso di giustizia. Forse addirittura è necessario accettare anche qualche ingiustizia, piccola, nel caso che non ci sia una scelta migliore.


C'è chi fa pendere il piatto dalla parte d'Israele perché è un paese democratico e perché i suoi abitanti sono la testimonianza vivente dei crimini della shoah. Riconosco tutto, prendo atto anche del pericolo di un nuovo antisemitismo nascente. 


Correrò, tuttavia, il rischio di essere accusata di antisemitismo e oserò porre una domanda cruciale: forse che un regime democratico acquisisce la licenza di invadere, imprigionare, uccidere, tormentare, punire con rappresaglie del tutto sproporzionate, in virtù dell'essere democratico? Dov' è allora la differenza con i terroristi di Hamas, che ha comunque  vinto in elezioni democratiche?


Fonte informazioni: ANSA

lunedì 3 luglio 2006

PALESTINA


Orribile ciò che sta accadendo in Palestina. Orribile e difficile da decifrare. Per capire mi affido a un'intervista de L'Unità a Zeev Sternhell, intellettuale israeliano.


«Quella messa in campo da Israele è l' impotenza della forza militare. Ma credere di poter vincere con la forza militare questo tipo di resistenza non è solo un errore, è una tragica illusione». A sostenerlo è uno degli intellettuali più in vista di Israele e più affermati a livello internazionale: Zeev Sternhell, storico, docente di Scienze Politiche all'Università Ebraica di Gerusalemme. «Ciò che si rivela fallimentare -avverte Sternhell- è l'unilateralismo forzato, strategico, che l'"allievo" Olmert ha ereditato dal "maestro" Sharon».

Professor Sternhell, nei Territori la situazione è esplosiva e si teme un conflitto devastante e prolungato. C'è un motivo per cui tutto questo avviene ora?
«Il motivo che è alla base delle violenze fra noi e i Palestinesi, non è cambiato: quando due nemici non si parlano, non cercano e non presentano una vera, sincera e profonda soluzione al problema, si è condannati alla perpetuazione della violenza. Le violenze continueranno fin quando da parte palestinese non si arriverà alla definitiva e generale accettazione della esistenza di Israele, alla comprensione che Israele non è cancellabile dalla mappa, e che la terra deve essere divisa fra i due popoli. E le violenze continueranno anche se il governo israeliano proseguirà sulla strada intrapresa da Sharon, senza cercare di affrontare veramente e risolvere il conflitto intorno ad un tavolo di trattative. Olmert vuole portare avanti un altro piano di ritiro unilaterale. Come se i Palestinesi, una volta usciti noi Israeliani, potessero essere felici e svilupparsi in una nazione frammentata in cantoni. Purtroppo il risultato sarà, ancora una volta, il semplice spostamento delle linee delle ostilità. Questo unilateralismo forzato, strategico, ha avuto il suo peso nell'affermazione elettorale di Hamas e nel mancato radicamento di una leadership palestinese moderata.
Alla stregua del suo maestro, Ariel Sharon, Ehud Olmert è fermamente convinto che l'interlocutore con cui trattare una soluzione politica della questione palestinese, non vada cercato a Ramallah o a Gaza, e nemmeno in Europa, ma a Washington. E con gli Stati Uniti il "negoziato" è permanente».

Israele trepida per la sorte del caporale Shalit, rapito da un commando palestinese.
«Per quanto riguarda l'operazione militare in atto, non la capisco e non l'approvo. Il soldato rapito potrà forse essere localizzato con l'aiuto di carri armati? Saranno forse gli aerei a portarlo via dalla prigionia? No. Se ciò avverrà, sarà solo per l'uso di strumenti che non hanno nulla a che fare con l´esercito: sarà un collaboratore che verrà pagato per aver dato l'informazione giusta, e saranno reparti speciali anti-terrorismo che si metteranno in azione per irrompere in una specifica casa».

Si ha la netta impressione che accanto alla risolutezza, Israele stia dimostrando anche molta frustrazione, l'impotenza della potenza militare che nulla può contro le azioni di gruppi terroristici...
«Non c'è dubbio che le cose stiano proprio così. E purtroppo devo ribadire la stessa idea espressa in precedenza: si è frustrati quando si cerca di fare una cosa che si ritiene possibile. Ma vincere con la forza militare questo tipo di resistenza, non è possibile. La storia moderna è piena di esempi di tentativi del genere e falliti. Da Napoleone in Spagna, ai Francesi in Algeria, e poi il Vietnam, l'Iraq e così via. Israele ancora non l´ha capito del tutto, come non ha capito che erigere un muro non può rappresentare una soluzione. Ci si può scavare sotto, ci si possono fare delle brecce e ovviamente ci si può sparare sopra con armi sempre più sofisticate. Israele non può non interrogarsi su cosa accade al di là di quel muro, dei processi di frustrazione, di rabbia e di cieco desiderio di vendetta che crescono all'ombra del muro».

