Nel mito greco Mnemosyne, la memoria, è la madre delle Muse ossia di tutte le arti, di ciò che dà forma e senso alla vita, proteggendola dal nulla e dall’oblio.
Nella tradizione ebraica, uno dei più profondi attributi di Dio è quello di ricordare «fino alla terza, alla quarta, alla centesima generazione». Questa memoria divina è insieme giustizia e carità, rifiuto di lasciar cadere in prescrizione il male e riscatto delle sue vittime. L’atto del ricordo, in tal senso, è carità e giustizia per le vittime del male e del dolore, individui e popoli scomparsi talora anche in silenzio e nell’oscurità, schiacciati dal «terribile potere di annientamento» della Storia universale, come la chiamava Nietzsche.
La memoria è resistenza a questa violenza; essa significa andare alla ricerca dei deboli calpestati e cancellati, di quella «pietra rifiutata dai costruttori» di cui il Signore, come sta scritto, farà la pietra angolare della sua casa, ma che giace sepolta sotto le rovine e i rifiuti e va ritrovata e custodita con amore e rispetto. La memoria è il senso della coralità di tutti gli uomini, anche di quelli in quel momento non visibili, che essa scopre presenti, e dar vita agli assenti, come ha scritto Lorenzo Mondo, è un atto d’amore.
Le persone, i valori, gli affetti, le passioni sono ; anche se legate a un preciso momento temporale, non appartengono soltanto ad esso, così come una poesia scritta in un certo giorno di un certo anno non appartiene soltanto a quella data, bensì al presente della vita e continua a esistere e a crescere. Questo ricordare, strettamente connesso con l’amore, ha ben poco a che vedere con la memoria meccanica, con la capacità di registrare e ritenere molti dati, e con la querula nostalgia sentimentale del passato, trasfigurato e falsificato come se fosse stato migliore del presente, anche se è stato invece così spesso orribile e pieno di sciagure.
La memoria è il fondamento di ogni identità, individuale e collettiva, che si basa sulla libera conoscenza di se stessi, anche delle proprie contraddizioni e carenze, e non sulla rimozione, che crea paura e aggressività. Custode e testimone, il ricordo è pure garanzia di libertà; non a caso le dittature cercano di alterare o distruggere la memoria storica.
I nazionalismi la falsificano e la violentano, il totalitarismo soft di tanti mezzi di comunicazione la cancella, con un’insidiosa violenza che scava paurosi abissi non solo fra le generazioni, ma fra una classe e l’altra di scuola, e crea individui inconsapevoli della complessità della storia, incapaci di essere semplici come colombe e avveduti come serpenti, come vuole il Vangelo, e per ciò esposti all’inganno, alla manipolazione, alla servitù.
Dedicare ufficialmente alcune giornate al ricordo delle vittime di genocidi, massacri, guerre e altre delittuose catastrofi non basta, così come non basta portare un fiore una volta all’anno su una tomba, ma è un gesto simbolico che, se non è svuotato e ridotto a mera convenzione retorica, ha l’autentico valore e significato di esprimere la presa di coscienza di un’intera comunità nazionale e statale.
La proposta di ricordare insieme - ossia di equiparare - tutte le vittime dei diversi totalitarismi e delle violenze perpetrate anche da regimi e governi non totalitari ha destato discussioni e proteste, talora ingiuste e talora giustificate. Ingiuste, se si vuole far differenza tra le vittime, come se alcune avessero più diritto di altre di non morire, di non essere assassinate e dimenticate. Le vittime di Auschwitz esigono, individualmente, di essere ricordate altrettanto quanto le vittime dei gulag staliniani, delle foibe titoiste, del lager di Arbe, in Croazia, e di altri in cui noi italiani abbiamo imitato, contro gli slavi, con zelo i nazisti.
Se qualcuno vuole escludere dalla pietas e dal ricordo l’una o l’altra schiera di vittime, ha torto. E non bisogna scordare che crimini li hanno compiuti non solo i regimi tirannici, ma pure quelli democratici, responsabili di ciniche ecatombi nel passato più lontano e più recente, massacri che - come quelli che anche adesso si svolgono in tanti Paesi, anche non additati quali Stati canaglia e ignorati dalle televisioni - sono tante volte passati e passano sotto silenzio, perché il grido di quelle vittime non ha la forza di giungere fino a noi, soffocato da un accorto rumore mediatico assordante.
