giovedì 24 febbraio 2005


Forum del Movimento Contro la Guerra

Firenze 25/26/27 Febbraio


25 febbraio 2005




Forum del Movimento Contro la Guerra


Firenze 25/26/27 Febbraio
Facoltà di Architettura
P.za Ghiberti 27



Presentazione:



Il Forum del Movimento contro la guerra si pone la finalità di rafforzare il movimento per la pace, contro gli assetti di potere e le politiche economiche che sostengono la guerra, facilitando il passaggio a una fase nuova di campagne locali e nazionali, di costruzione di reti, di coordinamento di lotte reali e vertenze. I lavori del Forum vogliono coinvolgere le realtà diffuse, le esperienze di base locali e le realtà nazionali, singole e singoli, interessate/i all’approfondimento e alla partecipazione.


I presupposti di ricerca di unità da valorizzare nello svolgimento del Forum sono inseparabili da quelli di radicalità.


Il Forum del Movimento contro la guerra si pone anche l’obiettivo di esprimersi con una posizione di estrema chiarezza sulla guerra preventiva e permanente, sul ritiro di tutte le forze di occupazione dall’Iraq e dalla Palestina, sulla ricerca e attuazione di processi di pace nelle aree di conflitto dell’Africa, dell’America Latina, dell’Asia, del Caucaso…, sulle violazioni e sulle minacce di aggressione che incombono su tante aree e tanti popoli, sui diritti delle minoranze oppresse.


Una strategia di pace che sia un’uscita risolutiva dal sistema di guerra e da ogni forma di militarizzazione del territorio e delle relazioni internazionali, che costruisca un’alternativa concreta, basata sulla diplomazia dal basso, sull’interposizione non violenta, sulla cooperazione e convivenza tra i popoli.


Il Forum del Movimento contro la guerra
promosso dal
COMITATO FIORENTINO FERMIAMO LA GUERRA
e dal
TAVOLO BASTAGUERRA NAZIONALE DEL FORUM SOCIALE EUROPEO
in collaborazione con
esperti, espressioni pacifiste ed antimilitariste, giornalisti, giuristi, economisti, docenti, parlamentari e rappresentanti di istituzioni che si siano dichiarati incondizionatamente contro la guerra ed impegnati in tal senso. ... continua: http://italy.peacelink.org/pace/articles/art_9529.html


In effetti l'accusa che viene mossa ai 'pacifisti' riguarda la mancanza di idee e proposte concrete per costruire una strategia che porti gradualmente all'eliminazione della guerra. Non è del tutto vero,  anzi tentativi di soluzione pacifica dei conflitti non sono mancati nella storia recente. Penso all'India di Gandhi e al Sud Africa di Mandela e del vescovo Tutu. Il problema di inventare tecniche, azioni, strategie anti-guerra che vadano oltre le buone intenzioni deve essere affrontato.


mercoledì 23 febbraio 2005

In attesa dei fatti 

Il tour di Bush in Europa non può mancare nel mio blog-diario. Per me è stato un trauma non lieve assistere alla sua rielezione. Ora tutto il mondo deve fare i conti con altri quattro anni di politica messianica neocon.

Ho letto vari articoli e resoconti, ma non ci ho ricavato granché. Le mie attese e i miei dubbi, però, li ho trovati espressi in un'intervista a Martin Schulz, il presidente del Gruppo del Pse al Parlamento europeo, che "ha consegnato a "Der Spiegel" una valutazione secca su quello che dovrebbe essere il nuovo corso delle relazioni tra Europa e Usa.

E, in una dichiarazione, pensata insieme ad uno dei suoi vice, l'olandese Jan Marinus Wiersma, ricorda che l'Ue è «area di pace e stabilità a cui vogliono aderire un crescente numero di Paesi» mentre gli Stati uniti «perdono amici e incontrano una crescente resistenza su scala globale».

Ed è anche arrabbiato, Schulz, per il fatto che il presidente Usa, pur ripetutamente invitato, non ha accettato di andare al Parlamento europeo. Il cui presidente, Borrell, ha dovuto faticare le sette proverbiali camice per poter partecipare oggi al summit, accanto ai leader dell'Unione."

