giovedì 31 gennaio 2008

Giuliano Ferrara: due o tre cose sui suoi percorsi [ PCI. PSI. Centro Destra. Vaticano ]


Lettera aperta del suo prof.


Caro Giuliano Ferrara, mercoledì scorso ti ho visto, da Floris, e ho sentito quello che hai detto degli anni '70. Ti è stato chiesto: ma c'era solo il terrorismo, in quegli anni? E tu hai risposto, in sostanza, che sì, c'era solo il terrorismo, nel senso che c'era contrapposizione ideologica, odio ideologico, e il terrorismo ne era la risultante. Non c'è male, come ricostruzione storica. Le stragi, per esempio, erano frutto di odio ideologico? La straordinaria esperienza dei Consigli di fabbrica, della democrazia sindacale, le conquiste dei lavoratori in tema di diritti, salute, ambiente, dignità sociale, l'incontro tra esperienza operaia e «sapere alto» (come l'esperienza delle 150 ore), tutto ciò aveva a che fare con l'odio ideologico? E quelle che si chiamavano lotte per la casa, per i servizi sociali, contro i doppi turni nelle scuole, per il tempo pieno, che cos'erano? «Lotta» significava mobilitazione, impegno, presenza nel territorio. E poi l'impegno negli organi collegiali della scuola, per una gestione più democratica, per l'apertura della scuola al territorio, anche per il rinnovamento dei contenuti, ha costituito, nella sua prima fase, un'esperienza straordinaria di presa di coscienza, di partecipazione diretta, per moltissime persone. Di che si trattava? Certo, c'erano forti contrapposizioni, ma la prospettiva non era né la rivoluzione né altro; c'era una prospettiva di democrazia più aperta, più partecipativa, e di una società un po' più giusta, più egualitaria, prospettiva che poi non si è realizzata. Insomma, volevi dire che tutto questo faceva parte della contrapposizione ideologica e dell'odio ideologico, cioè di quello stesso clima che ha prodotto il terrorismo? Forse no, ma il tuo metodo è sempre quello: buttare lì quello che può funzionare sul piano della comunicazione, e giocare sulla confusione. Del resto, cosa facevi a scuola? Eravamo al liceo «Lucrezio Caro» a Roma, nell'anno scolastico 1969/70. Tu facevi la terza liceo, io ero ai primi anni di insegnamento. Quando entrai in classe il primo giorno mi trovai di fronte 10 studenti con il distintivo di Mao. Erano del gruppo «Servire il popolo». Pensavo che da loro avrei potuto avere contestazioni, perciò concordai un programma di storia che li potesse interessare. Ma mi sbagliavo, durante l'anno questi «maoisti» si rivelarono studenti modello, mentre le difficoltà vennero da te, che eri della Fgci, se non sbaglio. Tutto per te era occasione di disturbo, ti piaceva creare confusione, paralizzare l'attività didattica. Avevi un amico del Fronte della gioventù e vi divertivate a lanciare richiami da un capo all'altro della classe: tu gridavi qualche slogan, e lui rispondeva «eia eia alalà». Ogni occasione era buona, per te, per dichiarare «corteo interno» e far uscire gli studenti dalla aule. Non hai mai studiato, per tutto l'anno, fidando su quel «capitale culturale» trasmessoti dalla famiglia. Caro Giuliano, eri così, e anche se hai cambiato campo, idee, collocazione politica, in realtà non sei cambiato. La differenza è che allora tutto era ancora possibile.


Maurizio Lichtner   [ Il Manifesto, 29 Gennaio 2008. Lettera aperta. ]


Giuliano Ferrara è un personaggio importante e di lui conviene occuparsi per la rilevanza del suo peso nell'informazione e nella politica. Me ne dà il destro la lettera del suo antico professore dei tempi del liceo. Ferrara lo conosco molto bene, perché ho seguito i suoi spettacolari cambiamenti di appartenenza politica e ideologica (ideologica, sì) e seguo attentamente il suo programma su La 7, Otto e mezzo. Chiaramente parlo di ciò che mi appare da un punto di vista esterno. Non intendo criticare il cambiamento di opinioni, ancorchè frequente e radicale, ma dire che cosa mi colpisce nell'itinerario del giornalista. "Eri così", gli dice il suo prof, "in realtà non sei cambiato". E così è rimasto, anche secondo me. Ha sempre goduto, fin da bambino (beato lui!), di una posizione di privilegio e dei suoi privilegi ha saputo far uso, sfruttando la sua intelligenza, le conoscenze politiche, e una disinvoltura partitica di tutto rispetto. Ha cambiato partito almeno quattro volte, infatti, ma non politica. La sua politica, intesa come armamentario di idee e impegno attivo, Giuliano Ferrara non l'ha mai cambiata. Le lettera del professor Lichtner mi conferma in un'idea statica e monolitica che ho del personaggio, sempre uguale a se stesso, con gli stessi stilemi e gli stessi metodi, dal partito comunista alla svolta clericale: 1. assolutismo ideologico, non importa se urlato o mellifluo come nell'ultima versione; 2. ambiguità e mescolanza di vero-falso (alla maniera del 1984 orwelliano) in uno stesso ragionamento e nelle sue prese di posizione, per cui bisogna essere ben attrezzati per districarsi dalla tela di ragno che abilmente costruisce intorno all'interlocutore; 3. disponibilità ai poteri del capobranco di turno, a cui si accoda entusiasticamente pur mantenendo la sua vis polemica e un'apparente indipendenza; 4. scelta della confusione , di termini e analisi e proposte, come strumento di seduzione delle coscienze.


Un esempio per tutti: nella dizione "moratoria sull'aborto" mescola (disonestamente) la verità della tragedia dell'aborto con una parola (qui usata con falsità) che viene generalmente percepita come "sospensione" di azioni violente o criminali, creando confusione nelle coscienze e assecondando il suo capobranco di turno, con la consueta sicumera ideologica.

mercoledì 30 gennaio 2008

LAICITA'  [3]


Non sembri una frivolezza se insisto nel mio interesse per i rapporti tra laici e gerarchie vaticane, con i  seguaci di queste ultime: "teodem", atei devoti e politici genuflessi. Con virulenza accentuata le gerarchie vaticane sono presenti nella crisi del nostro sistema democratico in generale e del governo Prodi in particolare. Si tratta di ingerenze religiose nella sfera pubblica, ma non solo. Si tratta di interferenze continue di uno Stato straniero negli affari interni di un altro, che nella fattispecie è la nostra Italia. Mi affido al pensiero di un esperto per chiarire il rapporto tra due Stati indipendenti e sovrani, argomento non peregrino proprio in considerazione della trista situazione attuale, in cui si moltiplicano le pressioni e i condizionamenti da parte delle suddette gerarchie.


Laicità repressa di Piero Ignazi


Se c'è un problema di minoranze offese e marginalizzate, oggi in Italia, esso riguarda i laici




La Città del Vaticano, in termini di diritto internazionale, è uno Stato sovrano titolare di 'soggettività internazionale'. È ammesso come osservatore permanente all'Onu, mantiene rappresentanze diplomatiche presso gli organismi internazionali e scambia ambasciatori accreditati con tutto il mondo. In termini istituzionali la Città del Vaticano è una sorta di monarchia elettiva.

Al vertice dello Sato vi è infatti una figura assimilabile a un presidente a vita, eletto da un conclave di maggiorenti (i cardinali). Il pontefice esercita la sua attività coadiuvato da un consiglio da lui scelto (come nelle corti di un tempo) a cui sono affidati compiti e funzioni varie; ma è da lui che promana ogni iniziativa in campo civile, oltre che religioso ovviamente. Come è scritto nel sito ufficiale del Vaticano, "nell'esercizio della sua suprema, piena ed immediata potestà sopra tutta la Chiesa, il romano Pontefice si avvale dei dicasteri della curia romana, che perciò compiono il loro lavoro nel suo nome e nella sua autorità, a vantaggio delle Chiese e al servizio dei sacri pastori".

Del resto, anche l'articolo 1 della Costituzione della Città del Vaticano, entrata in vigore il 22 febbraio 2001, non lascia adito a dubbi sul suo ruolo: "Il Sommo Pontefice, Sovrano (sic) dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario". [ www.vatican.va ]

Ebbene, in base a questi dati, sotto il profilo giuridico-politico, il Sommo Pontefice Benedetto XVI è, innanzitutto, un capo di Stato. E, come ogni altro capo di Stato, quando va in visita in un altro paese, può essere omaggiato e osannato oppure può essere criticato e contestato. Ancora prima di ogni valutazione sulla vicenda dell'invito della Sapienza di Roma, questo è il primum mobile della questione. Chi mette piede in uno Stato democratico come, pur con enormi difetti e manchevolezze rimane ancora, forse per poco, l'Italia, è sottoposto alle regole della democrazia. In cima alle quali c'è la
libertà di espressione, verbale e non verbale. Quando Richard Nixon venne in Italia e il ricevimento in suo onore fu disturbato dalle proteste di piazza, che arrivavano fino alle ovattate stanze del Quirinale, 'quel' presidente rispose ai suoi imbarazzati anfitrioni: "No problem, this is democracy".
 
Premesso tutto ciò, rimane il versante politico della questione. Anzi, più che politico, delle buone maniere: su questo i papa-fans hanno ragione da vendere, non si invita qualcuno sapendo di metterlo a rischio di sgradevoli contestazioni. Prima ci si accerta che sia accolto con largo consenso e poi, se ci sono degli irriducibili, si soprassiede. Il pasticciaccio e la brutta figura ricadono tutte sul rettore della Sapienza. Abilmente, la curia vaticana ha colto la palla al balzo per avviare una campagna di vittimizzazione, consentendo ai sicofanti di turno di lanciare allucinanti proclami sulla "libertà di parola negata".

L'episodio getta comunque un fascio di luce sullo stato della laicità in Italia. Da un lato è, essa sì, praticamente ridotta al silenzio dalla continua aggressione verbale che le gerarchie ecclesiastiche di ogni ordine e tipo scatenano contro chi non si allinei. Ma dall'altro, checché strombettino le fanfare clericali, dal 'Foglio' in su, il processo di secolarizzazione avanza. Gli studi condotti sotto la supervisione del professor Renato Coppi per l'Osservatorio sulla Secolarizzazione e pubblicati da 'Critica Liberale' dimostrano come la secolarizzazione sia andata costantemente avanzando dal 1991 al 2004 (data dell'ultima rilevazione). Questo processo trova conferma nella sconsolata conclusione di una approfondita ricerca curata da Franco Garelli, Gustavo Guizzadi ed Enzo Pace, secondo la quale "Dio, Cristo, la Bibbia, sono diventati anche per alcuni fedeli oggetti incerti di fede".

Per far fronte a questo deperimento la Chiesa ha elevato il livello di scontro, intervenendo in ogni settore della vita civile italiana (e di altri paesi). Ad esempio, con la massima tranquillità certe diocesi discutono sulla eventuale costruzione di moschee, sentenziando sul diritto di altri a praticare degnamente la loro religione. E non si limita a questi aspetti, e ad altri assai materiali e terreni (si veda la perorazione per gli ospedali cattolici della capitale fatta dal papa a sindaco e presidenti di Regione e Provincia la scorsa settimana): la Chiesa pretende anche di delegittimare qualunque altra etica non fondata sui principi della fede cattolica, come se i non credenti o i cultori del libero pensiero fossero una sottospecie morale, degli Untermenschen dell'anima. Se c'è un problema di minoranze offese e marginalizzate, oggi, in Italia, esso riguarda, ancora una volta, come nei secoli passati, i laici. Non certo la Chiesa, onnipresente su tutti i media.


[ L'Espresso, 25 gennaio 2008 _ qui . Piero Ignazi è professore di Politica comparata all'Università di Bologna _ qui ]






Laicità [1 ] - [ 2 ]

martedì 29 gennaio 2008

Costituzione Italiana: Art. 88


Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse.


*


Questo prevede la Legge Costituzionale della nostra Repubblica fondata sul lavoro: la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.


E' evidente che non si può parlare di elezioni anticipate, perché non ce n'è motivo. La Camera dei Deputati ha votato la fiducia al governo Prodi con una larga maggioranza. Il Senato non l'ha votata per il cambio di coalizione di un pugno di senatori. Il Presidente della Repubblica può e, secondo me, deve sciogliere soltanto il Senato, che è poi il luogo dove la sciagurata legge elettorale di Berlusconi ha prodotto effetti così infausti che io proporrei una class action contro l'intera maggioranza del governo precedente.


