venerdì 29 agosto 2003

27.08.2003



Martin Luther King il Sogno Spezzato


di Ariel Dorfman


Lontano, ero lontano da Washington D.C. in quel caldo giorno dell’agosto del 1963 nel quale dalle scale del Lincoln Memorial Martin Luther King pronunciò il suo famoso discorso, ero lontano, mi trovavo in Cile. All’epoca avevo ventuno anni e, come molti altri della mia generazione, ero preso dalla lotta per liberare l’America Latina e il discorso di King che avrebbe esercitato una profonda influenza sulla mia vita passò inosservato, non ricordo nemmeno di essermene accorto. Ricordo invece con feroce precisione il luogo e la data e persino l’ora in cui molti anni dopo ebbi l’occasione di ascoltare per la prima volta quelle parole “ho un sogno”, di udire quella melodiosa voce baritonale, quegli incantamenti, quella certezza emotiva della vittoria. E ricordo quell’occasione così chiaramente perché era il giorno dell’omicidio di Martin Luther King, il 4 aprile 1968, e da quel giorno il suo sogno e la sua morte sono rimasti dolorosamente collegati, uniti nella mia mente allora come oggi, a quaranta anni di distanza, nel mio ricordo.
Ricordo che me ne stavo seduto con mia moglie Angelica e il nostro figlioletto di un anno, Rodrigo, in un soggiorno sulle colline di Berkely, la cittadina universitaria della California, dove eravamo arrivati appena una settimana prima. I nostri ospiti, una famiglia americana che ci aveva generosamente offerto un alloggio temporaneo mentre il nostro appartamento veniva sistemato, avevano acceso il televisore e tutti solennemente guardavamo il telegiornale della sera, probabilmente quello delle 19, probabilmente Walter Cronkite. Ed ecco l’omicidio di Martin Luther King in quell’albergo di Memphis e poi i servizi sui disordini in tutta l’America e finalmente un lungo filmato sul suo discorso “ho un sogno”.
Fu solo allora, penso, che capii o mi resi conto o cominciai a capire chi era stato Martin Luther King, cosa avevamo perso con la sua morte, la leggenda che già si andava dipanando dinanzi ai miei occhi. Negli anni a venire sarei spesso ritornato su quel discorso e in ogni occasione dalla montagna dei suo significati avrei staccato una roccia diversa sulla quale salire per capire il mondo.
Aldilà del mio stupore per l’eloquenza di King quando nel 1968 lo ascoltai per la prima volta, la mia reazione immediata non fu quella di essere ispirato bensì di essere lucido, sconcertato, prossimo alla disperazione. Dopo tutto, al massacro di questo uomo di pace si rispose non impegnandosi a proseguire nel solco della sua predicazione, ma con furiosi tumulti nei bassifondi dell’America nera, dell’America privata dei diritti civili che vendicava il suo leader morto bruciando i ghetti nei quali si sentiva imprigionata e impoverita, usando il fuoco questa volta per proclamare che la non violenza che King aveva auspicato era inutile, che il solo modo per porre fine all’ingiustizia in questo mondo era con la canna del fucile, il solo modo per attirare l’attenzione dei potenti era spaventandoli a morte.
L’omicidio di King quindi fece riemergere brutalmente una volta ancora un interrogativo che aveva tormentato me e moltissimi altri attivisti sul finire degli anni ‘60: quale era il metodo migliore per conseguire un cambiamento radicale?



  • Potevamo concepire una ribellione nel modo in cui l’aveva immaginata Martin Luther King senza abbeverarci alla coppa dell’amarezza e dell’odio, senza trattare i nostri avversari come essi trattavano noi?

  • O forse la strada verso il palazzo della giustizia e il giorno luminoso della fratellanza vuole come inevitabile compagna la violenza, la violenza come inevitabile levatrice della rivoluzione?