Non è proprio un caloroso benvenuto, on. Schulz...
«Per carità. Tutto il nostro rispetto per l'ospite gradito. La campagna di charme che ha preceduto il suo arrivo è da salutare con favore. Dopo quanto è accaduto nei rapporti transatlantici, si tratta di un passo importante. Ma solo un primo passo. Certamente è positivo che il presidente Bush, dopo la rielezione, compia la sua prima visita in Europa. Non nego questo».
Però?
«Però, io aspetto i fatti. Mi interessano i contenuti. Sinora il messaggio degli Usa, anzi di Donald Rumsfeld, ci è stato consegnato con il sorriso di Condoleeza Rice. Quanto alla sostanza, non mi pare che sia cambiato molto».
Prendiamo il cancelliere Schroeder. Sembra esserci una forte disponibilità alla collaborazione…
«Certo. Il cancelliere, per esempio, ha messo sul tappeto la necessità di una riforma della Nato che, così com'è adesso, non va più bene. Le riforme da fare sono tante: c'è l'esigenza di mutare le procedura di decisione sul piano internazionale. Parlo dell'Onu. Ma voglio dire con estrema chiarezza che, per noi europei, il presidente Bush non ha escluso che vi possano essere altre azioni preventive di carattere militare. Noi non siamo d'accordo.
Non lo fummo per l'Iraq, non lo saremo per altre, eventuali e sciagurate iniziative simili».
Lei pensa all'Iran? Arrivato a Bruxelles, Bush ha rivolto dei forti moniti a Iran e Siria.
«Guardi, la politica della guerra preventiva non appartiene agli europei. Non è la linea dell'Unione. E questo il presidente lo sa bene. Poi, esistono altri temi che gli europei pongono all'attenzione degli Usa. Vogliamo parlare o no della firma americana sotto il protocollo di Kyoto? L'Unione lo chiede ufficialmente alla Casa Bianca. Vogliamo affrontare o no il riconoscimento della Corte penale internazionale? Bush assuma un impegno per la firma. Questo gli viene chiesto. E per la riforma dell'Onu sarebbe davvero auspicabile un ruolo costruttivo dell'amministrazione americana. Dunque, è bene che gli europei si confrontino con gli Usa ma deve esser chiaro che non possono accettare un approccio del tipo: noi americani diamo l'indirizzo e voi seguite».
Lei pensa che ci si trovi ancora a questo punto?
«Io penso che gli Usa debbano accettare e rispettare le opinioni degli europei».
Dunque, grande attenzione sulla visita e sui contenuti ma senza facili entusiasmi?
«Ripeto: siamo di fronte ad un primo, nuovo passo nelle relazioni transatlantiche. Ma resta molto su cui discutere e confrontarsi. Sulla strategia della guerra preventiva noi non possiamo né dobbiamo cambiare opinione. Vedo che anche il governo della Gran Bretagna si è associato a questa posizione dell'Unione europea. Mi pare un fatto molto importante che aiuterà nel rapporto con Washington. Sono certo che ciò servirà anche a far progredire gli sforzi della "trojka" europea che sta negoziando con le autorità di Teheran sul nucleare. Gli europei dicono agli Usa che non ci sarebbe alcuna giustificazione per eventuali colpi di forza. Al contrario, l'amministrazione Usa dovrebbe sostenere l'azione degli europei, incoraggiarla piuttosto che osteggiarla. È vero, come dice Bush, che Usa e Europa devono rappresentare i pilastri del mondo. Ma il partenariato si traduce in stessi diritti e stessi livelli. Due livelli che devono accettarsi reciprocamente».
Tuttavia, quando Condoleeza Rice, qualche giorno fa, è arrivata in avanscoperta in Europa, la via dei rapporti Ue-Usa è risultata più sgombra. O si è trattato solo di un'impressione?
«Non v'è dubbio che l'atmosfera è migliorata, si è visto un po' più di sereno. Molto bene. Tuttavia, tutti sanno che la politica non si decide sulla base dell'ambiente più o meno sereno. Può aiutare, senz'altro. Però sono i contenuti del negoziato a risultare decisivi. Ed io non vedo in quale maniera sia cambiata la posizione della prima amministrazione Bush. Per me, sino a prova contraria, il messaggio resta quello di Rumsfeld. E non quello affidato al sorriso della signora Rice».

Fonte: L'Unità, 21 febbraio 2005 -
http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=ARKINT&TOPIC_TIPO=I&TOPIC_ID=41019

Nel pomeriggio

Per quanto riguarda casa nostra, la nostra Italia, ho letto un post molto interessante da Masso57:

http://blueriver.splinder.com/, 23 febbraio 2005

e ancora, mi dispiace di non averci pensato prima

ATTENZIONE!!!

STANNO CERCANDO DI FAR PASSARE IN SORDINA LA SALVAPREVITI

QUESTA NOTTE E DOMANI LA COMMISSIONE GIUSTIZIA
SI RIUNISCE PER DISCUTERE LA SALVAPREVITI E LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA.

LA PROSSIMA SETTIMANA TOCCHERA' ALLA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE!!

CAMBIANO OGNI MINUTO L'ORDINE DEL GIORNO PERCHE' SANNO CHE LA SALVAPREVITI E' UNA LEGGE IMPOPOLARE
CHE POTREBBE NUOCERGLI IN PERIODO DI CAMPAGNA ELETTORALE....