Una class action promossa dai cittadini che si sentono defraudati a bella posta delle loro prerogative costituzionali.


Mi meraviglio dell'insipienza dei vari soloni del centro sinistra che questo avrebbero dovuto garantire a noi cittadini. Il Presidente del Senato e quello della Camera conoscono l'art. 88 della Costituzione? Perché non se ne parla? Anzi no, ne hanno parlato Cossiga e i Radicali. Qualcuno ha sentito questo argomento alla televisione di Stato?


1. Pannella: la legalità è totalmente negata. Oltre che milioni di squadristi, si annunciano una quarantina di quadrumviri...


2. Gerardo Bianco a Bertinotti: L'articolo 88 della Costituzione prevede lo scioglimento anche di una sola Camera : "L’articolo 88 della Costituzione, infatti, prevede, prudentemente, lo scioglimento anche di una sola Camera nel caso che da una di esse provenga la difficoltà nella formazione del Governo."


E se avesse ragione Beppe Grillo?


La Stampa, 28/1/2008 (19:52) - IL CASO Beppe Grillo: tra due anni liste civiche. Il comico: «C'è stato un golpe, hanno cancellato il referendum»


ROMA. «Ci vogliono due anni di Berlusconi e ormai bisogna rassegnarsi? Due anni di Berlusconi con due anni di G8 tutto insieme, nel senso di tafferugli, polizia, bisognerà chiamare i colonnelli, anche quelli greci per vedere se ci danno una mano». Lo ha detto a Sky Tg24 Beppe Grillo nel corso di un’intervista alla trasmissione Controcorrente. ... continua ... qui .

domenica 27 gennaio 2008

SHOAH


LO STERMINIO



Le vittime


ebrei (stella di David gialla): 6 milioni


rom e sinti (triangolo marrone) - omosessuali (triangolo rosa) - "antisociali" [disabili fisici e mentali, vagabondi, prostitute e lesbiche] (triangolo nero) - testimoni di Geova (triangolo viola) - oppositori politici (triangolo rosso) - apolidi (triangolo blu): 5 milioni ... QUI


Genocidi del Novecento


Il 27 gennaio 1945, a  mezzogiorno circa, la prima pattuglia alleata giunse al lager di Auschwitz. Se ci volgiamo a guardare il Novecento, vediamo un secolo caratterizzato dal ricorrere del crimine di massa che chiamiamo "genocidio": gli armeni in Turchia, le "liquidazioni" genocidarie sovietiche, gli ebrei in Europa, i cambogiani ad opera dei khmer rossi di Pol Pot, la pulizia etnica in Bosnia a opera dei serbi, il genocidio in Ruanda. Se guardiamo a oggi, a questo XXI secolo appena iniziato, vediamo che il pericolo persiste: che cosa sta accadendo in Darfur e in Kenia?


La shoah, evento unico


La singolarità della Shoah è assoluta ed estrema, perché "in essa si trovano riuniti tutti i momenti del processo genocidario, che invece in altri avvenimenti genocidari non sono presenti o comunque non tutti insieme: 1. misure di stigmatizzazione ideologica, 2. procedure di esclusione giuridica, 3. pratiche di lento annientamento con la ghettizzazione, 4. omicidi collettivi in aree ritenute strategiche, 5. e infine omicidio di massa in toto; per questo essa acquisisce facilmente la funzione di 'tipo ideale', che Max Weber definiva innanzitutto come un 'quadro concettuale in sé unitario'. Ciò spiega anche perché la Shoah è al centro della nostra visione generale del genocidio e comunque, racchiudendo in sé i tratti più caratteristici di un fenomeno, essa ci aiuta a capire le altre barbarie del secolo scorso." Bernard Bruneteau, Il secolo dei genocidi, il Mulino, pagg. 169/70 ]


Due domande


1. Come fu possibile il consenso totale e delirante al fascismo e al nazismo? E' doveroso che noi italiani ce lo chiediamo non diversamente dai tedeschi, perché in Italia furono approvate le "leggi razziali" nel 1938, con tanto di firma del re. Aquesto proposito ho letto un articolo di Furio Colombo: Italia contro Italia : "la Shoah è un delitto italiano. L’Italia nel 1938 ha approvato le più crudeli e totalitarie leggi razziali d’Europa, il Parlamento fascista italiano le ha approvate con esultanza. Il Re d’Italia - unico re d’Europa - le ha firmate e rese esecutive."


2. Che cosa si può fare perché queste storie di crimini infami non si ripetano? 



Oggi a Treviso in Piazza dei Signori contro il razzismo 


"davanti al dilagante germe del razzismo che sta infettando il Veneto ... Marco Paolini, Mauro Covacich e la pattuglia di intellettuali delle tre venezie hanno sfidato il «razzismo istituzionale»Il razzismo che alcuni irriducibili leghisti, con alla testa il vice-sindaco «sceriffo» di Treviso Giancarlo Gentilini, stanno spargendo a piene mani, con l’obiettivo di erigere muri, escludere, forgiare una società piramidale con i «bianchi» in cima e tutti gli altri al margini, schiavi. «Se vivi qui - spiega Tiziano Scarpa - ti rendi conto dell’impresentabilità, dell’imbecillità di chi inneggia alle Ss».
L’idea è partita un mese fa quando alcuni esponenti leghisti hanno hanno passato il confine della decenza inneggiando ai nazisti, ai «dieci clandestini uccisi per uno di noi». [...] Per questo gli intellettuali del Nordest hanno deciso di uscire allo scoperto, di rompere il silenzio assordante che circonda il razzismo istituzionale. «Non siamo mai fuggiti di fronte al dilagare di questo germe - prosegue Tiziano Scarpa, mentre si avvicina al porticarto dove saranno letti brani contro il razzismo - nel Veneto vi è un formicolare di iniziative, ci muoviamo in rete, con i blog collettivi, non siamo stati latitanti. Si deve alla sensibilità di Mauro Covacich se abbiamo deciso di andare in piazza dei Signori. Quelle di alcuni amministratori non sono solo “sparate” sbruffonate, loro vogliono “rompere i coglioni” agli immigrati, far sapere che non saranno mai dei nostri, come noi. Vogliono infastidire, intimorire».
Tocca a Mauro Covacich, l’ideatore dell’iniziativa. «Leggerò – ci dice - un breve brano tratto da Sillabario di Goffredo Parise, il racconto di intitola “altri” ed ha per protagonista un bambino che scopre l’esistenza dei suoi coetanei». Mauro appare «autenticamente felice. Se fossimo andati in un altro posto - spiega - avrei potuto dire che la nostra critica è scontata, è ovvio essere contro il razzismo, ma oggi usciamo dalla scontatezza. Treviso è un luogo simbolico, il razzismo viene dalle istituzioni, dall’alto. In un bar di periferia può capitare di sentire una battuta sulle Ss, ma qui, a dire queste cose, sono le istituzioni». [ L'Unità, 27 gennaio 2008. QUI ]

sabato 26 gennaio 2008

Bandiera Italiana a Venezia



Venezia, San Zaccaria


A Venezia, oggi, azzurro appena velato di foschia, bellezze estreme, e la bandiera italiana. Qui c'è un comando dei carabinieri. Diventa possibile coprire i mesti pensieri di questi giorni, l'incertezza del futuro prossimo, lo squallore di quel tristo bivacco di transfascisti in Senato, là a destra, rappresentanti di un fascismo trasversale e inestinguibile. Son fatta salva dalla bellezza e dalla dignità di quest'angolo veneziano che permette di resistere alla bruttezza morale ed estetica di quegli omaccioni ululanti, sbevazzanti, con la bocca piena di sputi e volgarità e cibo. Quegli omaccioni che chissà per quali  infauste (per la Nazione) strade sono arrivati al nostro Senato.

venerdì 25 gennaio 2008

Due voci dal Vaticano



Due voci dal sen fuggite. Leggo e copio (a mano) dalla Repubblica di oggi, pag. 10. Che abbiano brindato anche nello Stato confinante? Conservo qui a futura memoria. I fatti si allontanano nel tempo e aumentano le menzogne e le distorsioni.  Nei post precedenti si trovano parecchie tracce di questo metodo vaticano. Il governo Prodi aveva dato ampie garanzie di sicurezza e non ha mai consigliato al sovrano del Vaticano di astenersi dalla visita. D'altra parte, in ogni intervento parlamentare di questi giorni da parte dell'opposizione di destra, è stata strumentalizzata la vicenda della Sapienza. Non so chi siano questi due prelati, ma so che mentono, anche sulla penalizzazione dei valori cattolici. Con improntitudine. Non una delle leggi sui diritti civili in programma è stata approvata, anzi sono state tutte accantonate. E siamo all'attacco anche delle vecchie e collaudate, come la 194.


"E' il frutto del mancato dialogo coi cattolici" di Orazio La Rocca


Città del Vaticano. "Inevitabile. Da una coalizione così frammentata non ci si poteva aspettare altro". "E' il frutto di una mancanza di dialogo che ha penalizzato in modo particolare i valori cattolici". Prime valutazioni d'Oltretevere sulla caduta del governo Prodi. Ne parlano, a titolo personale, due cardinali di Curia, il portoghese Josè Saraiva Martins, prefetto della Congregazione per le cause dei Santi e Giovanni Cheli, presidente emerito del Pontificio consiglio dei migranti e itineranti, che concordano nella mancanza di attenzione dei valori cattolici uno dei principali motivi che ha portato alla fine del governo.


Come lo stesso Clemente Mastella ha più volte denunziato anche quando ha giustificato le sue dimissioni da ministro subito dopo la mancata visita del papa alla Sapienza. "C'è stata troppa frammentarietà nel centro sinistra e l'esito non poteva essere diverso", commenta Cheli, che accusa pure l'ex maggioranza di "essere stata troppo litigiosa e di aver messo in difficltà in particolare i rappresentanti cattolici. Spiace, ma alla fine saranno i cittadini a farne le spese".


"Sono da oltre 30 anni in Italia - premette il cardinale Saraiva Martins - e seguo con interesse le vicende politiche di questo paese che considero la mia seconda patria. Ma ho notato, negli ultimi tempi che non c'è stata una volontà di dialogo tra i partiti, specialmente sui valori cattolici come famiglia, scuole e difesa della vita. Senza dialogo non si va da nessuna parte. Gli scontri non portano a nulla". Questa mancanza di dialogo, per il cardinale Saraiva martins, ha "toccato l'apice nella mancata visita del Santo Padre alla Sapienza a causa di una minoranza che, però, ha di fatto costretto le autorità a bloccare l'iniziativa". Ora, conclude il porporato, "è bene che tutti i partiti tornino a dialogare e a pensare alle vere esigenze della gente con spirito costruttivo".

mercoledì 23 gennaio 2008

La fuga in Egitto




Un popolo in fuga dalla politica di annichilimento.


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Prodi in Senato


Come cittadina esulto. Pensiamoci: la crisi viene affrontata in Parlamento e non a "Porta a porta" e nemmeno in una conferenza stampa dell'uomo di Ceppaloni. Comunque vada, solo dopo il voto dei senatori (tutti i presenti, senza discriminazioni) sarà giusto che il Presidente Napolitano prenda le sue decisioni. Non vedo la differenza tra una fiducia negata dal Senato nella trasparenza istituzionale e una sfiducia accettata in anticipo dalle mani di Mastella e dei suoi sostenitori, secolari e no. Anzi, sì, la vedo.

martedì 22 gennaio 2008

     Sostengo Romano Prodi


Signor Presidente, Onorevoli colleghi,


intervengo in quest’Aula a seguito della crisi venutasi a creare nella maggioranza dopo la decisione dell’Udeur di non farne più parte. [...]


sono convinto che nei momenti di decisione sia bene e salutare assumere comportamenti che implichino l’assunzione di responsabilità limpide da parte delle istituzioni preposte al governo del paese, a partire dal Parlamento. In un paese legato allo stato di diritto non sono le agenzie di stampa e neppure i dibattiti televisivi che determinano le sorti di un governo. Siete voi, colleghi deputati che dovrete decidere e assumere limpidamente e pubblicamente le responsabilità per cui siete stati eletti. E’ nel Parlamento e solo nel Parlamento che si può decidere la sorte del Governo.