Domande alle quali, tornato in Cile, sarei ben presto stato costretto a rispondere, non con confuse riflessioni teoriche, ma nella quotidiana realtà della storia quando Salvador Allende venne eletto presidente nel 1970 e divenimmo il primo paese che tentava di costruire il socialismo con mezzi pacifici. La visione di Allende del cambiamento sociale elaborata nell’arco di decenni di lotte e riflessioni, era analoga a quella di King pur avendo i due origini culturali e politiche molto diverse. Allende, ad esempio, che non era affatto religioso, non avrebbe convenuto con l’affermazione di Martin Luther King che alla forza fisica bisogna rispondere solo con la forza d’animo, ma avrebbe preferito parlare di forza dell’organizzazione sociale. In un momento in cui molti in America Latina erano abbagliati dalla lotta armata proposta da Fidel Castro e Che Guevara, fu la straordinaria impresa di Allende ad immaginare come inestricabilmente connesse le due ricerche della nostra epoca, la ricerca di più democrazia e di più diritti civili, da un lato, e la ricerca parallela, dall’altro, di giustizia sociale e di potere economico per i diseredati della terra.


E il destino di Allende avrebbe richiamato il destino di Martin Luther King quando Allende scelse di morire tre anni dopo. Sì, l’11 settembre 1973, a quasi dieci anni dal discorso “ho un sogno” di King a Washington, Allende scelse di morire difendendo il suo sogno, promettendoci nel suo ultimo discorso che


più presto che tardi, mas semprano que tarde, sarebbe arrivato il giorno in cui le donne e gli uomini liberi del Cile avrebbero camminato per las amplias alamedas, i grandi viali pieni di alberi, verso una società migliore.
Fu nel periodo immediatamente successivo a quella terribile sconfitta, mentre osservavamo i potenti del Cile imporre a noi il terrore che non avevamo voluto impiegare contro di loro, fu allora, mentre alla nostra non violenza si contrapponevano le esecuzioni e la tortura e le sparizioni, fu solo allora, dopo il colpo di Stato militare del 1973, che cominciai per la prima volta a sentirmi in comunione con Martin Luther King, che il suo discorso sulle scale del Lincoln Memorial prese a perseguitarmi e a pormi delle domande. Era come se fossi andato in un esilio che sarebbe durato molti anni e la voce e il messaggio di King cominciarono a penetrare pienamente, parola per parola, nella mia vita.


Se mai c’è stata una situazione in cui la violenza sarebbe stata giustificata, sarebbe stato, dopo tutto, contro la giunta cilena. Pinochet e i suoi generali avevano rovesciato un governo costituzionale e uccidevano e perseguitavano cittadini il cui peccato mortale era stato quello di immaginare un mondo dove non è necessario massacrare i propri avversari per consentire alle acque della giustizia di scorrere.


Eppure molto saggiamente, quasi istintivamente, la resistenza cilena imboccò una strada diversa: assumere lentamente, risolutamente, pericolosamente il controllo della superficie del paese, isolare la dittatura all’interno e all’esterno del Cile, rendere il Cile ingovernabile con la disobbedienza civile. Una linea non completamente diversa dalla strategia che il movimento dei diritti civili aveva abbracciato negli Stati Uniti. Ed infatti non mi sono mai sentito più vicino a Martin Luther King quanto durante i diciassette anni che ci vollero per liberare il Cile dalla sua dittatura. Le sue parole ai militanti che si accalcarono a Washington D.C. nel 1963 e che li invitavano a non perdere la fede, risuonavano dentro di me, confortavano il mio cuore triste. Parlava profeticamente a me, a noi quando disse: “Non dimentico che alcuni di voi sono giunti qui dopo grandi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere”. Parlando a noi il dottor King parlava a me quando tuonava: “Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà vi ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa”. Capiva che più difficile di andare alla prima protesta era svegliarsi il giorno dopo e andare alla protesta successiva e poi ancora a quella dopo, il quotidiano macinare di piccoli atti che possono portare a grandi e letali conseguenze. I cani e gli sceriffi dell’Alabama e del Mississippi erano vivi e vegeti nelle strade di Santiago e Valparaiso così come lo spirito che aveva incoraggiato uomini e donne e bambini inermi a farsi falciare, percuotere, bombardare, perseguitare continuando ad opporsi agli oppressori con le sole armi disponibili: la sofferenza dei loro corpi e la convinzione che nulla poteva farli indietreggiare.


E proprio come i neri negli Stati Uniti, anche in Cile cantavamo per le strade delle città che ci erano state rubate. Non gli spiritual in quanto ogni terra ha i suoi canti. In Cile non facevamo che cantare l’Ode alla Gioia dalla Nona sinfonia di Beethoven, la speranza che sarebbe arrivato un giorno in cui tutti gli uomini sarebbero stati fratelli.



