Dunque
Stefano Rodotà sarebbe stato beccato con le mani nella marmellata costituzionale. Il costituzionalista del Pd Stefano Ceccanti ha scovato e rilanciato su twitter una vecchia
proposta di legge datata 1985 e firmata tra gli altri da Rodotà (all’epoca deputato eletto come indipendente nel Pci) per «sostituire il vigente bicameralismo paritario con il monocameralismo puro». L’argomento legittimamente malizioso è semplice: avendo in questi giorni firmato appelli contro la riforma Renzi che vuole per l’appunto abolire il bicameralismo, Rodotà si contraddice con se stesso (sia pure dopo 29 anni). Inevitabili le polemiche, gli attacchi, le irrisioni e i dileggi nei confronti di colui che «Il Foglio», sostenitore della riforma Renzi, definisce «il capo del partito dei parrucconi», stigmatizzando anche il fatto che si esprima sulle riforme costituzionali, lui che non è nemmeno costituzionalista (infatti è solo professore emerito di diritto civile alla Sapienza, la cattedra più prestigiosa e ambita dai giuristi italiani, il che per il quotidiano di Ferrara equivale ad avere «zero tituli»).
Qualunque idea si abbia su Renzi, su Rodotà e sulle rispettive proposte, è bene chiarire i termini della vicenda ponendosi una domanda semplice: la riforma Renzi del 2014 è uguale, nella sostanza e negli effetti, a quella Rodotà del 1985? E quindi, il «capo dei parrucconi» si contraddice, rinnega se stesso, sacrifica l’onestà intellettuale all’ipocrita posizionamento politico?
Due sono le analogie tra il Rodotà del 1985 e il Renzi del 2014: superamento del bicameralismo puro previsto dalla Costituzione del 1948 e riduzione del numero dei parlamentari eletti. Analogie, non identità perché Rodotà è più renziano di Renzi: abolisce il Senato tout court (il premier delinea invece una soluzione spuria, trasformandolo in assise di sindaci, governatori ed esponenti civici nominati dal presidente della Repubblica) e riduce, a differenza di Renzi, anche il numero di deputati della residua Camera elettiva da 630 a 500.
Radicale la critica alle disfunzioni del bicameralismo puro. Spiegava allora il professore che due Camere gemelle riducono l’efficienza della produzione normativa, diventando solo casse di risonanza di «microinteressi» capaci per lo più di «reiterazione defatigante e distorcente del procedimento legislativo» per frenare le riforme con «tendenze conservatrici». Pare di sentire il premier rottamatore. Del resto, sia nell’
appello di Libertà e Giustizia che nell’intervista al Fatto Quotidiano, il Rodotà del 2014 non contesta l’abolizione del Senato in sé (del resto già nell’assemblea costituente erano per il monocameralismo comunisti e socialisti), ma nell’attuale contesto politico e istituzionale. E qui emergono le differenze.
Prima differenza. Una lettura meno superficiale del testo del 1985 fa capire che quei parlamentari della Sinistra Indipendente (Ferrara, Rodotà, Bassanini...) vogliono il monocameralismo innanzitutto per rafforzare il Parlamento («un’unica istanza rilegittimata») nel rapporto dialettico del governo (di cui si intendeva limitare il potere di decretazione d’urgenza), mentre la riforma Renzi combinata con l’Italicum rafforza il governo contro il Parlamento (già abbondantemente indebolito: i regolamenti parlamentari sono molto più favorevoli di un tempo all’esecutivo e ormai da anni si legifera quasi solo con decreto).
Seconda. Come contrappeso alla eliminazione di un ramo del Parlamento, Rodotà nel 1985 propone l’introduzione del referendum propositivo. Di questo nel progetto Renzi non si parla.
Terza. Il Rodotà del 1985 vuole modificare l’articolo 138 sulle procedure di revisione costituzionale «con motivazioni e finalità garantistiche», per rendere più difficile alla maggioranza dell’unica Camera disporre della Carta fondamentale. Nessuna preoccupazione di questo tipo nel testo di Renzi.