Ho assunto l’interim del Ministero della Giustizia e, come ho già ripetuto, il governo condivide la relazione dell’ex Ministro Mastella. Se poi entrano in discussione in modo opaco preoccupazioni di riforma elettorale o di altro genere è bene che tutto venga alla luce in questa sede, nelle aule parlamentari. Esse sono la sede fondamentale della democrazia. [...]


Proprio domani, in quest’Aula, il Presidente della Repubblica celebrerà il sessantesimo anniversario della Carta fondante la nostra democrazia.


Mai come oggi siamo chiamati a dimostrare coi nostri comportamenti, con le nostre decisioni e con atti formali che ci impegnamo tutti di fronte al Paese, la fedeltà e il rispetto per la nostra Carta fondamentale.


Alla Costituzione mi richiamo dunque per chiedere a voi, onorevoli deputati, e, in seguito ai vostri colleghi senatori, di esprimere con un voto di fiducia il vostro giudizio sulle dichiarazioni che avete ascoltato. [ www.romanoprodi.it ]


Dal lungo intervento del Presidente del Consiglio, pronunciato oggi alla Camera dei Deputati, ho estrapolato i punti che per me sono fondamentali, anche se condivido tutto il resto. Sono i punti in cui Romano Prodi ha richiamato il valore delle virtù morali che sono indispensabili nella prassi democratica.


Per questo lo sostengo.


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Gioco doppio per una spallata al Governo di una libera Nazione: Ratzinger Ruini e Bagnascotriumviri vaticani della fedecattolica romana (il Cristianesimo è altra cosa) Mastella, ministro italiano (ex) della Giustizia. Sul versante clericale, si è incaricato Angelo Bagnasco di sfiduciare il governo Prodi, ricorrendo addirittura alla menzogna (caso Ratzinger - Sapienza), incurante anche delle più elementari regole della diplomazia. Sul versante secolare, il compito se l'è affidato Mastella, venendo meno al patto con gli elettori e accampando un pretesto che neanche sotto tortura avrebbe dovuto palesare, per salvare pudore e dignità. Poiché tutti si proclamano furiosamente cattolici, verrebbe da domandarsi: è questa la loro morale cattolica? La loro, appunto, perché non vanno compresi tutti i cattolici, e sono molti, che non si riconoscono in questi comportamenti.


Insieme verso il glorioso ritorno del cavaliere, difensore della Fede e della Giustizia, difensore della morale pubblica e privata, difensore dei valori della famiglia e delloStato, difensore dell'onestà e dell'equa distribuzione del reddito, difensore della serietà e della modestia, difensore della fedeltà alle leggi e della lealtàdifensore del rispetto dei patti e della VERITA'.


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domenica 20 gennaio 2008

Il caso del fisico Maiani


Stop alla nomina di Maiani al Cnr




ROMA - Avrebbe dovuto essere ratificata ieri nella commissione Cultura del Senato. Ma la nomina del fisico Luciano Maiani (foto) alla presidenza del Cnr è stata sospesa: troppe le polemiche per la lettera sul Papa. Maiani, infatti, è stato uno dei 67 firmatari della lettera che ha definito «incongrua» la visita di Benedetto XVI alla Sapienza, facendo esplodere le proteste. «Sono stato io stesso a chiedere una pausa di riflessione», ha spiegato Giuseppe Valditara, senatore di An e segretario della commissione. E ha spiegato: «Ho pensato fosse importante questa pausa per rasserenare gli animi e consentire al professor Maiani di chiarire la sua posizione». Valditara ha precisato che: «La ratifica è stata rinviata a data da destinarsi. Non ha senso una nomina con il Parlamento spaccato a metà: non possiamo dimenticare, infatti, che la proposta della presidenza di Maiani era stata bipartisan». Al.Ar.


Arachi Alessandra  [ Il Corriere della Sera . 17 gennaio 2008 ]


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SULLA PROPOSTA DI NOMINA DEL PROFESSOR MAIANI A PRESIDENTE DEL CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE   [ Senato della Repubblica, 16 gennaio 2008 ]



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Sapienza, Maiani fa autocritica: sconfitti tutti noi
 «È vero, ci hanno strumentalizzato»
[ Avvenire, 20 gennaio 2008 ]


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Il presidente del Cnr si corregge: benvenuto Centristi all' attacco


Alcuni docenti minacciano: via la togaIl professore: no alla lectio, bene se assiste. La sua nomina deve essere ratificata dal Parlamento L' Udc: non va confermato


[...] quella lettera dura contro il Papa proprio ieri è andata a sbattere contro uno dei suoi più illustri autori: Luciano Maiani, appunto, neo-nominato presidente del Cnr. Con un dettaglio: la sua nomina deve ancora essere ratificata dal Parlamento. Ed è qui che si è infilata la lingua tagliente di Luca Volontè, presidente dei deputati dell' Udc. In soldoni. «Non si può ratificare una simile nomina. Davanti a un docente che sottoscrive simili lettere». Puntuale, di lì a poco, la rettifica di Maiani. E poco dopo la precisazione del prorettore. Professor Maiani, ma perché oggi questa rettifica? «Ho specificato il mio pensiero». E perché lo ha fatto? C' entra nulla quel pesante attacco circa la sua nomina fresca fresca al Cnr? «Sono stato chiamato in ballo. E per forza ho dovuto spiegare la coerenza del mio pensiero». Coerenza? Davvero? Luciano Maiani non si scompone. Dice: «Quella lettera è stata scritta un mese e mezzo fa, quando si pensava che il Pontefice venisse all' ateneo per tenere una lectio magistralis. Ora così non è più. E non c' è nulla che osta alla visita del Papa. Anzi: se viene in qualità di Vescovo di Roma, come un' istituzione che presenzia l' inaugurazione dell' anno accademico, siamo felici. L' importante è che non ci sia nessuna ingerenza. Che il Papa non detti le linee sulla ricerca. Questo è il principio che affermo. E per difendere questo sono disposto anche a pagare prezzi personali».
Arachi Alessandra  [ Il Corriere della Sera - 15 gennaio 2008 ]


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Sapienza: una lettera di Giorgio Parisi, fisico teorico del dipartimento di fisica dell’Università “La Sapienza”, membro dell’accademia dei Lincei e di molte delle più prestigiose accademie del mondo, uno dei 67 firmatari dell’appello al rettore a proposito della visita del papa. Il documento può servire a chiarire alcuni punti stravolti dai media o semplicemente non detti in precedenza, e quindi non arrivati al grande pubblico. Molte reazioni negative sono state causate da una carenza di informazione. L’UAAR invita tutti i suoi navigatori a diffonderlo nella maniera più ampia possibile.


20/1/2008 - L'ADUNATA DI ROMA


"NON CI sarebbe, secondo me, alcun bisogno di tornar a scrivere sull'agitato rapporto tra laici e cattolici, tra laicità sana o malata, tra spazio pubblico e spazio privato." (E. Scalfari) 
Oggi una pagina di diario che scriverò raccogliendo gli articoli che mi sembreranno più vicini al mio modo di pensare e alla mia visione della vita sociale, culturale e politica. E non solo. Le sottolineature sono mie. Ma prima due comunicazioni:


Per esprimere solidarietà ai docenti della Sapienza firmatari della lettera di dissenso: Petition on line


Può diventare presidente del CNR il professor MAIANI firmatario della lettera al Rettore de La Sapienza? Post precedente (non riesco a fare il link).


Nell'ordine: * Barbara Spinelli, * Eugenio Scalfari, * Paolo Flores d'Arcais, * g.m.v., * Claudio Magris, * Furio Colombo, * Intervista al prof. Maiani, * Umberto Veronesi.


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L'imprudenza politica della chiesa


BARBARA SPINELLI


È probabile che Camillo Ruini, che per molti anni ha presieduto la Conferenza episcopale italiana e ancora influenza la Chiesa nella sua qualità di vicario di Roma, gioirà di quello che oggi potrebbe accadere nella capitale: una moltitudine di cittadini romani e italiani, da lui incitata e inebriata, accorrerà sicuramente all’Angelus, in piazza San Pietro, per ascoltare il Papa e denunciare la persecuzione di cui sarebbe stato vittima. Persecuzione che lo avrebbe indotto a non pronunciare più nell’aula universitaria la prolusione che gli era stata - senza seria preparazione - affidata. Il brutto episodio finirà col trasformarsi in una giornata gloriosa per la Chiesa, questo il giudizio cui sembra esser giunto il cardinale, e il male ancora una volta si muterà provvidenzialmente in bene. Lui stesso s’è espresso in questo modo, venerdì alla televisione, ripetendo quanto già detto il 4 novembre a Aldo Cazzullo sul Corriere. La Chiesa (tali furono le sue parole) è attaccata quando vince: «Constato che quando l’impegno non è coronato da successo, quando la Chiesa “perde”, tutto fila liscio».

Il rifiuto che numerosi scienziati e un gruppo di studenti hanno opposto al Pontefice, la ritirata strategica del Santo Padre: tutto questo non è, per una parte della gerarchia, un episodio increscioso, o come ha detto sull’Avvenire Souad Sbai, in nome dell’Islam italiano anti-integralista, un «giorno di tristezza».

Forse non è del tutto increscioso neppure per il Papa. Al giornalista Rai che l’interrogava, Ruini ha detto: «I rapporti tra Stato italiano e Chiesa possono migliorare, grazie a episodi come questo».

E ha sorriso sibillino, come si rallegrano quei militanti apocalittici che provocano tenebre e caos pensando che solo a queste condizioni rinasca la luce, che incitano a sfasciare (nel linguaggio brigatista si diceva «disarticolare») per generare palingenesi prerivoluzionarie. La sovversione ha in genere queste proprietà, avverse al filar liscio dei rapporti. Non a caso il sorriso di Ruini si accentua sino a tingersi di scherno, quando respinge l’accusa d’ingerenza nell’agenda politica e chiede - provocatoriamente, accendendo sorrisi complici nel giornalista - se ci sia oggi «qualcuno in Italia, capace di dettare agende politiche». Esiste insomma un modo di raccontare l’episodio della Sapienza, che deforma ogni cosa. Si falsifica quel che accade, si comprime il tempo che viviamo schiacciandolo tutto sul presente e togliendogli ogni profondità. Ci si racconta la storia di una Chiesa perseguitata, prendendo in prestito il linguaggio dell’esperienza ebraica; si denuncia e si irride la stasi della politica. In questo Ruini ha comportamenti sovversivi che singolarmente lo apparentano alla figura di Berlusconi.

Ma è un sovversivo che miete successi, e sono questi ultimi che conviene analizzare. Non è un successo religioso, perché l’indebolirsi delle fedi non si argina riempiendo piazze. Non è neppure in questione la libertà della religione cattolica, perché in Italia essa è garantita e ha un’estensione enorme. Nessuno l’ostacola, tanto meno la censura: se la fede è debole, quando è debole, lo è per cause spirituali o pastorali e non per cause esterne, di potere politico. Solo in Italia questa realtà è obnubilata. È sottratta allo sguardo dei cittadini anche dai commentatori che dovrebbero sapere e che sanno, senza però sentirsi in dovere di aiutare i fedeli a emettere giudizi adulti perché informati.

Quel che molti commentatori o intellettuali nascondono è il divario tra simili realtà e il modo di raccontarle. Il rapporto mimetico del cattolicesimo italiano con l’ebraismo è un non senso, nelle democrazie. Fuori dall’Italia, in Francia o Germania, Spagna o Inghilterra, esiste certo una nuova consapevolezza dell’importanza delle religioni (le parole e le esperienze personali di Sarkozy e Blair lo testimoniano), ma i mutamenti avvengono in contesti radicalmente diversi: in nessuno di questi Paesi la Chiesa ha il peso, il tempo di parola che ha in Italia. Venerdì, su questo giornale, Giacomo Galeazzi ha spiegato bene lo spazio abnorme che le viene dato: da quando è Papa, Benedetto XVI ha avuto un tempo d’antenna superiore a quello del premier e del Capo dello Stato, e appena inferiore a quello di tutti i ministri messi insieme. Non solo: la Chiesa cattolica ha il 99,8% dello spazio dell’informazione religiosa, lasciando briciole a altre fedi. Il vittimismo è storia senza sostanza. La Chiesa italiana non è imbavagliata ma piuttosto sovraesposta. L’idea che esistano comportamenti etici su cui lo Stato non può autonomamente legiferare perché appartenenti alla legge naturale, dunque iscritti dalla mano creatrice di Dio nella stessa natura umana, dunque interpretabili e tutelabili solo dalla Chiesa, è idea diffusa. Chi contesta il diritto della Chiesa a imporre i suoi veti su famiglia, unioni di fatto, aborto, testamento biologico, ricerca biologica, è una minoranza.