Israele si trova ancora una volta di fronte al dilemma posto dalla necessità di salvare la vita di propri cittadini operando però in modo da far soffrire dall'altra parte centinaia di migliaia di civili palestinesi che non hanno colpe dirette.
«L'azione militare in corso, non ha la sola finalità di liberare il soldato rapito - e semmai lo mette in pericolo - ma è purtroppo anche una forma di punizione collettiva inflitta alla popolazione di Gaza. Altrimenti, non riesco a capire l'utilità di far saltare ponti e centrali elettriche. C'è veramente qualcuno che pensa che i rapitori si muoveranno in carovane di auto per spostare il soldato rapito? E a che serve - se non a punire collettivamente la popolazione palestinese - lasciare senza elettricità mezzo milione di persone? Non posso accettare la demagogia e il cinismo di chi - come Peres - dice che sono i Palestinesi ad autopunirsi».

Oggi alla guida politica del ministero della Difesa c'è Amir Peretz, leader del Partito Laburista, proveniente dall'area più pacifista del partito. È deluso di queste scelte «militariste» di Peretz, oppure chi arriva in quella posizione non può comportarsi altrimenti?
«La questione non sta in questo o quel leader laburista, ma nella strada scelta dal partito. Voglio sperare che Peretz abbia ancora bisogno di un po' di tempo per far pesare la sua opinione sulle decisioni militari. Ma se non riuscirà a distaccare il suo partito da quello di Olmert, se non si porrà nel governo come elemento che spinge verso una soluzione negoziata, se non sarà capace di presentare un'alternativa ai piani che si trovano ora sul tavolo del governo e che sono destinati a fallire, allora, il suo operato non si differenzierà da quello delle precedenti leadership laburiste, che si sono appiattite sulle posizioni di centro-destra del Likud e che ora si appiattiscono sulle posizioni del Kadima di Olmert. E se non saremo in grado di parlare oggi con i Palestinesi, si dovrà rimandare la ricerca della soluzione a quando le due parti saranno veramente mature per affrontare i difficili compromessi per arrivare alla pace. E nel frattempo i due popoli continueranno a soffrire».

C'è chi dice che il vero obiettivo dell'azione militare è farla finita con il governo Hamas.
«Di nuovo l'impotenza politica mascherata dalla forza militare. Abbiamo eliminato il fondatore di Hamas (lo sceicco Ahmed Yassin, ndr), abbiamo proseguito con il suo successore (Abdelaziz Rantisi, ndr) ma Hamas è cresciuto, si è radicato nella società palestinese fino a vincere le elezioni di gennaio con un consenso popolare che certo non è stato estorto con la forza. Possiamo anche uccidere o incarcerare tutti i ministri ma ci chiediamo poi chi oserà in campo palestinese far parte di un governo "collaborazionista"? O pensiamo che per Israele sia meglio che nei Territori si consolidi il caos armato? Per negoziare la pace, Israele ha bisogno di un interlocutore realmente rappresentativo e non di un Pétain palestinese».




Sternhell: «Da israeliano dico: per salvare Shalit non servono i tank» - Pubblicato il 02.07.06   


dal commento dell'amico Pattinando:


"Il Financial Times nel suo editoriale di ieri ha riportato: "Pensate per un momento a cosa sarebbe successo se in risposta al rapimento di un soldato da parte dell’ IRA, il governo britannico avesse occupato l’Irlanda del Nord, attaccato Belfast e Derry da terra, aria e mare, punito la popolazione distruggendo centrale elettriche, infrastrutture e governo; arrestato ogni repubblicano; inviato la Royal Air Force a sorvolare Dublino".

martedì 8 febbraio 2005

Abbas and Sharon shake hands at the summit


    Speranza di pace in Palestina.


   Pace e giustizia per due popoli.


   "Abbiamo concordato con il primo ministro di Israele di porre fine a tutti gli atti di violenza contro gli israeliani e contro i palestinesi, quali che siano" ha dichiarato Abu Mazen, e poco dopo Ariel Sharon ha indicato che anche Israele "fermerà ogni operazione militare contro i palestinesi ovunque".


Voglio crederci, devo crederci. Credendoci possiamo dare un sostegno ideale ma concreto. E fra tanti uomini, tutti uomini?, potessimo vedere qualche donna!


I miei sono auspici e niente altro, perché non riesco più a capire l'intrico dei giochi politici e militari. Per qualche orientamento mi sembra utile un buon articolo di Uri Avnery


"Il punto morto" di Uri Avnery

mercoledì 3 settembre 2003

IL MURO DI ISRAELE


Israeli tank infront of West Bank fence



Israel is building a protective wall

    



Foto da BBC NEWS



Quando sarà finito sarà lungo 370 miglia e alto 10 piedi, e circonderà quasi interamente la popolazionedi WEST BANK. Israele afferma che il recinto di sicurezza è necessario per proteggere i cittadini dagli attentatori suicidi. Ma per molte migliaia di Palestinesi taglia fuori i loro lavori, campi, affetti, è parte di un'illegale acquisizione di territorio per portarli fuori dalle loro case. Chris McGreal fa un viaggio lungo la sezione di 76 miglia già completate.


dal GUARDIAN 3 Settembre 2003