Intorno a Gaza e Israele
Oggi copio e incollo due articoli in cui due persone perbene espongono i problemi, ricercano responsabilità e cause dei massacri in corso, prevedono soluzioni possibili in un dilemma apparentemente senza soluzioni. Ho sempre pensato che due fossero le date importanti nella questione palestinese: il 1948 e il 1967. Moni Ovadia mi fa capire che ce n'è una terza: il 1995, anno dell'uccisione di Yitzhak Rabin . I palestinesi hanno bisogno di un leader amato ed autorevole. Gli stessi israeliani hanno pensato a Marwan Barghouti, condannato in Israele a cinque ergastoli: Liberare Barghouti. Un ministro israeliano rompe il tabù (Panorama, Martedì 19 Giugno 2007 ). Non so nulla di preciso su Barghouti, ma l'ho sentito spesso nominare come un possibile mediatore, nonostante le accuse per le quali è in prigione.
Rischio pacificazione senza pace
di Moni Ovadia
L'orrore che viene dalla "terrasanta" ha il corpo tecnologico di armi micidiali, ci pietrifica, ci carica di colpa, ci ferisce con l'insulto dei corpicini inerti, con la brutalità degli occhi terrorizzati di un'infanzia la cui vita è sospesa, ma ha anche il volto di un missile di "scarsa" efficienza che demolisce un ospizio per vecchi. La litania della violenza non deve tuttavia paralizzare la nostra capacità di pensare in termini politici. Se ciò accadesse la deriva dell'odio e della morte sarebbe inarrestabile.
Le responsabilità del tragico status quo non sono univoche, ci sono responsabilità dei paesi arabi, di parte della dirigenza palestinese, ma è mia persuasione che il bandolo della matassa stia nella classe politica israeliana che governa da quasi tre lustri. Da che Rabin è stato assassinato, nessun politico israeliano al potere ha creduto nella soluzione dei due stati sovrani sulla base delle risoluzioni dell'Onu. Tutti i leader, ciascuno a suo modo, hanno optato per il mantenimento dello status quo, con lo strumento della deterrenza militare al fine di logorare ogni prospettiva di soluzione definitiva. La propaganda ha sempre cercato il colpevole nell'altro campo. Prima era Arafat, adesso è Hamas. Sharon ha abilmente preparato il piano per disgregare ogni possibilità di uno stato palestinese sovrano. Il ritiro unilaterale da Gaza non concordato con Abu Mazen ha umiliato il presidente dell'Autorità e gli ha fatto perdere le elezioni. La riduzione di Gaza ad una prigione a cielo aperto ha rinforzato Hamas e spaccato la società palestinese già in gravissime difficoltà.
Ho l'impressione che questi politici israeliani miopi mirino alla "two Bantustan solution": uno in Cisgiordania federato con la Giordania e uno a Gaza sotto tutela egiziana.
Ovvero una pacificazione senza pace.
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Il fardello dell'uomo israeliano
di Barbara Spinelli
Non molto tempo prima dell’offensiva contro Gaza, il premier israeliano Ehud Olmert pose a se stesso e al proprio popolo una domanda gelida, senza precedenti. Una domanda non concernente i valori e la morale, ma la pura utilità.
Era il 29 settembre, e in un’intervista a Yedioth Ahronoth denunciò quarant’anni di cecità: quella d’Israele e la propria. Disse che era arrivato il momento, non rinviabile, in cui lo Stato doveva mutare natura e scegliere come vivere e sopravvivere: se guerreggiando in permanenza, o cercando la pace coi vicini.
Non negò le colpe di Hamas e di molti Stati arabi, ma invitò i connazionali a concentrarsi sul «proprio fardello di colpa». Il fardello consisteva negli automatismi del pensiero militarizzato: «Gli sforzi di un primo ministro devono puntare alla pace o costantemente aspirare a rendere il paese più forte, più forte, più forte, con l’obiettivo di vincere una guerra?».
Aggiunse che personalmente non ne poteva più di leggere i rapporti dei propri generali: «Possibile che non abbiano imparato assolutamente nulla? Per loro esistono solo i carri armati e la terra, il controllo dei territori e i territori controllati, la conquista di questa e quella collina. Tutte cose senza valore». L’unico valore da ritrovare era la pace, perseguibile a un’unica condizione: liquidando le colonie, restituendo «quasi tutti se non tutti i territori», dando ai palestinesi «l’equivalente di quel che Israele terrà per sé». Alla Siria andava reso il Golan, ai palestinesi parte di Gerusalemme. Così parlò il primo ministro d’Israele, non un preconcetto nemico dello Stato ebraico e del suo popolo.