È questa situazione che ha finito col generare rabbia gridata, e stupida perché perdente. Ma rabbia che comunque non nasce dal nulla. Ogni evento ha una storia, un tempo lungo in cui è iscritto ed è maturato: ha cause che dispiegano effetti, non è istante che fluttua nell’etere come piuma ed è infilabile in ogni tipo di racconto. Questa verità viene ignorata da parte della gerarchia, ma anche dal Pontefice nell’ultimo incidente italiano. È la verità di una Chiesa italiana che ancora non ha deciso che fare, dopo la perdita della Dc: se schierarsi con la destra o no, se far politica direttamente o privilegiare lo spirituale, il profetico-pastorale. È la verità di un Pontefice che sta mostrandosi incapace di sintesi, di delicatezza istituzionale. Di volta in volta Benedetto XVI aderisce a una corrente o all’altra della gerarchia, senza anticipare proprie soluzioni alte e meno italiane. Un giorno s’infiamma contro il «degrado» di Roma, e ventiquattr’ore dopo descrive una città accogliente e ben governata. Precipitosamente accetta di aprire l’anno accademico, poi rinuncia senza fugare il sospetto che la ritirata sia uno strumento - maneggiato da Ruini - per inasprire le tensioni anziché placarle. La sua opinione politica oscilla, diventa impreparazione, per forza vien chiamata inconsistente. È un’impreparazione che non solo ignora la dimensione del tempo ma che induce i vertici del Vaticano a sprezzare i significati profondi della laicità, dell’autonomia della politica, dello Stato neutrale. È assurdo doverlo ricordare alla presenza di un cattolicesimo che ha dato all’Europa questa separazione: ma laicità non è pensiero debole, non è visione relativista del mondo, dell’etica. Il laico non è, contrariamente a quello che Marcello Pera ha scritto su questo giornale, «chi non crede o non riesce a credere». Non è neppure chi non riesce a «conferire senso alla vita», a «interpretare il male» perché dotato del lume della ragione e non anche della fede. Il laico è colui che tra Chiesa e Stato sente di dover erigere, come diceva Thomas Jefferson, un alto «muro di separazione»: per proteggere sia la sovranità legiferante del popolo, sia le religioni. Diceva Jefferson che i poteri legislativi del governo «riguardano le azioni, non le opinioni» (Lettera ai Battisti di Danbury, 1802), e di azioni devono ancor oggi occuparsi i governi. La laicità non è un’opinione ma un metodo, uno spazio dove le convinzioni più diverse - anche integraliste - possono incontrarsi senza violenza e senza impedire leggi attente al bene comune. L’autonomia della politica (il «muro» di Jefferson) non appartiene al non cristiano: appartiene a ciascuno. Non esiste una forza esterna allo Stato cui viene delegata la «competenza delle competenze», come la chiama lo storico Giovanni Miccoli, e che può decidere le materie su cui lo Stato può o non può legiferare. Il muro di Jefferson in Italia è in permanenza fatiscente - anche se esiste nella sua Costituzione - e questo origina cronici disordini e l’alternarsi continuo di ingerenze e di contestazioni anti-papaline. Queste ultime son state definite malate, ma non meno malate son state le ingerenze degli ultimi anni: l’intera spirale necessita guarigione e correzione. Il chiaro muro divisorio non esisteva nemmeno nella Spagna di Franco, nel Portogallo di Salazar, e quella malattia ha prodotto la reazione di Zapatero e le sue misure di riordino e separazione laica.

In Italia siamo a un bivio simile, anche se con impressionante ritardo. È come se nella nostra Chiesa permanesse ancora il modello franchista spagnolo, come se il pensiero di cattolici come Rosmini e Maritain non avesse mai messo radice. Come se non ci fossero stati il Concilio Vaticano II e Paolo VI, difensore della laicità di Maritain contro gli integralisti del Vaticano. Come se fosse ancora vivo e forte il «partito romano» che per decenni, da dentro la Chiesa, cercò di suscitare uno Stato etico cristiano in Italia e mai si conciliò con papa Montini e la Dc autonoma di De Gasperi.

L’episodio della Sapienza non è caduto dal cielo, e non rendersene conto significa che una certa imprudentia politica sta divenendo la caratteristica del Pontefice. Dice ancora Pera che le vecchie regole laiche sono sorpassate, e forse lo pensa anche Benedetto XVI. Sono invece più che mai attuali, in un’Europa dove si è ormai insediato un Islam forte, in espansione. Senza Stato laico, che garantisca cattolici e non cattolici, atei e agnostici, avremmo in Europa guerre di religioni, intolleranze, pogrom. Avremmo catastrofi benefiche solo a chi non sa apprezzare quanto si stia bene, quando «tutto fila liscio».  [ La Stampa, 20 gennaio 2008. QUI ]


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Atei devoti nel giardino del Papa


EUGENIO SCALFARI


NON CI sarebbe, secondo me, alcun bisogno di tornar a scrivere sull'agitato rapporto tra laici e cattolici, tra laicità sana o malata, tra spazio pubblico e spazio privato.

Questi e altri temi strettamente connessi sono infatti della massima importanza per il rafforzamento delle regole di convivenza sociale in uno Stato democratico, ma si evolvono e maturano con il passo lento dei processi storici. È quindi, o almeno così sembra a me, inutile e forse dannoso dibattere quotidianamente temi che sono già chiari alla coscienza di molti anche se le risposte di una società complessa non sono univoche ma plurime.

Capisco la voglia di farle convergere, capisco anche il legittimo desiderio dei credenti e di chi li guida a spingere i non credenti verso le loro convinzioni di fede per guadagnar loro la salvezza, ma capisco meno la petulanza ripetitiva che talvolta accoppia lo slancio missionario con un'attività pedagogica fondata sulla ferma credenza di chi depositario della verità considera come inferiori intellettualmente e spiritualmente quanti dissentono dal suo zelo religioso o ne accettano alcuni principi ispiratori respingendone la precettistica che l'accompagna.

Il dibattito sulla presenza-assenza del Papa all'inaugurazione dell'anno accademico della Sapienza ha rinfocolato alcune differenze sui modi di pensare e sui comportamenti pratici che ne derivano.
Il Vicario di Roma, cardinal Camillo Ruini, ha lanciato da giorni l'appello ad un'adunata di massa all'"Angelus" di oggi in piazza San Pietro. L'adunata ha preso inevitabilmente la forma politica che è propria delle manifestazioni di massa, dove è più il numero che la qualità a determinare gli esiti di una politica "muscolare".


Così bisogna di nuovo affrontare quei temi, precisare il significato di gesti e di parole, capire, se possibile, il senso di ciò che accade. La storia dello Stato italiano è fortemente intrecciata con quella della Chiesa. In nessun altro Paese questo intreccio è stato tanto condizionante e la ragione è evidente: siamo il luogo ospitante del Capo della cattolicità. Siamo stati e siamo il "giardino del Papa", ci piaccia o no. Questa condizione ha determinato in larga misura la nostra storia sociale e nazionale. Nel positivo e nel negativo, nelle azioni degli uni e nelle reazioni degli altri. Le persone ragionevoli non dovrebbero mai dimenticare queste condizioni di partenza, ma spesso purtroppo accade il contrario.

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Metto al primo posto del mio ragionare l'incidente della Sapienza. Su di esso si è già espresso il nostro direttore ed io concordo interamente con lui: una laicità malata ha suggerito ad un gruppo di docenti e di studenti comportamenti di contestazione in sé legittimi ma divenuti oggettivamente provocatori. Di qui la necessità di garantire la sicurezza dell'insigne ospite, di qui la possibilità di tumulto tra opposte fazioni, di qui infine il fondato timore che Benedetto XVI dovesse parlare nell'aula magna mentre sotto a quelle finestre i lacrimogeni e i manganelli avrebbero potuto esser necessari: spettacolo certamente insopportabile per il "Pastor Angelicus" che predica pace e carità.

La contestazione "stupida", tuttavia, non è nata dal nulla ed è l'effetto di varie cause, anch'esse ricordate nell'articolo di Ezio Mauro: l'invito incauto del Rettore nel giorno, nell'ora e nel luogo dell'inaugurazione dell'anno accademico. Non dovrebbe essere un evento mondano e mediatico bensì l'indicazione delle linee-guida culturali e dei problemi concreti della docenza e degli studenti.

Il Rettore, evidentemente, ha un altro concetto, voleva l'evento. E l'ha avuto col risultato di dividere l'Università, la società, la cultura, le forze politiche, in una fase estremamente delicata della nostra vita pubblica.

Un esito catastrofico da ogni punto di vista, di cui il Rettore dovrebbe esser consapevole e trarne le conseguenze per quanto lo riguarda. Ci saranno tra breve le elezioni del nuovo Rettore. Quello attuale vinse la precedente tornata per una manciata di voti. Questa volta si presenterà come quello che voleva che il Papa parlasse alla Sapienza e ne è stato impedito. Un "asset" elettorale di notevole effetto.

Mi auguro che il Rettore non se ne renda conto, ma in tal caso la sua intelligenza risulterebbe assai modesta. Se se ne rende conto, il sospetto di un invito con motivazioni elettoralistiche acquisterebbe fondatezza.
Per fugarlo non c'è che un rimedio: protestare la sua ingenuità e non presentarsi in gara. I guelfi e i ghibellini nacquero anche così.

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La risposta della gerarchia, guidata ancora da Ruini, è stata l'adunata di stamattina. Mentre scrivo non so ancora quale sarà l'esito quantitativo ma prevedo una piazza gremita e un mare di folla fino al bordo del Tevere. È un evento da salutare con piena soddisfazione? È una "serena manifestazione di affetto e di preghiera" per testimoniare l'amore dei fedeli al Santo Padre? Certamente è una manifestazione più che legittima.

Certamente le presenze spontanee saranno robustamente rinforzate dalle presenze organizzate, treni e pullman sono stati ampiamente mobilitati senza risparmio di mezzi dal Vicario del Vicario. La motivazione è esplicita: dimostrare al Papa l'amore del suo gregge dopo l'offesa subita.

Se questa non è una motivazione politica domando al Vicario del Vicario che cosa è. Se questo non avrà come effetto di acuire la tensione degli animi, la lacerazione d'un tessuto già usurato e logoro, ne deduco che il Vicario è privo di intelligenza politica. Ma siccome sappiamo che invece ne è ampiamente provvisto, ne consegue che il Vicariato di Roma si prefigge di accrescere la tensione degli animi e di annunciare venuta l'ora di rilanciare il partito guelfo che ha sempre avuto in cuore.

La Segreteria di Stato vaticana è dello stesso avviso? La Chiesa è unanime in questo obiettivo?

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Abbiamo celebrato giovedì scorso in Senato il senatore, lo storico, il fervido credente Pietro Scoppola, da poco scomparso, alla presenza di molti cattolici che hanno condiviso il suo pensiero e la sua fede e si propongono di continuare nell'impegno da lui auspicato.

Scoppola aveva scavato a fondo nella storia dei cattolici italiani e nell'atteggiamento di volta in volta assunto dalla gerarchia e dal magistero papale. Distingueva il popolo di Dio dalla gerarchia; sosteneva che la gerarchia è al servizio del popolo di Dio e non viceversa.

Mi ha fatto molto senso vedere, proprio alla vigilia del mancato intervento del Papa alla Sapienza, la messa celebrata da Benedetto XVI nella Sistina col vecchio rito liturgico rinverdito a testimoniare la curva ad U rispetto al Concilio Vaticano II: il Papa con la schiena rivolta ai fedeli e la messa celebrata in latino.
Qual è il senso di questa scelta regressiva se non quello di ribadire che il mistero della trasformazione del vino e del pane in sangue e carne di Gesù Cristo viene amministrato dal celebrante senza che i fedeli possano seguire con gli occhi e in una lingua sconosciuta ai più? Il senso è chiarissimo: l'intermediazione dei sacerdoti non può essere sorpassata da un rapporto diretto tra i fedeli e Dio. Il laicato cattolico è agli ordini della gerarchia e non viceversa. Lo spazio pubblico è fruito dalla gerarchia e - paradosso dei paradossi - dagli atei devoti che hanno come fine dichiarato quello di utilizzare politicamente la Chiesa.