Ma l’eguaglianza delle vittime non significa eguaglianza delle cause per cui sono morte. I tedeschi morti nel bestiale bombardamento di Dresda non sono meno degni di memoria e rispetto dei caduti americani e inglesi, ma ciò non può eliminare, in una conciliazione truffaldina in cui come nella notte tutte le vacche sono nere, la sostanziale differenza tra l'Inghilterra di Churchill e la Germania di Hitler.
Le vittime delle foibe - alcune delle quali, antifascisti militanti, sono cadute per mano di coloro che consideravano amici e alleati nella lotta contro il nazifascismo - non valgono meno delle vittime della Shoah. Ma non si possono storicamente equiparare le foibe alla Shoah e non solo e non tanto per il divario numerico, ma perché in un caso si è trattato del pianificato progetto di sterminio di un popolo intero e nell’altro di una violenza nazionalista-sociale-ideologica, simile a tanti altri episodi accaduti in analoghe circostanze di guerra e di collasso civile, ma non per questo certo meno orribile o più giustificabile.
Perché il lungo silenzio sulle foibe? Chiedono molti che avrebbero potuto e dovuto parlarne. Se i comunisti, come si è detto, hanno cercato di soffocare la loro memoria per interesse politico di parte, gli altri, gli anticomunisti - si è osservato qualche giorno fa in una trasmissione televisiva dedicata all’argomento - hanno taciuto anche perché era interesse dell’Occidente, in quegli anni, tenersi buono Tito nella sua opposizione a Mosca e nella sua leadership dei Paesi non allineati. È certo un bene che l’Occidente abbia vinto, ma non era altrettanto cinico, rispetto a quei morti, consegnarli alla violenza dell’oblio in nome del proprio interesse politico?
Ma il silenzio era calato su di loro - come sull’esodo istriano - anche per altre ragioni: per indifferenza, per l’abitudine di concentrare il proprio interesse soltanto sugli argomenti del giorno imposti da un’informazione sempre più concentrata su se stessa, che ha insegnato a parlare solo di ciò di cui si parla, a leggere solo ciò che viene vistosamente imposto e a dimenticare che esistono altri libri e altri giornali, in una crescente gara dei mezzi di comunicazione a diventare sempre più simili e a dire tutti le stesse cose, a parlare tutti dello stesso libro, in un apparente pluralismo che produce gli stessi effetti di un rigido monopolio ideologico.
Come ricordava l’altra sera Anna Maria Mori, capitava, in quegli anni, di incontrare gente, anche di media cultura, che chiedeva se Trieste era in Jugoslavia e diceva «Belgrado» e non «Beograd», ma «Pula» e non «Pola». Non credo fosse colpa dei comunisti, ma dell’andazzo culturale del Paese e dunque della sua classe dirigente, che non era comunista, come, contrariamente a quanto si dice, non lo era la maggior parte dell’editoria, responsabile dei testi scolastici, né dell’informazione. In quegli stessi anni in cui il dramma dell’Istria era dimenticato, gli italiani potevano ascoltare tanta propaganda sui comunisti trinariciuti e autori di ogni nefandezza.
C’è tuttavia pure un ricordo negativo che pretende di legare irreparabilmente gli uomini al passato, di pietrificarli come il volto di Medusa. Una memoria rancorosa che incatena l’animo al ricordo bruciante di tutti i torti subiti, pure lontani, magari vecchi di secoli, e alla necessità di presentare il loro conto anche a eredi o presunti eredi che non ne hanno colpa alcuna, di vendicarli indiscriminatamente, perpetuando così la catena di violenze e vendette, alimentando nuove tragedie.
In quegli anni di oblio, il ricordo delle foibe - e, più in generale, dell’esodo istriano - veniva spesso alimentato (e sfruttato politicamente dall’estrema destra) con uno spirito di risentimento e di vendetta che poteva essere comprensibile in chi aveva subito gravi o gravissimi torti, ma rinfocolava quel generico, indiscriminato odio o disprezzo antislavo che era stato una delle origini del dramma provocato e subito dall’Italia ai suoi confini orientali.
Ricordare, aver sempre presente Auschwitz non significa coltivare l’odio per i tedeschi di oggi.
Ancor più inammissibile e sacrilego sarebbe se gli italiani e gli slavi usassero i loro morti per attizzare odi reciproci, in una terra il cui senso - come hanno visto i grandi scrittori triestini - è la compresenza di culture, l’oppressione o scomparsa di una delle quali significa una mutilazione per tutti.