Perché cantavamo? Per farci coraggio, naturalmente. Ma non solo per questo, non solo per questo. In Cile cantavamo e ci opponevamo agli idranti e ai gas lacrimogeni e ai manganelli perché sapevamo che c’era chi stava guardando. Anche in questo seguivamo gli insegnamenti astuti, consapevoli dell’importanza dei media di Martin Luther King: che lo scontro impari tra lo Stato di polizia e la gente aveva dei testimoni, veniva fotografato, trasmesso ad altri occhi. Nel caso del profondo sud degli Stati Uniti, gli spettatori erano la maggioranza degli americani, mentre in quell’altra lotta anni dopo, nel profondo sud del Cile, il quotidiano spettacolo di uomini e donne pacifici contro i quali veniva esercitata la repressione ad opera degli agenti del terrore aveva per obiettivo le forze nazionali e internazionali di cui avevano bisogno per sopravvivere Pinochet e la sua dittatura. La tattica funzionò, naturalmente, perché


capimmo, come già Martin Luther King e Gandhi prima di noi, che i nostri avversari potevano essere influenzati e svergognati dall’opinione pubblica, potevano in realtà essere persino costretti ad abbandonare il potere.


Così fu sconfitta la segregazione nel sud degli Stati Uniti, così il popolo cileno sconfisse Pinochet con un plebiscito nel 1988 che port alla democrazia nel 1990, questa è la storia della caduta delle tirannie in Iran e in Polonia e nelle Filippine.


Non di meno analoghe lotte di liberazione contro il regime dell’apartheid in Sud Africa o l’autocrazia omicida in Nicaragua o i sanguinari Khmer rossi in Cambogia hanno dimostrato che le parole premonitrici di King sulla non violenza non potevano essere meccanicamente applicate ad ogni situazione.



E oggi? Quando torno a quel discorso che sentii per la prima volta venticinque anni fa, il giorno in cui King morì, c’è un messaggio per me, per noi, qualcosa che abbiamo bisogno di ascoltare ancora come se udissimo quelle parole per la prima volta?



Cosa direbbe Martin Luther King se vedesse cosa è diventato il suo Paese?


Se potesse vedere come il terrore e la morte abbattutisi su New York e Washington l’11 settembre 2001 hanno trasformato la sua gente in una nazione spaventata, pronta a smettere di sognare, pronta a sacrificare le sue libertà sull’altare della sicurezza?


Cosa direbbe se potesse osservare come quella paura è stata manipolata per giustificare l’invasione di una terra straniera, l’occupazione di una terra contro la volontà del suo stesso popolo? Quale alternativa avrebbe consigliato per liberarsi di un tiranno come Saddam Hussein?


E come reagirebbe alla dottrina Bush che afferma che alcune persone di questo pianeta, gli americani per essere precisi, hanno più diritti degli altri cittadini del mondo,


cosa direbbe se vedesse i suoi concittadini proclamare che a causa del loro dolore e della loro potenza economia e militare possono fare ciò che vogliono, infischiarsene del diritto internazionale, denunciare i trattati nucleari, ingannare e inquinare il mondo?


Li ammonirebbe che questa arroganza non può restare impunita?


A quanti si oppongono a queste politiche all’interno degli Stati Uniti direbbe di resistere e di contarsi, di marciare, di non lasciarsi mai andare alla disperazione?
Sono convinto che ripeterebbe alcune delle parole pronunciate in quel lontano giorno d’agosto del 1963 all’ombra della statua di Abraham Lincoln, sono persuaso che ribadirebbe la sua fede nel suo paese e quanto profondamente il suo sogno è radicato nel sogno americano, che a dispetto delle difficoltà e delle frustrazioni del momento il suo sogno è ancora vivo e che il suo paese risorgerà e terrà fede all’autentico significato del suo credo:


“crediamo che queste verità siano evidenti:


che tutti gli uomini sono creati uguali”.


Speriamo che abbia ragione. Speriamo e preghiamo, per il suo e il nostro bene, che la fede nel suo paese non era mal riposta e che a quaranta anni di distanza i suoi compatrioti presteranno ancora una volta ascolto alla sua voce decisa e gentile che li invoca da oltre la morte e da oltre la paura, che chiama noi tutti a batterci uniti per la libertà e la giustizia. 



Lo scrittore cileno Ariel Dorfman ha appena pubblicato “Exorcising Terror: The Long Goodbye to General Augusto Pinochet”
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto - da L'UNITA' 29 Agosto 2003





















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