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Si continua a dire, da parte della gerarchia e degli atei devoti, che i laici-laici (come vengono chiamati i credenti veramente laici e i non credenti che praticano la laicità democratica) vogliono relegare la religione nello spazio privato delle coscienze.

Questa affermazione è falsa. Chi pratica la laicità democratica sostiene che tutte le opinioni dispongono legittimamente di uno spazio pubblico per esporre e sostenere i loro modi di pensare.

La libertà religiosa è una, e direi la più importante, da tutelare sia nel foro della coscienza che in quello pubblico. Non mi pare che difetti quello spazio, mi sembra anzi che la gerarchia lo utilizzi pienamente anche a scapito di altre religioni e massimamente di chi non crede e potrebbe in teoria reclamare uno spazio più confacente.

Ma noi non abbiamo obiettivi di proselitismo. Facciamo, come si dice, quel che riteniamo di dover fare, accada quel che può. Tra l'altro cerchiamo di amare il prossimo e riteniamo che la predicazione evangelica contenga grande ricchezza pastorale quando non venga stravolta in strumento di potere, il che è accaduto purtroppo per gran parte della storia del Cristianesimo da parte non del popolo di Dio ma della gerarchia che l'ha guidato con l'obiettivo del temporalismo e del neo-temporalismo.

La lettura della storia dei Papi insegna molte cose e, quella sì, andrebbe fatta nelle scuole pubbliche. Papa Wojtyla ha chiesto perdono per alcuni di quegli episodi, ma non poteva certo chiederlo per tutti: avrebbe certificato che per secoli e secoli la gerarchia si è messa sul terreno della politica, della guerra ed anche purtroppo della simonia piuttosto che praticare nello specifico il messaggio di pace e di povertà della predicazione evangelica.

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Ci saranno modi e occasioni per riprendere questo discorso che tende a chiarire ciò che non sempre è chiaro.

Mi restano due osservazioni da fare. Giornali di antica tradizione laica sembrano aver perso la bussola e si schierano apertamente accanto agli atei devoti.
Di atei devoti la storia d'Italia è purtroppo gremita.
L'ultimo nella fase dell'Italia monarchica fu Benito Mussolini.
In tempi di storia repubblicana gli atei devoti fanno ressa e la faranno anche oggi alle transenne di piazza San Pietro.

Questa prima osservazione mi conduce alla seconda.
L'onorevole Mastella nella sua conferenza stampa di Benevento, mentre gli grandinavano addosso pesanti provvedimenti giudiziari, ha fatto come prima affermazione quella relativa alla sua presenza oggi a piazza San Pietro.

Dopo averla fatta si è guardato fieramente intorno con sguardo lampeggiante e ha scandito: "Io sono con il Papa e andrò a testimoniarlo in piazza".
Ne ha pieno diritto. Personalmente mi auguro che i pretesi reati di Mastella, di sua moglie, del suo clan, si rivelino per una montatura. Ma il problema è sul comportamento politico e morale di Mastella, di sua moglie del suo clan.

Un comportamento clientelare e ricattatorio che non ha scuse di sorta, rappresenta una deviazione molto grave dalla democrazia. Non è assolutamente valida la giustificazione proveniente dal fatto che si tratta di un male diffuso.

Negli stessi giorni della "mastelleide" abbiamo assistito anche alla "cuffareide": il popolo non di Dio ma di Totò Cuffaro si è radunato in preghiera nelle chiese della Sicilia; il "governatore" ha pianto di gioia e si è fatto il segno della croce quando ha ascoltato la lettura della sentenza dalla quale è stato condannato a cinque anni di reclusione (che non farà) e all'interdizione dai pubblici uffici che non rispetterà.

Il capo del suo partito, Casini, e il capo della coalizione di centrodestra, Berlusconi, si sono immediatamente complimentati con lui.

Che cos'ha di cattolico il comportamento di Clemente Mastella e di Totò Cuffaro? Nulla. Anzi è il contrario dello spirito cristiano.

Fossi nei panni del Vicario del Vicario farei discretamente e con mitezza sapere a Mastella, a Cuffaro, a Berlusconi, a Casini, che i loro comportamenti sono a dir poco imbarazzanti per la Chiesa e forse farebbero bene a non presenziare manifestazioni di testimonianza cristiana. Ma se poi si venisse a sapere che anche Camillo Ruini è un ateo devoto? Del resto sarebbe l'ultimo in ordine di tempo di un'interminabile sfilata di papi, cardinali, vescovi, abati, che tradirono - devotamente - il messaggio celeste del Figlio dell'uomo, da essi rappresentato.

[ La Repubblica, 20 gennaio 2008. ]


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"Lettera aperta al Presidente Napolitano" di Paolo Flores d'Arcais, sulle scuse incomprensibili rivolte a Papa Benedetto XVI 


Paolo Flores d'Arcais
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Caro Presidente,
tempo fa, dovendo scriverti per invitarti ad una iniziativa di MicroMega, chiesi tramite il tuo addetto stampa se dovevo continuare ad usare il “tu” della consuetudine precedente la tua elezione, o se era più consono che usassi il “lei”, per rispetto alla carica istituzionale. Poiché, tramite il tuo addetto stampa, mi facesti sapere che preferivi che continuassi a scriverti con il “tu”, è in questo modo che mi rivolgo a te in questa lettera aperta, tanto più che, essendo una lettera critica, mi sembrerebbe ipocrisia inzuccherare la critica con la deferenza del “lei”.
Il mio dissenso, ma si tratta piuttosto di stupore e di amarezza, riguarda la lettera di scuse che in qualità di Presidente, dunque di rappresentante dell’unità della nazione, hai inviato al Sommo Pontefice per l’intolleranza di cui sarebbe stato vittima. E’ verissimo che di tale intolleranza, di una azione che avrebbe addirittura impedito al Papa di parlare nell’aula magna della Sapienza, anzi perfino di muoversi liberamente nella sua città, hanno vociato e scritto tutti i media, spesso con toni parossistici.
Ma è altrettanto vero che di tali azioni non c’è traccia alcuna nei fatti. La modesta verità dei fatti è che il magnifico rettore (senza consultare preventivamente il senato accademico, ma mettendolo di fronte al fatto compiuto, come riconosciuto dallo stesso ex-portavoce della Santa Sede Navarro-Vals in un articolo su Re-pubblica) ha invitato il Papa come ospite unico in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico (a cui partecipano in nome della Repubblica italiana il ministro dell’università e il sindaco di Roma), e che, avutane notizia dalla agenzia Apcom il professor Marcello Cini (già dallo scorso novembre) e alcune decine di suoi colleghi (più di recente) hanno espresso per lettera al rettore un loro civilissimo dissenso.
Quanto agli studenti, nell’approssimarsi della visita alcuni di loro hanno espresso l’intenzione di manifestare in modo assolutamente pacifico un analogo dissenso, nella forma di ironici happening.
Il rettore Guarini ha comunque rinnovato al Papa l’invito, e tanto il Presidente del Consiglio Romano Prodi quanto il ministro degli Interni Giuliano Amato hanno esplicitamente escluso che si profilasse il benché minimo problema di ordine pubblico (malgrado la campagna allarmistica montata dal quotidiano dei vescovi italiani, “L’Avvenire”, rispetto a cui le dichiarazioni di Prodi e Amato suonavano esplicita smentita). Nulla, insomma, impediva a Joseph Ratzinger di recarsi alla Sapienza e pronunciare nell’aula magna la sua allocuzione.
Di pronunciare, sia detto en passant e per amore di verità, il suo monologo, visto che nessun altro ospite contraddittore o “discussant” era previsto, e un monolo-go resta a tutt’oggi nella lingua italiana l’opposto di un dialogo, checchè ne abbia mentito l’unanime coro mediatico-politico (che di rifiuto laicista del dialogo continua a parlare), a meno di non ritenere che tale opposizione, presente ancora in tutti i dizionari in uso nelle scuole, sia il frutto avvelenato del già stigmatizzato complotto laicista.
Tutto dunque lasciava prevedere che la giornata si sarebbe svolta così: mentre Benedetto XVI pronunciava il suo monologo nell’aula magna, tra il plauso deferente dei presenti (e in primo luogo del ministro Mussi e del sindaco Veltroni), ad alcune centinaia di metri di distanza alcuni professori di fisica avrebbero tenuto un dibattito sui rapporti tra scienza e fede esprimendo opinioni decisamente diverse da quelle del regnante Pontefice, e ad altrettanta debita distanza qualche centinaio di studenti avrebbe innalzato cartelli di protesta e maschere ironiche. Ironia che può piacere o infastidire, esattamente come le vignette contro il profeta Maometto, ma che costituisce irrinunciabile conquista liberale.
Dove sta, in tutto ciò, l’intolleranza? E addirittura la prevaricazione con cui si sarebbe messo al Papa la mordacchia (secondo l’happening inscenato in aula magna dagli studenti di Comunione e liberazione)?
A me sembra che intolleranza – vera e anzi inaudita – sarebbe stato vietare ad un gruppo di docenti di discutere in termini sgraditi ai dogmi di Santa Romana Chiesa, e ad un gruppo di studenti di manifestare pacificamente le loro opinioni, ancorché in forme satiricamente irridenti. Se anzi di tali divieti si fosse solo fatto accenno da parte di qualche autorità, credo che un numero altissimo di cittadini si sarebbe sentito in dovere di rivolgersi a te quale custode della Costituzione, con toni di angosciata preoccupazione per libertà fondamentali messe così platealmente a repentaglio. Ma, per fortuna (della nostra democrazia), nessun accenno del genere è stato fatto.
Il Sommo Pontefice non era di fronte ad alcun impedimento, dunque. Ha scelto di non partecipare perché evidentemente non tollerava che, pur avendo garanzia di poter pronunciare quale ospite unico il suo monologo in aula magna, nel resto della città universitaria fossero consentite voci di dissenso, anziché risuonare un plauso unanime.
Non è, questa, una mia malevola interpretazione
, visto che sono proprio gli ambienti vaticani ad aver riferito che il Papa preferiva rinunciare a recarsi in visita presso una “famiglia divisa” (cioè il mondo accademico e studentesco della Universitas studiorum, la cui quintessenza istituzionale è però proprio il pluralismo delle opinioni). Ma pretendere quale conditio sine qua non per la propria partecipazione un plauso unanime non mi sembra indice di propensione al dialogo bensì, piuttosto, di vocazione totalitaria.
Non vedo dunque per quale ragione tu abbia ritenuto indispensabile, a nome di tutta la nazione di cui rappresenti l’unità, porgere al Papa quelle solenni scuse. Che ovviamente, data la tua autorità, hanno fatto il giro del mondo. Se c’è qualcuno che aveva diritto a delle scuse, semmai, è il gruppo di illustri docenti, tutti nomi di riconosciuta statura internazionale nel mondo scientifico, e che tengono alto il prestigio italiano nel mondo, a contrappeso dell’immagine di “mondezza” e politica corrotta ormai prevalente all’estero per quanto riguarda il nostro paese. Questi studiosi sono stati infatti accusati di fatti mai avvenuti, e insolentiti con tutte le ingiurie possibili (“cretini” è stato il termine più gentile usato dai maestri di tolleranza [Cacciari, ndD] che si sono scagliati contro il diritto di critica di questi studiosi).
Né si può passare sotto silenzio il contesto in cui il monologo di Benedetto XVI si sarebbe svolto, contesto caratterizzato da due aggressive campagne scatenate dalle sue gerarchie cattoliche. Trascuriamo pure la prima, cioè i rinnovati e sistematici attacchi al cuore della scienza contemporanea, l’evoluzionismo darwiniano (bollato di “scientificità non provata” da un recente volume ratzingeriano uscito in Germania), benché il rifiuto della scienza non sia cosa irrilevante per chi dovrebbe aprire l’anno accademico della più importante università del paese.
Infinitamente più grave mi sembra la seconda, la qualifica di assassine scagliata dal Papa e dalle sue gerarchie, in un crescendo di veemenza e fanatismo, contro le donne che dolorosamente abbiano scelto di abortire. Questo sì dovrebbe risultare intollerabile. Se un gruppo di scienziati accusasse Papa Ratzinger, o solo anche il cardinal Ruini, il cardinal Bertone, il cardinal Bagnasco, di essere degli assassini, altro che lettere di scuse!
E perché mai, invece, ciascuno di loro può consentirsi di calunniare come assassina, nel silenzio complice dei media e delle istituzioni, ogni donna che abbia deciso di utilizzare una legge dello Stato confermata da un referendum popolare?
Se vogliono rivolgersi alle donne del loro gregge ricordando che l’aborto, anche un giorno dopo il concepimento, è un peccato mortale, e che quindi andranno all’inferno, facciano pure, proprio in base a quel “libera Chiesa in libero Stato” che il Risorgimento liberale e moderato di Cavour ci ha lasciato in eredità. Ma diffamare come assassine cittadine italiane che nessun reato hanno commesso è una enormità che non può essere passata sotto silenzio, e non sono certo il solo ad essermi domandato con amarezza perché, in quanto custode dell’unità della nazione e dunque anche delle sue radici risorgimentali, tu non abbia fatto risuonare la protesta dello Stato repubblicano.
La canea di accuse e di menzogne di questi giorni mi ha portato irresistibilmente alla memoria una piccola esperienza di oltre quarant’anni fa, nel 1966, quando – giovane universitario iscritto al Partito comunista da meno di tre anni – vissi incredulo l’esperienza di un congresso (l’XI, se non ricordo male) di un Partito che si vantava di essere sostanzialmente più libero e democratico degli altri (per questo, del resto, vi ero entrato, come milioni di italiani), in cui Pietro Ingrao, per aver moderatissimamente avanzato l’idea di un “diritto al dissenso” fu investito da una esondazione di critiche e vituperi, compresa l’accusa di essere proprio lui un intollerante!
Con una differenza sostanziale e preoccupante: che allora tale capovolgimento della realtà, versione soft ma non indolore dell’incubo orwelliano, riguardava solo un partito. Oggi investe l’intero paese, la sua intera classe politica, la quasi totalità dei suoi mass-media.
Ecco perché spero che tu voglia prestare attenzione anche all’angosciata preoccupazione di quei segmenti laici
(o laicisti, come preferisce la polemica corrente) del paese, non so se maggioritari o minoritari (ma la democrazia liberale, a cui ci hai più volte richiamato, è garanzia di parola e ascolto anche per il dissenso più sparuto, fino al singolo dissidente), che ormai vengono emarginati o addirittura cancellati dalla televisione, cioè dallo strumento dominante dell’informazione, e il cui diritto alla libertà d’opinione viene di conseguenza vanificato, mentre ogni tesi oscurantista può dilagare e spadroneggiare. Con stima, con speranza, con affetto, credimi,
tuo Paolo Flores d’Arcais.  [ Liberazione, 20 gennaio 2008 ]