Da queste parole sembra passato un tempo enorme e oggi non sono che fumo e fame di vento, come nel Qohèlet. Allora l’opportunità era imperativa, vicina. Nemmeno tre mesi dopo, la guerra è decretata «senza alternative». Allora Olmert pareva ascoltare gli intellettuali contrari alle soluzioni belliche: da Tom Segev a Gideon Levy a Abraham Yehoshua che tra i primi, su La Stampa, ha invocato negli ultimi giorni la tregua. Tre mesi dopo il pensiero militarizzato si riaccende e il dissenso si dirada. Non restano che Segev, Gideon Levy, Yossi Sarid. Perfino Yehoshua considera vana una reazione proporzionata ai missili di Hamas «perché la capacità di sopportazione e resistenza dei palestinesi è infinitamente superiore a quella degli israeliani». La domanda gelida di Olmert, a settembre, era la seguente e resta valida: «Che faremo, dopo aver vinto una guerra? Pagheremo prezzi pesanti e dopo averli pagati dovremo dire all’avversario: cominciamo un negoziato».
Secondo Olmert, Israele era a un bivio: «Per quarant’anni abbiamo rifiutato di guardare la realtà con occhi aperti (...). Abbiamo perso il senso delle proporzioni».
Non poche cose s’intuiscono, anche se ai giornalisti è vietato il teatro di guerra. Quel paesaggio che da giorni vediamo sugli schermi, alle spalle dei reporter, è praticamente tutta Gaza: non più di 40 chilometri di lunghezza, 9,7 chilometri di profondità. Con 360 chilometri quadrati, Gaza è più piccola di Roma e abitata da 1,5 milioni di palestinesi.
Inevitabile che in un lembo sì minuscolo i civili abbattuti siano tanti (metà degli uccisi, secondo alcuni). Inevitabile chiedersi se i governanti israeliani non persistano nella cecità, quando negano che la loro guerra sia contro i civili e un disastro umanitario.
Israele ha serie ragioni da accampare: i missili di Hamas sulle città del Sud, da anni e malgrado il ritiro unilaterale voluto da Sharon nel 2005, generano angoscia e collera indicibile, anche se i morti non sono molti. Ma ci sono cose non dette, in chi giustamente s’indigna: cose che questi ultimi nascondono a se stessi, dure da ammettere, non vere.
Non è vero, innanzitutto, che lo Stato israeliano reagisca senza voler penalizzare i civili.
Bersagliando i luoghi da cui partono i missili di Hamas, esso sa che subito Hamas e i missili si sposteranno altrove, e che in quei luoghi non resteranno che i civili: vecchi, donne, bambini. Lo dicono essi stessi, ai giornalisti: «Quando parte un missile vicino alle nostre case, scuole, moschee, sappiamo che non Hamas sarà colpito, ma noi». La domanda è tremenda: come spiegare agli abitanti di Gaza la differenza con rappresaglie che, come a Marzabotto, sacrificarono centinaia di civili al posto di introvabili partigiani?
Secondo: non è vero che non esistessero alternative all’attacco aereo e terrestre. Se la tregua con Hamas non ha funzionato, è perché mai iniziò veramente. Perché i coloni avevano evacuato la Striscia ma Israele manteneva il controllo dei cieli, del mare, dei confini. Il cessate il fuoco negoziato a giugno prevedeva la fine del lancio di missili palestinesi ma anche la rimozione del blocco di Gaza, imputabile a Israele. I missili son diminuiti, anche se non scomparsi: ne cadevano a centinaia tra maggio e giugno, ne son caduti meno di 20 nei quattro mesi successivi. Nulla invece è accaduto per il blocco.