La rappresentazione più autentica di quel mondo l’hanno data in questo senso, da parte italiana, coloro che - come Tomizza, Madieri, Miglia, per citare solo alcuni - hanno narrato senza titubanza e senza regressivi rancori il dramma che l’ha lacerato, ponendo così le premesse, come altri scrittori da parte slava, per una memoria non più divisa ma condivisa.
Il ricordo creativo è libertà, anche dall’ossessione dei luttuosi eventi ricordati: «Getta dietro di te il tuo dolore e sarai libero», dice Rebecca nel Rosmersholm di Ibsen. La memoria guarda avanti; si porta con sé il passato, ma per salvarlo, come si raccolgono i feriti e i caduti rimasti indietro, per portarlo in quella patria, in quella casa natale che ognuno, dice Bloch, crede nella sua nostalgia di vedere nell’infanzia e che si trova invece nel futuro, alla fine del viaggio.
dal Corriere - 10 febbraio 2005
Claudio Magris mi ha fatto piangere di commozione. Nel suo pensiero ho trovato risonanze profonde del mio sentimento e della mia memoria, e tutte quelle cose che non sarei stata in grado di raccogliere in un discorso di siffatta completezza, lucidità e onestà.
Ha avuto anche il merito di ricordare scrittori di valore che hanno sviscerato quella complessità dolorosa in opere che sarebbe indispensabile conoscere per comprendere come le persone vissero quegli accadimenti.
Con dolce malinconia ricordo la nobiltà di Fulvio Tomizza che ho conosciuto e avuto per amico. I suoi romanzi sono stati nutrimento essenziale per la mia formazione, e per la memoria storica e per l'analisi introspettiva e per la grandezza letteraria. I suoi romanzi sono stati nutrimento essenziale per la mia formazione, e per la memoria storica e per l'analisi introspettiva e per la grandezza letteraria. "Ciò che ho visto e vissuto" è l'epigrafe che Fulvio Tomizza ha posto all'inizio de "La miglior vita", una delle opere più belle che abbia letto. E non mi fa velo l'immenso affetto per l'amico.
Un altro articolo di Claudio Magris, trovato in PeaceReporter oggi 11 Febbraio 2005.
Italia - 10.2.2005 |
La giornate delle foibe |
Pubblichiamo un intervento di Claudio Magris |
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Le tragedie «usate» da un intervento di Claudio Magris* La Resistenza e le foibe sono delle realtà, ognuna delle quali va ricordata di per sé, quando è il momento, senza il ridicolo bisogno quasi di correggere il ricordo dell’una col ricordo delle altre o viceversa. Quando diciamo che i Gulag staliniani erano un orrore, è grottesco precipitarsi a dire, nello stesso momento, che i Lager erano mostruosi o viceversa, come se ciò non fosse ovvio. Inoltre, c’è differenza fra il disegno sistematico di sterminio propugnato e praticato dal nazismo, del quale la Risiera è un episodio, e orribili violenze nazionalistiche scatenate alla fine di una guerra. È blasfemo, è indice di cattiva coscienza usare le tragedie delle vittime per fini politici attuali. Quando, molti anni fa, scrissi sul Corriere dei crimini delle foibe, nessuno dei tanti che oggi se ne sciacquano la bocca vi prestò la minima attenzione, perché in quel momento quei crimini e le loro vittime non servivano ad alcuna propaganda politica. Una cosa è certa: se oggi possiamo tutti parlare liberamente di Risiera e di foibe, esprimendo le opinioni politiche più diverse e contrastanti, lo dobbiamo al 25 aprile, alla Resistenza, alla Liberazione che ha ridato a tutti i cittadini, di destra, di centro e di sinistra, la democrazia e la libertà. Deve averlo istintivamente capito, pur forse senza rendersene pienamente conto, anche chi a Trieste ha proposto di dichiarare il 25 aprile festa non della Resistenza, ma della conciliazione di tutti gli italiani: la festa di tutti - del Paese, della nazione, dell’Italia restituita a se stessa e a tutti i suoi cittadini, di centro, di destra e di sinistra - non può certo essere la marcia su Roma, bensì la Resistenza e la Liberazione antifascista. Claudio Magris, giornalista, ha pubblicato questo intervento il 5maggio2002 |