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Cuore e Ragione


g.m.v.

 La preghiera domenicale dell'Angelus con Benedetto XVI sarà come sempre? Sì e no. , perché come ogni settimana in piazza San Pietro donne, uomini, fedeli o no, romani o pellegrini, si riuniranno numerosi per ascoltare le parole del Papa e per pregare con lui. Ma anche no, perché questa volta all'appuntamento si aggiunge un significato speciale dopo le vicende che hanno portato alla mancata visita del vescovo di Roma alla Sapienza, la più antica università della città, fondata da un suo predecessore e per oltre mezzo millennio università papale.
All'ascolto   di   quanto   dirà  Benedetto XVI, e all'antichissima preghiera rivolta a Maria che segna lo scorrere del giorno nella tradizione cristiana, parteciperà per questo motivo - non è difficile prevederlo - un numero molto più grande di persone:  per esprimere in questo modo "un gesto di affetto e di serenità" che vuole bilanciare la tristezza seguita a quanto è accaduto. Per questo il cardinale vicario Camillo Ruini ha invitato a essere a San Pietro, spiegando al nostro giornale che l'incontro sarà soltanto una partecipazione alla preghiera dell'Angelus. Ben al di sopra quindi di ogni lettura dell'avvenimento che non rispetti, strumentalizzando, il suo senso religioso e di vicinanza a Benedetto XVI:  per mostrargli che non è solo, ma che con lui c'è un popolo i cui confini sono conosciuti solo da Dio.
Questo Angelus insieme al Papa sarà espressione di un moto del cuore e insieme della ragione. In questo senso, un gesto laico e di libertà - come ha accennato in un'intervista anche il ministro degli Esteri italiano - in quanto mosso da quel principio che può e deve unire credenti e non credenti:  la ragione, diversa ma non opposta al cuore.
La relazione tra cuore e ragione non a caso è al centro del discorso che Benedetto XVI avrebbe tenuto alla Sapienza. Un discorso inevitabilmente oscurato dalle sconcertanti vicende che lo hanno accompagnato ma che merita, eccome, di essere letto, meditato e discusso. Un discorso, ancora una volta, profondamente laico, sul rapporto tra autorità religiosa e mondo profano, che fa appello alla ragionevolezza. Rifacendosi a sant'Agostino che ragiona sul profeta Isaia e a san Tommaso sull'autonomia della filosofia e sulla responsabilità della ragione; cioè a grandi figure della tradizione cristiana, certo, ma anche a pensatori laici, come John Rawls e Jürgen Habermas.
E non vuole imporre la fede Benedetto XVI, ma proporla, con mite fermezza, come sta facendo sin dal primo giorno del suo servizio come vescovo di Roma. E come avevano fatto Paolo VI - chiudendo il Vaticano II e durante tutto il suo pontificato - e poi Giovanni Paolo II nella sua incessante predicazione planetaria, ripetendo senza stancarsi:  uomini del nostro tempo, ascoltateci, dateci fiducia, non chiudetevi, non abbiate paura di Cristo. Quasi a dire:  anche noi siamo ragionevoli e liberi, e dunque, non chiudete la vostra laicità, la vostra ragione a Dio, al Logos - principio razionale che ha creato e regge l'universo - che bussa alla porta di ogni donna e di ogni uomo. E dunque al cuore, che tuttavia non è lontano dalla ragione.



(©L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2008)



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Il senso del laico


Questo termine non è un sinonimo di ateo o miscredente ma implica rispetto per gli altri e libertà da ogni idolatria.


Claudio Magris



Quando, all'università, con alcuni amici studiavamo tedesco, lingua allora non molto diffusa, e alcuni compagni che l'ignoravano ci chiedevano di insegnar loro qualche dolce parolina romantica con cui attaccar bottone alle ragazze tedesche che venivano in Italia, noi suggerivamo loro un paio di termini tutt'altro che galanti e piuttosto irriferibili, con le immaginabili conseguenze sui loro approcci. Questa goliardata, stupidotta come tutte le goliardate, conteneva in sé il dramma della Torre di Babele: quando gli uomini parlano senza capirsi e credono di dire una cosa usando una parola che ne indica una opposta, nascono equivoci, talora drammatici sino alla violenza. Nel penoso autogol in cui si è risolta la gazzarra contro l'invito del Papa all'università di Roma, l'elemento più pacchiano è stato, per l'ennesima volta, l'uso scorretto, distorto e capovolto del termine «laico», che può giustificare un ennesimo, nel mio caso ripetitivo, tentativo di chiarirne il significato.


Laico non vuol dire affatto, come ignorantemente si ripete, l'opposto di credente (o di cattolico) e non indica, di per sé, né un credente né un ateo né un agnostico. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall'adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato.


La laicità non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l'attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista. La cultura— anche cattolica — se è tale è sempre laica, così come la logica — di San Tommaso o di un pensatore ateo — non può non affidarsi a criteri di razionalità e la dimostrazione di un teorema, anche se fatta da un Santo della Chiesa, deve obbedire alle leggi della matematica e non al catechismo.


Una visione religiosa può muovere l'animo a creare una società più giusta, ma il laico sa che essa non può certo tradursi immediatamente in articoli di legge, come vogliono gli aberranti fondamentalisti di ogni specie. Laico è chi conosce il rapporto ma soprattutto la differenza tra il quinto comandamento, che ingiunge di non ammazzare, e l'articolo del codice penale che punisce l'omicidio. Laico — lo diceva Norberto Bobbio, forse il più grande dei laici italiani — è chi si appassiona ai propri «valori caldi» (amore, amicizia, poesia, fede, generoso progetto politico) ma difende i «valori freddi» (la legge, la democrazia, le regole del gioco politico) che soli permettono a tutti di coltivare i propri valori caldi. Un altro grande laico è stato Arturo Carlo Jemolo, maestro di diritto e libertà, cattolico fervente e religiosissimo, difensore strenuo della distinzione fra Stato e Chiesa e duro avversario dell'inaccettabile finanziamento pubblico alla scuola privata — cattolica, ebraica, islamica o domani magari razzista, se alcuni genitori pretenderanno di educare i loro figli in tale credo delirante.


Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze, capacità di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili; di non confondere il pensiero e l'autentico sentimento con la convinzione fanatica e con le viscerali reazioni emotive; di ridere e sorridere anche di ciò che si ama e si continua ad amare; di essere liberi dall'idolatria e dalla dissacrazione, entrambe servili e coatte. Il fondamentalismo intollerante può essere clericale (come lo è stato tante volte, anche con feroce violenza, nei secoli e continua talora, anche se più blandamente, ad esserlo) o faziosamente laicista, altrettanto antilaico.


I bacchettoni che si scandalizzano dei nudisti sono altrettanto poco laici quanto quei nudisti che, anziché spogliarsi legittimamente per il piacere di prendere il sole, lo fanno con l'enfatica presunzione di battersi contro la repressione, di sentirsi piccoli Galilei davanti all'Inquisizione, mai contenti finché qualche tonto prete non cominci a blaterare contro di loro.


Un laico avrebbe diritto di diffidare formalmente la cagnara svoltasi alla Sapienza dal fregiarsi dell'appellativo «laico». È lecito a ciascuno criticare il senato accademico, dire che poteva fare anche scelte migliori: invitare ad esempio il Dalai Lama o Jamaica Kincaid, la grande scrittrice nera di Antigua, ma è al senato, eletto secondo le regole accademiche, che spettava decidere; si possono criticare le sue scelte, come io criticavo le scelte inqualificabili del governo Berlusconi, ma senza pretendere di impedirgliele, visto che purtroppo era stato eletto secondo le regole della democrazia.


Si è detto, in un dibattito televisivo, che il Papa non doveva parlare in quanto la Chiesa si affida a un'altra procedura di percorso e di ricerca rispetto a quella della ricerca scientifica, di cui l'università è tempio. Ma non si trattava di istituire una cattedra di Paleontologia cattolica, ovviamente una scemenza perché la paleontologia non è né atea né cattolica o luterana, bensì di ascoltare un discorso, il quale — a seconda del suo livello intellettuale e culturale, che non si poteva giudicare prima di averlo letto o sentito — poteva arricchire di poco, di molto, di moltissimo o di nulla (come tanti discorsi tenuti all'inaugurazione di anni accademici) l'uditorio. Del resto, se si fosse invitato invece il Dalai Lama — contro il quale giustamente nessuno ha né avrebbe sollevato obiezioni, che è giustamente visto con simpatia e stima per le sue opere, alcune delle quali ho letto con grande profitto — anch'egli avrebbe tenuto un discorso ispirato a una logica diversa da quella della ricerca scientifica occidentale.


Ma anche a questo proposito il laico sente sorgere qualche dubbio. Così come il Vangelo non è il solo testo religioso dell'umanità, ma ci sono pure il Corano, il Dhammapada buddhista e la Bhagavadgita induista, anche la scienza ha metodologie diverse. C'è la fisica e c'è la letteratura, che è pure oggetto di scienza — Literaturwissenschaft, scienza della letteratura, dicono i tedeschi — e la cui indagine si affida ad altri metodi, non necessariamente meno rigorosi ma diversi; la razionalità che presiede all'interpretazione di una poesia di Leopardi è diversa da quella che regola la dimostrazione di un teorema matematico o l'analisi di un periodo o di un fenomeno storico. E all'università si studiano appunto fisica, letteratura, storia e così via. Anche alcuni grandi filosofi hanno insegnato all'università, proponendo la loro concezione filosofica pure a studenti di altre convinzioni; non per questo è stata loro tolta la parola.