Questo è il «fardello di colpe» israeliane, non piccolo, e ancora una volta la geografia aiuta a capire. Dice il governo d’Israele che dal 2005 Gaza appartiene ai palestinesi, ma che non è servito a nulla. È falso anche questo, perché Gaza essendo priva di autonomia non è messa alla prova. Non le manca solo il controllo dell’aria, del mare. Ci sono sei punti di passaggio che dovrebbero consentire il transito di cibo, acqua, elettricità, uomini (lungo la frontiera con Israele il valico Erez a Nord, i valichi Nahal Oz, Karni, Kissufim, Sufa a Est; ai confini con l’Egitto il valico Rafah) e tutti sono chiusi. Per una briciola come Gaza è impossibile vivere senza rapporti coll’esterno, ed essi sono bloccati da quando Hamas ha vinto le elezioni e rotto con Fatah. Anche in tal caso un’intera popolazione paga per i politici, e quando il cardinale Martino parla di campo di concentramento (altri parlano di prigione a cielo aperto) non s’allontana dai fatti. I tunnel servono a contrabbandare armi, è vero. Ma anche a trasportare cibo, medicine, pezzi industriali di ricambio. Il disastro umanitario a Gaza non comincia oggi. E quel milione e mezzo è lì perché cacciatovi dall’esercito israeliano nel ’48.
La punizione è parola chiave, in numerose guerre israeliane. Ma la punizione en masse dei civili non punisce in realtà nessuno, e accresce ire omicide nei contemporanei e nei discendenti. È una sorta di vendetta esibita. È guerra terapeutica che libera da inibizioni morali, guerra fatta per roteare gli occhi, scrive Yossi Sarid (Haaretz, 9 gennaio). È non solo feroce, ma vana. I missili di Hamas continuano a colpire e hanno addirittura allungato la gittata: ormai colpiscono Beer Sheva (36 chilometri dalla centrale atomica di Dimona) e la base di Tel Nof (27 chilometri da Tel Aviv).
Gaza e Cisgiordania sono più che mai interdipendenti. Quel che accade in Cisgiordania ha pesato amaramente su Gaza, e pesa ancora. In questo caso sì: non c’è alternativa alla decolonizzazione e al ritiro. Anche Israele, come tanti imperi, deve passare di qui. Deve smettere di separare i teatri d’azione: di edificare nuove colonie ogni volta che negozia o ogni volta che guerreggia su altri fronti, in Libano o a Gaza. È quello che teme anche oggi Dror Etkes, coordinatore dell’associazione israeliana Yesh Din (volontari per i diritti umani): «Posso certificare che proprio in queste ore stanno spianando terre in Cisgiordania per una nuova colonia presso Etz Efraim, e per un avamposto presso Kedumim». In un libro di Idith Zertal e Akiva Eldar (Lords of the Land, New York 2007) è scritto che la pace è irraggiungibile se non si riconosce che ogni singola colonia, e non solo i cosiddetti avamposti illegali, viola la legge internazionale; se non ci si spoglia dell’ossessione delle armi e delle terre idolatrate, che Olmert stesso ha denunciato poche settimane fa.
articolo molto interessante e condivisibile.Mi piacerebbe capire meglio le implicazioni delle ultime tre righe, quello sulle due soluzioni..
RispondiEliminaLe implicazioni: la voce è calda e rimanda a WIKIPEDIA. Ovviamente Moni Ovadia paventa ma rifiuta totalmente la soluzione "BANTUSTAN" di marca sudafricana al tempo dell'apartheid.
RispondiEliminagia, la storia ricicla tutto, maestra di vita in negativo.La cosa angosciante è che gli Israeliani, come popolo, stanno riproducendo i meccanismi che furono alla base della shoa
RispondiElimina(buon anno anche te, harmo, anche se si annuncia con passo terribile)
Le due analisi sono risolutive e indiscutibili. D'altra prte vengono da due intelligenze lucide e sopratutto da persone integerrime, di onestà intellettuale totale. Resta da capire perchè la soluzione, così logica , è accuratamente disattesa e sabotata sia da Israele che da Hamas. Sembra che si paghi un tributo all'odio e al disprezzo reciproco, più forti di ogni evidenza, convenienza e logica. Non è neanche il cervello limbico che opera; qualsiasi animale individuerebbe nella cooperazione la migliore strategia di vita. E' al lavoro la parte marcita dei lobi frontali;la razionalità è all'opera, ma privilegia la morte e la distruzione. Due popoli chiusi in un loop da cui non c'è uscita, che ruota impassibile e trita vite e speranze.
RispondiEliminaBel post, harmonia. Speriamo che la questione si risolva al più presto anche se così complessa. E adesso vado a leggere il post di Leira. Ciao, sempre ubuntu, Enzo.
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