lunedì 1 marzo 2004


Un'arpa verso il cielo

 







Il virtuoso del Mali Ballakè Sissoko è in Italia. Con sé ha portato la magia di uno strumento incantato: la kora



La tenue luce di una lampada getta sul pavimento l’ombra del lungo khaftano azzurro che lo copre fino alle caviglie. Le dita, ossute e nere come l’ebano, stringono l’arpa magica a ventuno corde che lo ha reso famoso in tutta l’Africa occidentale e ora anche in Europa.


Sorride timidamente Ballakè Sissoko, originario del Mali, virtuoso della kora, figlio di una dinastia di suonatori mandinka tra le più celebri e conosciute.


Lo abbiamo incontrato prima dell’esibizione che lo ha visto protagonista in una chiesa nei pressi di Milano, in seguito ad un’iniziativa intitolata Musica dei Cieli, alla quale hanno partecipato diversi comuni della Lombardia e che vedrà musicisti di diverse parti del mondo esibirsi nelle prossime settimane.


“Ho imparato a suonare la kora da mio padre Djelimali, che ha a sua volta imparato da suo padre, e così via”, racconta Ballakè in un francese dal forte accento bambara. “Quella dei Sissoko e della kora è una tradizione molto importante, che va avanti da generazioni. Io stesso la sto trasmettendo a mio figlio”.


In un continente dove arti e mestieri sono spesso legate alla famiglia o al gruppo sociale di appartenenza, la kora e i suoi maestri sono rispettati cantastorie che raccontano favole di mondi passati, di personaggi mitici, di insegnamenti eterni. E dalle foreste verdeggianti della Guinea alle aride sabbie a nord di Timbuctu, il suono di queste arpe diventa messaggero immortale di culture e tradizioni che affondano le radici in un passato senza tempo.


Come molti altri strumenti africani, anche la kora è un modo di trascendere l’umano e di comunicare con gli dei. “E’ pura magia”, continua il musicista. “Quando suono la kora è come se uscissi da me stesso. Il corpo e la mente non dividono più lo stesso spazio, l’anima e lo spirito si elevano a Dio. E io entro in uno stato di estasi che mi avvolge, mi conquista a tal punto da farmi perdere qualsiasi contatto con la realtà”.


Comincia il concerto. I polpastrelli di Ballakè volano sfiorando appena le corde, emettendo suoni cristallini che rievocano i viali semibui di Bamako, le canoe pigre sul fiume Niger, i mercati di sale di Mopti, la camminata elegante dei nomadi Songhai. Le note dell’arpa salgono verso l’alto ad un ritmo sempre più rapido, restringendosi in intervalli sempre più piccoli, continuando a salire, vorticose, leggiadre. Chi chiude gli occhi riesce a seguirle attraverso un mondo onirico dove riecheggiano con incredibile eleganza, tanto maestose quanto fugaci e sfuggenti.


Gli occhi di Ballakè Sissoko sono chiusi da tempo, la sua testa è reclinata sullo schienale, il corpo in stato di totale abbandono. E’ in estasi. Sono solo le sue mani a muoversi, sgranando interminabili assoli che raccontano un’Africa misteriosa, dove sacro e profano si incontrano e si scontrano, dove spiriti e antenati corrono indisturbati tra il mondo dei vivi e quello dei morti.


E’ solo un applauso, lungo, scrosciante, a riportarlo indietro, seduto dov’è davanti a qualche centinaio di persone incredule ed estasiate. Solo allora, dopo aver lentamente riaperto le palpebre, il grande virtuoso venuto dal Mali sorride timidamente, avvicina le labbra al microfono e con il suo francese dal forte accento bambara mormora, prima di eclissarsi assieme al suo khaftano azzurro: “Grazie. Grazie a tutti”.


Pablo Trincia - da: http://www.peacereporter.net


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