Non è il cosa, è il come che fa la musica e anche la libertà e razionalità dell'insegnamento. Ognuno di noi, volente o nolente, anche e soprattutto quando insegna, propone una sua verità, una sua visione delle cose. Come ha scritto un genio laico quale Max Weber, tutto dipende da come presenta la sua verità: è un laico se sa farlo mettendosi in gioco, distinguendo ciò che deriva da dimostrazione o da esperienza verificabile da ciò che è invece solo illazione ancorché convincente, mettendo le carte in tavola, ossia dichiarando a priori le sue convinzioni, scientifiche e filosofiche, affinché gli altri sappiano che forse esse possono influenzare pure inconsciamente la sua ricerca, anche se egli onestamente fa di tutto per evitarlo. Mettere sul tavolo, con questo spirito, un'esperienza e una riflessione teologica può essere un grande arricchimento. Se, invece, si affermano arrogantemente verità date una volta per tutte, si è intolleranti totalitari, clericali.
Non conta se il discorso di Benedetto XVI letto alla Sapienza sia creativo e stimolante oppure rigidamente ingessato oppure — come accade in circostanze ufficiali e retoriche quali le inaugurazioni accademiche — dotto, beneducato e scialbo. So solo che — una volta deciso da chi ne aveva legittimamente la facoltà di invitarlo — un laico poteva anche preferire di andare quel giorno a spasso piuttosto che all'inaugurazione dell'anno accademico (come io ho fatto quasi sempre, ma non per contestare gli oratori), ma non di respingere il discorso prima di ascoltarlo.


Nei confronti di Benedetto XVI è scattato infatti un pregiudizio, assai poco scientifico. Si è detto che è inaccettabile l'opposizione della dottrina cattolica alle teorie di Darwin. Sto dalla parte di Darwin (le cui scoperte si pongono su un altro piano rispetto alla fede) e non di chi lo vorrebbe mettere al bando, come tentò un ministro del precedente governo, anche se la contrapposizione fra creazionismo e teoria della selezione non è più posta in termini rozzi e molte voci della Chiesa, in nome di una concezione del creazionismo più credibile e meno mitica, non sono più su quelle posizioni antidarwiniane. Ma Benedetto Croce criticò Darwin in modo molto più grossolano, rifiutando quella che gli pareva una riduzione dello studio dell'umanità alla zoologia e non essendo peraltro in grado, diversamente dalla Chiesa, di offrire una risposta alternativa alle domande sull'origine dell'uomo, pur sapendo che il Pitecantropo era diverso da suo zio filosofo Bertrando Spaventa. Anche alla matematica negava dignità di scienza, definendola «pseudoconcetto». Se l'invitato fosse stato Benedetto Croce, grande filosofo anche se più antiscientista di Benedetto XVI, si sarebbe fatto altrettanto baccano? Perché si fischia il Papa quando nega il matrimonio degli omosessuali e non si fischiano le ambasciate di quei Paesi arabi, filo- o anti-occidentali, in cui si decapitano gli omosessuali e si lapidano le donne incinte fuori dal matrimonio?
In quella trasmissione televisiva Pannella, oltre ad aver infelicemente accostato i professori protestatari della Sapienza ai professori che rifiutarono il giuramento fascista perdendo la cattedra, il posto e lo stipendio, ha fatto una giusta osservazione, denunciando ingerenze della Chiesa e la frequente supina sudditanza da parte dello Stato e degli organi di informazione nei loro riguardi. Se questo è vero, ed in parte è certo vero, è da laici adoperarsi per combattere quest'ingerenza, per dare alle altre confessioni religiose il pieno diritto all'espressione, per respingere ogni invadenza clericale, insomma per dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, principio laico che, come è noto, è proclamato nel Vangelo.
Ma questa doverosa battaglia per la laicità dello Stato non autorizza l'intolleranza in altra sede, come è accaduto alla Sapienza; se il mio vicino fa schiamazzi notturni, posso denunciarlo, ma non ammaccargli per rivalsa l'automobile.



Una cosa, in tutta questa vicenda balorda, è preoccupante per chi teme la regressione politica del Paese, i rigurgiti clericali e il possibile ritorno del devastante governo precedente. È preoccupante vedere come persone e forze che si dicono e certo si sentono sinceramente democratiche e dovrebbero dunque razionalmente operare tenendo presente la gravità della situazione politica e il pericolo di una regressione, sembrano colte da una febbre autodistruttiva, da un'allegra irresponsabilità, da una spensierata vocazione a una disastrosa sconfitta. [ Il Corriere della Sera, 20 gennaio 2008. QUI ] 


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L’odore del diavolo


Furio Colombo


Vedo un problema per i giornalisti che verranno dopo (alla fine un dopo ci sarà) e dovranno spiegare l’applauso che ha coperto la voce di Clemente Mastella mentre - alla Camera dei Deputati - ha lanciato la sua invettiva contro i giudici. Certo, in quella voce di un uomo che stava dimettendosi da ministro della Giustizia, era umano che vi fosse tensione, rabbia, indignazione, furore. Ciascuno ha diritto di sentirsi innocente e ingiustamente perseguitato, offeso se la famiglia è coinvolta, aggressivo nell’impeto di difendersi. E tutti noi siamo vincolati alla presunzione di innocenza.

Un dignitoso, riservato silenzio sarebbe stato il naturale comportamento di un’istituzione che rappresenta tutto il Paese che l’ha votata. Invece un applauso concitato, tonante, assolutamente compatto ha fatto irruzione come accade solo durante i concerti, quando un solista o un direttore d’orchestra hanno superato le soglie della bravura, e non resta che lo slancio dell’emozione per gridare «Bravo!». Vorrei esserci - in quel dopo che verrà - per capire come quella sequenza incredibile - tutta la Camera dei Deputati che porta in trionfo una persona pur sempre indagata - sarà spiegata in qualche programma tipo La storia siamo noi a cura del nipote di Minoli.

Forse dovranno invitare qualche storico che adesso è alle elementari, sempre che l’Italia, in quel futuro che non vedo vicino, sarà tornato un Paese normale. Altrimenti si continuerà a mentire. Altrimenti si creerà una particolare cerimonia religiosa nella vecchia redazione del Foglio, diventata nel frattempo una chiesa, per celebrare l’anniversario della cacciata del Papa dall’Università La Sapienza. Ci saranno immagini, ripetute all’infinito, dei giovani con la bocca bendata. E sarà spiegabile - perché la storia spesso è alterata - come mai si è potuto dire che un illustre personaggio che rifiuta un invito è un personaggio «cacciato», «censurato», «costretto a tacere», lui che ha parlato, parla e parlerà più di ogni “celebrity” al mondo (a confronto il presidente degli Stati Uniti vive in clausura).

E nessuno ricorderà un curioso dettaglio andato completamente perduto già oggi, figuriamoci nella storia. «Censura» sarebbe stato svilire e cacciare i professori e gli studenti che si sono opposti al Papa- docente. Certo, su di loro è calato il maglio del disprezzo, il vero disprezzo, da parte di tutti, come se invece di esprimere dissenso in un ateneo avessero bestemmiato in chiesa. Infatti il direttore di Radio Maria ha potuto dire pubblicamente - e senza provocare veglie - che «intorno a loro si sente certo l’odore del diavolo».

Poi la rinuncia del Papa a fare lezione è stata rovesciata in «proibizione di parlare», come se la sola condizione per parlare fosse il tripudio universale e preventivo e l’assoluta certezza che chi dissente taccia per sempre. Mi domando se in quel futuro lontano in cui l’Italia tornerà capace di una rappresentazione libera e critica di se stessa, qualcuno avrà conservato la registrazione di una serata di Porta a Porta che pure sarebbe molto importante per gli storici che verranno, per metterli in grado di domandarsi: «come è stato possibile?», e forse per guidare bus di studenti verso ciò che resta dello studio di Bruno Vespa, fra i ruderi di Saxa Rubra. Un esperto - se ci sarà - di questi giorni incomprensibili, potrà indicare: lì sedeva quella sera Marco Pannella, che è stato trattato come un malato di mente dai sostenitori del Papa (tutti i presenti compreso un attivissimo conduttore che incalzava e accusava, e la sola attonita eccezione dei professori atei Odifreddi e Cini, identificabili per l’odore del diavolo) mentre documentava le enormi percentuali di tempo riservate al Papa in tutti i media, circa un terzo delle notizie dal mondo trasmesse agli italiani. È stato a quel punto - ricorderanno gli storici - che un alto prelato del tempo, presumibilmente cappellano della televisione pubblica (o guida spirituale del celebre talk show di quei tempi bui) ha potuto ammonire Pannella, che forse era considerato un reietto e un disturbatore abituale dell’universale consenso: «Noi non abbiamo bisogno di digiunare per ottenere spazio in televisione».

Col tempo si capirà
che la frase aveva un significato chiaro, anche se un po’ sarcastico. Significava: «Non si agiti, Pannella, tanto noi, con la scorta armata e agguerrita dei credenti di carriera, facciamo quello che vogliamo per tutto il tempo che vogliamo».

Invece, sul momento, e in quello studio, è stata accolta come un mite ammonimento pastorale. E la regia si è sempre preoccupata di mandare in onda, oltre alle dure sgridate ai laici di un conduttore evidentemente toccato nel vivo dei suoi sentimenti religiosi, il sorriso di compatimento che l’on. sen. prof. Buttiglione dedicava al folle Pannella (mentre leggeva i dati incontrovertibili del tempo sterminato dedicato dalla televisione di Stato al Papa) al suo sguardo di difesa e diffidenza verso i luciferini docenti del male Odifreddi e Cini che stavano profanando lo studio tv, a quel tempo una sorta di cappella consacrata alle sole verità consentite.

Ma grande sarà, in quel futuro fortunato e lontano, anche la difficoltà di commentare e spiegare il tripudio di una immensa folla accorsa in piazza San Pietro domenica 20 gennaio per dare tutto il sostegno al Papa e ascoltarlo finalmente e liberamente parlare esattamente come accade a grandi folle bus trasportate ogni domenica, ogni mercoledì e in ogni altro santo giorno infrasettimanale, più tutti i telegiornali che Dio ci manda.


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Ma questo è il sogno di un futuro che non è neppure in vista. Stretti fra il sostegno al Papa, che pure dice quando vuole quello che vuole interferendo nella libertà, nelle decisioni e nelle leggi della nostra vita come nessuno, da quando esiste la democrazia e la separazione tra Stato e Chiesa ha mai potuto fare; e la solidarietà a Mastella di cui aspettavamo al Senato la legge che avrebbe vietato ai giornalisti di pubblicare notizie certe, legali, documentate, con l’indicazione della fonte (la celebre legge anti intercettazioni), ci sentiamo un po’ soli, come credo tocchi a coloro che non riescono a dare una ricostruzione logica ai fatti che ci travolgono.

Sono certo che i lettori mi perdoneranno se - in questo presente disorientamento - parlerò d’altro, cercando di dimostrare che questo parlar d’altro ha un suo senso che ci riguarda.

Un film mi ha aiutato ad attraversare, con pensieri, ricordi e riflessioni utili, questi giorni di significati rovesciati, immagini capovolte e fatti noti a tutti però negati. È il film La Signorina Effe di Wilma Labate. Dirò perché. Perché è molto raro che un film rivolto al passato sia a suo modo profetico; perché individua il vero confine fra un prima e un dopo che ha cambiato la storia; perché sembra che riguardi Torino e la Fiat e invece racconta e spiega il mondo, dalla fine del posto di lavoro fisso al crollo dei mutui detti “future" e "subprime"; perché la traccia sentimentale che sembra sovrapporsi a quella sindacale e politica individua in realtà istintivi percorsi di salvezza verso un piccolo "noi" privato mentre finisce qui un "noi" grande come il mondo, la vita degli altri, gli ideali per cui impegnarsi insieme.

Io non so quanto sia consapevole la bravissima Wilma Labate di avere fatto il ritratto di un’epoca, di un grandioso e cupo momento di transizione nel mondo che va molto al di là di una storia d’amore ai cancelli di Mirafiori a Torino.

Quello che accade è che la vicenda collettiva (che riguarda tutti a Torino, tutti a Detroit, tutti a Tokyo, tutti in Svezia, tutti in Inghilterra, persino tutti in India) è l’impetuosa corsa di un fiume che trascina via non solo ogni ostacolo sindacale ma anche le vite private di coloro che nel film sono i protagonisti e nella vita sono coloro che ciascuno di noi ha conosciuto sui posti di lavoro. Il volto della ragazza intelligente e in cerca di una sua vita, contesa fra un ingegnere e un operaio, che in apparenza racconta la storia principale del film, in realtà galleggia fra i detriti dell’inondazione che spazza via ogni argine. Spazza via l’ingegnere, l’operaio, gli operai, i quadri, buona parte dei manager, tutti coloro che credevano di sostenere il nuovo mondo spregiudicato e moderno o quello di prima, oscillante fra il buon lavoro e il sogno di una vita più piena, libera e personale.