Quarta. La proposta Rodotà del 1985 introduce sull’esempio francese e spagnolo una nuova categoria di leggi, dette «organiche» perché incidono su principi e diritti fondamentali (il catalogo è ampio: dalle libertà fondamentali ai sistemi elettorali, dalle confessioni religiose alla giustizia...). Per queste leggi, collocate a un rango «quasi costituzionale», viene prevista una procedura di approvazione rafforzata, per garantire il Parlamento dall’egemonia del governo e i cittadini dallo strapotere della maggioranza parlamentare. Niente decreti legge, niente leggi delega. Obbligo di maggioranza assoluta dei componenti della Camera per l’approvazione. Ancora un’esplicita previsione per limitare il governo. Tutto ciò manca nella riforma Renzi, che rimette tutta la legislazione alla maggioranza parlamentare, senza alcun contrappeso. La logica è opposta.
Quarta bis. E che maggioranza! Il Rodotà del 1985 si muove all’interno di un impianto costituzionale fondato sulla rappresentanza proporzionale (tanti voti, tanti seggi) e su parlamentari prima selezionati da solidi partiti pluralisti, poi scelti dal corpo elettorale con le preferenze, il che li dotava di un certo tasso di autonomia. Un partito del 49 per cento non poteva approvare da solo le leggi, scegliere i presidenti delle Camere e della Repubblica, istituire commissioni d’inchiesta, designare gli organi di garanzia... Inoltre la forma di governo era rigorosamente parlamentare: il governo nasceva in Parlamento e dal voto di fiducia traeva la sua unica legittimazione. Oggi i sistemi elettorali (Porcellum o Italicum, da questo punto di vista, pari sono) garantiscono a partiti con la metà dei voti della Dc o del Pci una maggioranza assoluta in Parlamento e hanno modificato sostanzialmente la forma di governo: il premier ha una legittimazione elettorale sostanzialmente diretta dal popolo, il voto di fiducia del Parlamento è un atto dovuto. Inoltre è cambiato lo status dei parlamentari: non sono legittimati dal consenso personale, ma dalla nomina del capopartito (anche i partiti sono meno democratici di trent’anni fa: alcuni a guida personale, altri come il Pd comunque a connotazione leaderistica, basti pensare al sistema con cui si eleggono gli organi direttivi). I deputati sono meno autonomi nei confronti del governo e del partito: dalla disciplina dipende la ricandidatura. L’importanza di questa differenza di impostazione culturale è testimoniata dal fatto che il testo Rodotà del 1985, pur in un contesto proporzionalista e fondato sulla centralità del Parlamento, vuole «costituzionalizzare» (oggi diremmo «blindare») il principio proporzionale, scelta «imposta dal monocameralismo e dalla riduzione dei parlamentari» proprio per evitare dittature della maggioranza.
Quinta differenza. Rodotà ha posto con Zagrebelsky e gli altri «parrucconi» una questione che è insieme giuridica e politica. Il Parlamento del 1985, eletto con una legge proporzionale con le preferenze conforme a Costituzione, era legittimato a cambiare la Carta fondamentale: rappresentava fedelmente «la nazione». Il Parlamento del 2014 è stato eletto con una legge elettorale anticostituzionale sia per l'abnorme premio di seggi (la maggioranza parlamentare è una minoranza tra i cittadini) che per l’inconoscibilità dei candidati agli occhi degli elettori, causata dalle liste bloccate. I partiti che hanno nominato gli attuali «padri ricostituenti» sono in gran parte fuori dal «metodo democratico» previsto dall’articolo 49 della Carta. Siffatto Parlamento è legittimato a prefigurare un nuovo sistema costituzionale in cui minoranze popolari trasformate artificialmente in maggioranze parlamentari siano dotate di poteri largamente superiori a quelli che la Costituzione (e il Rodotà del 1985) riconoscevano a solide maggioranze popolari?
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