Nel film di Wilma Labate - sequenza dopo sequenza di vicende che sembrano solo la storia di qualcuno - va via il lavoro, le sue garanzie, la sua dignità, la sua certezza, gli equilibri faticosamente trovati fra chi investe danaro nell’impresa e chi affitta la vita all’impresa chiamata lavoro. I giocatori-lavoratori hanno creduto di rilanciare ma sono stati prontamente avvertiti che era finita un’epoca, compresi gli impegni presi, le parole date, e le varie immaginazioni e attese per il futuro.

Ciò che accade è insieme privato ed enorme. Trovo strana, e nello stesso tempo esemplare, la coincidenza che ho dovuto notare tra il film appena visto la sera del 16 gennaio, e un articolo che occupava quasi tutta la pagina 6 dell’International Herald Tribune del 17 febbraio dal titolo «Un modo di vivere scompare mentre scompaiono gli operai del Mid West». Mid West vuol dire Chicago, Detroit, Ohio, vaste pianure costellate di fabbriche. Quelle fabbriche chiudono perché il lavoro ormai si fa altrove. L’articolo si conclude con la frase del capo squadra Jeffrey Evans, 49 anni, appena “messo in libertà”: «ho ceduto la mia casa, buttato le chiavi al nuovo proprietario. Ho guidato fino a casa di mia madre, mi sono ubriacato e sono andato a dormire». Questa è solo una di una ventina di storie esemplari, uomini e donne che hanno lavorato bene, lasciati all’improvviso senza lavoro, più giovani e più anziani di Jeffrey Evans. E non sai se tra loro c’è una Signorinaeffe, un operaio e un ingegnere che l’avrebbero voluta e lei che cerca da sola il suo destino. E non sai neppure se sia una fortuna o una disgrazia che il loro lavoro fisso e relativamente ben pagato (14 dollari all’ora) sia durato più a lungo di quello della Signorinaeffe e dei suoi compagni.

Di certo, per tutti coloro che chiamavamo “i lavoratori” è passata l’onda lunga della svalutazione e della irrilevanza. Ti devi domandare come sarà il futuro senza operai o con operai messi continuamente in concorrenza con rumeni e cinesi in una corsa sfrenata verso il lavoro a costo zero. Di certo, sia nel film di Wilma Labate che nelle praterie americane, non trovi leader politici. Nel film italiano, certo, ci sono repertori filmati di un passato (i picchetti con Berlinguer ai cancelli di Mirafiori) la cui fine è stata formalmente certificata. Nell’articolo - che pure è scritto mentre l’America è in piena campagna elettorale - non c’è alcun riferimento politico o sindacale, neppure come rimpianto.

Non sappiamo per chi pensi di votare Jeffrey Evans. Sull’orlo di un evento che cambia il mondo di tutti e certo ha cambiato il suo, lui ci dice che, a 49 anni, è tornato dalla madre, si è ubriacato ed è andato a dormire.

È la stessa intuizione - un po’ sociologica e un po’ poetica - delle ultime scene del film italiano. Solitudine. In quella solitudine non c’è la politica. La politica non dice, non vede, non guida, non sente, non dà un senso al caotico precipitare di eventi. Forse, da noi in Italia, siamo talmente schiacciati tra il Papa e Mastella che il lavoro diventa solo una questione di contratti che non si rinnovano e le morti sul lavoro sono il destino.

Come la spazzatura, riguardano solo coloro che sono coinvolti nella sequenza sgradevole. Resta il vuoto. Resta la solitudine. Restano le notizie inventate o insensate che ci riversano addosso ogni giorno per tenerci occupati. Non è una buona vita. E non è una buona politica. Mi servono, per spiegare quello che ho cercato di dire, due frasi che l’ex senatore Goffredo Bettini ha detto alla Repubblica il 19 gennaio: «Siamo di fronte a un Paese diviso, incarognito, avvelenato. Allora o il Pd ribalta questa situazione o non ha senso che esista. O ridà speranza all’Italia o fallirà nella sua missione».


 


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Intervista al presidente designato del Cnr che ha firmato il testo dei professori contro il Papa
 Sapienza, Maiani fa autocritica: sconfitti tutti noi

 «È vero, ci hanno strumentalizzato»


 DI
PAOLO VIANA 


 « A bbiamo perso tutti». Allarga le braccia, Luciano Maiani. Mostra le foto della 'sua' Sapienza assediata e i titoli dei giornali che hanno spostato le lancette della cronaca agli anni Settanta.
  «Abbiamo perso tutti, non parlo del Papa, ma del mondo accademico, degli studenti, della politica» commenta il presidente designato del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Nomina
bipartisan e di alto livello scientifico, quella dell’ex presidente (tra l’altro) del Cern e dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, ma da quando Maiani ha firmato la lettera dei 67, quella che definiva «incongrua» la scelta di invitare il Papa alla Sapienza, la ratifica è ferma in Parlamento. Oggi Maiani spiega le ragioni per cui considera la protesta contro Ratzinger una sconfitta.

 Perché ha firmato quella lettera?

 Perché era una lettera interna, un normale atto di dialettica tra accademici: un gruppo di docenti esprimeva un dissenso al rettore sull’organizzazione dell’iniziativa. Si voleva far passare un messaggio di autonomia della scienza che è stato completamente travisato, diventando un messaggio di arroganza e intolleranza che naturalmente io non condivido. Siamo stati strumentalizzati.

 Guardi che, a leggere il testo, la vostra opposizione alla presenza del Papa è fin troppo chiara.

 Uno studioso di comunicazione, Mac Luhan, usava dire che il mezzo è messaggio. Bene. Allora chiediamoci perché la lettera di un gruppo di docenti al proprio rettore esca su
Repubblica
due mesi dopo che è stata scritta, quando il rettore ha già deciso e noi abbiamo preso atto della sua decisione. Con quella pubblicazione, due mesi dopo, è stata trasformata in un proclama contro il Papa, proprio per condurci alle barricate. Sono molto dispiaciuto, abbiamo perso tutti: non parlo del Papa ma degli scienziati, degli studenti, delle autorità accademiche, dell’opinione pubblica, del mondo politico...
 Scusi, ma non se l’aspettava, visto il clima?

 Poteva essere l’occasione di una discussione sui
rapporti fede-scienza, invece è stata una bagarre. Io ho firmato nello spirito dell’indipendenza della scienza dalla religione, ma all’interno di un dialogo, quello che, per fare un esempio, ho sperimentato personalmente con gli incontri alla Università Lateranense tra scienziati e teologi, promossi da Piergiorgio Picozza e Sigfrido Boffi. Quello è il clima giusto per uscire da questa situazione.

 Scienza e fede in Italia sono in guerra?

 No, ma si è creata una profonda frattura tra scienziati e no, tra credenti e no, estremamente
preoccupante. La società italiana deve dialogare con società diverse, come quella islamica, e non ci possiamo permettere una frattura così drammatica. Anche perché, ovunque, fisici e scienziati di religioni diverse, atei compresi, lavorano gomito a gomito.

 Crede che sia praticabile un dialogo quando la tensione sale a questi livelli?

 Ho letto il discorso del Papa: la ragione è il punto d’incontro. Deve essere anche il punto di partenza per un tavolo che riunisca scienziati e teologi, dove discutere di quale relazione debba esserci tra scienza e fede nel mondo moderno. Il dialogo deve ripartire da qui e va ricolmata la crepa. Serve un lavoro di sherpa, conferenze a vari livelli, per trovare una piattaforma comune, ad esempio intorno al ruolo della ragione, e stabilire una 'confidenza' tra scienziati e uomini di Chiesa, basata sulla consapevolezza che nessuno vuole prevaricare l’altro. Solo a quel punto il rapporto scienza-fede non darà adito a simili gazzarre su Galileo e Giordano Bruno, due patrimoni dell’umanità che non devono essere usati per contrapporci alla Chiesa.

 Parla lo scienziato o il presidente designato del Cnr?

 Ho collaborato per decenni con scienziati di tutte le opinioni e non ricordo di aver mai avuto un diverbio per motivi confessionali o ideologici. Questo binomio pluralismo­tolleranza deve valere a maggior ragione per chi guida il Cnr, un grande organismo multidisciplinare, multiconfessionale, multiculturale. Ogni discriminazione che privilegiasse una parte sarebbe un pessimo servizio pubblico. [ Avvenire, 20 gennaio 2008 ]



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Io credo ancora al dialogo


Umberto Veronesi

I giovani scienziati dicono no alla Chiesa perché non li rappresenta. Ma trovare un terreno comune si può





La vicenda del no di Papa Ratzinger alla visita a La Sapienza non è uno scandalo a cui gridare, ma un segnale di disagio importante su cui riflettere. Dobbiamo domandarci quali sono le ragioni del gesto ribelle, che denuncia una rottura apparentemente insanabile fra i giovani scienziati e la Chiesa. Le lamentele giovanili riguardano le vicende della vita pubblica degli ultimi anni nel nostro Paese caratterizzate da una crescente ingerenza della Chiesa. E questa può essere la prima motivazione.

Basta pensare al referendum sulla modifica alla legge sulla fecondazione assistita del 2005. Il mondo cattolico ha espresso a pieno diritto il suo pensiero: ciò che è grave, però è che non ha raccomandato ai fedeli di votare sì o no in base alle proprie convinzioni, ma di astenersi dal voto. Questo è stato vissuto allora come un invito a non partecipare alla vita politica e a non esercitare un diritto/dovere fondamentale di ogni cittadino, minando i principi della democrazia.

Una seconda ragione su cui i movimenti giovanili insistono è la posizione antiscientifica sistematicamente assunta dalla Chiesa su alcuni dei risultati più significativi della ricerca mondiale. Mi riferisco allo studio delle cellule staminali embrionali, alle possibilità della diagnosi pre-impianto e in generale alla genetica applicata all'uomo, ma soprattutto all'opposizione all'evoluzionismo. Ogni volta i giovani si domandano se è giusto impedire la ricerca in nome di un'ideologia o una fede. Si chiedono perché il nostro Paese langue nell'immobilismo e perché devono andare all'estero per studiare, se scelgono di realizzarsi in una scienza laica.

La terza ragione, che alla seconda concettualmente si lega, è da ricercare nelle posizioni cosiddette etiche della Chiesa. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un no anch'esso sistematico agli anticoncezionali, all'uso dei preservativi, alla RU 486 per l'interruzione di gravidanza meno traumatica, al testamento biologico e all'autodeterminazione delle persone. Posizioni da rispettare in quanto espressioni coerenti di una fede, ma che invece di rimanere tali, influenzano l'evoluzione giuridica del Paese. Consideriamo anche che questa storia recente si innesta su un passato, nell'ultimo secolo, caratterizzato dalla forte opposizione della Chiesa ad alcune grandi conquiste sociali. Pensiamo al divorzio, all'aborto o addirittura, andando più indietro nel tempo, all'istruzione per tutti e, più recentemente, all'insegnamento di Darwin nelle scuole.

A mio parere la frattura fra Chiesa e mondo scientifico-laico non è irrecuperabile. Esiste una possibilità di dialogo e uno dei compiti della scienza è proprio quello di trovare dei terreni comuni per un'alleanza, come è dichiarato nella Carta di Venezia, il documento sottoscritto dai partecipanti alla prima Conferenza mondiale sul Futuro della scienza, promossa dalla fondazione che porta il mio nome. La Chiesa operante, quella che si batte contro la povertà, la fame, la pena capitale, si impegna in campi comuni alla scienza ed è animata dallo stesso spirito umanitario.

Credo, d'altro canto, che la Chiesa da parte sua debba rinnovarsi nei rapporti con la vita sociale e debba rivisitare i fondamenti dei suoi insegnamenti morali, aggiornandoli in base ai nuovi bisogni dei giovani. Per la mia amicizia personale con molti esponenti del clero, penso anche che debba aprire un dibattito sulle proprie regole interne: sulla proibizione al matrimonio dei sacerdoti, che crea le condizioni favorevoli per la pedofilia, e sul sacerdozio femminile, senza il quale la Chiesa si dà un mantello di maschilismo che certo non aiuta il suo contatto con le nuove generazioni.



L'Espresso, 17 gennaio 2008