NON LASCIAMOLI FARE!!!!

accendiamo i riflettori, facciamoli vergognare!!

23 febbraio a ROMA ore 18 davanti al Senato


portiamo tutti una candela, una torcia, una lampada
per mettere in luce uno scandalo che tentano di far passare nell'ombra


VI PREGHIAMO DI VENIRE NUMEROSI E DI AVVERTIRE PIU' GENTE POSSIBILE

Fonte: http://www.igirotondi.it/


portiamo tutti una candela, una torcia, una lampada
per mettere in luce uno scandalo che tentano di far passare nell'ombra


VI PREGHIAMO DI VENIRE NUMEROSI E DI AVVERTIRE PIU' GENTE POSSIBILE

Fonte: http://www.igirotondi.it/


martedì 22 febbraio 2005








Non accade spesso di leggere un'analisi politica ed economica della situazione in Iraq fatta da un cittadino di quel paese, che in quel paese vive e lavora. In Peacelink ho trovato questo articolo di Hassam Juma'a Awad, che è il segretario generale dell'Iraq's Southern Oil Company Union e presidente della Basra Oil Workers' Union, e quindi suppongo abbia notizie di prima mano ma soprattutto possa darci finalmente un punto di vista iracheno.


Iraq, gli operai petroliferi: "Lasciate il nostro paese"










di Hassam Juma'a Awad da The Guardian


Dal primo giorno dell'invasione, gli operai hanno resistito all'occupazione. "Siamo iracheni, conosciamo il nostro paese, possiamo prenderci cura di noi stessi e ricostruire una nostra società democratica".










Abbiamo vissuto giorni bui sotto la dittatura di Saddam Hussein. Quando il regime è caduto, la gente voleva una nuova vita: una vita senza manette e terrore, una nuova vita dove noi avremmo potuto ricostruire il nostro paese e godere delle nostre ricchezze. Invece le nostre comunità sono state attaccate con agenti chimici e bombe a grappolo e la nostra gente torturata, rapita e uccisa nelle proprie case.

La polizia segreta di Saddam sollevava i pavimenti delle nostre case di notte, le truppe di occupazione irrompono nelle nostre case alla luce del sole. I mass media non fanno vedere nessuna immagine delle devastazioni che hanno ingolfato l'Iraq. I giornalisti che hanno il compito di dire la verità su quello che sta succedendo in Iraq vengono rapiti dai terroristi. Tutto questo al servizio delle forze di occupazione che desiderano eliminare tutti i testimoni dei loro crimini.

I lavoratori dei pozzi petroliferi situati nel sud dell'Iraq si sono organizzati subito dopo che le forze inglesi hanno occupato Bassora. Abbiamo fondato il nostro sindacato Southern Oil Company Union 11 giorni dopo la caduta di Baghdad nell'aprile 2003. Quando le truppe di occupazione si sono ritirate e hanno permesso che l'ospedale, l'università e gli edifici pubblici venissero incendiati e saccheggiati, e loro si sono tenuti il ministero e i campi petroliferi, noi ci siamo resi conto che avevamo a che fare con una forza brutale pronta ad imporre le sue volontà senza nessun riguardo per le sofferenze umane. Dall'inizio non avevamo alcun dubbio sul fatto che gli Stati Uniti e gli alleati fossero venuti per prendere il controllo delle nostre risorse.

Le autorità di occupazione hanno mantenuto le leggi repressive di Saddam inclusa quella del 1987 che ci priva dei diritti basilari dei sindacati, incluso il diritto di sciopero. Oggi non abbiamo nessun riconoscimento ufficiale come sindacato, sebbene abbiamo più di 23.000 membri in 10 diversi impianti di estrazione del petrolio e del gas a Bassora, Amara, Nassiriya e fino la provincia di Anbar. Comunque noi abbiamo la nostra legittimazione dai lavoratori, non dal governo. Noi crediamo che i sindacati devono operare secondo i desideri del governo fino a che la gente sia in grado finalmente di eleggere un governo iracheno indipendente che rappresenti i nostri interessi e non quelli dell'imperialismo americano.

Il nostro sindacato è indipendente da ogni partito politico iracheno. Molti sindacati britannici sembrano essere informati dell'esistenza di un solo sindacato in Iraq, la Federazione Unitaria dei Sindacati Iracheni (IFTU) autorizzata dal regime, il cui presidente Rassim Awadi è deputato del partito del primo ministro iracheno imposto dagli USA Ayad Allawi. La leadership dell'IFTU è divisa tra il partito comunista iracheno, l'intesa nazionale irachena di Allawi ed i suoi satelliti. Infatti ci sono altre due organizzazioni sindacali legate a partiti politici oltre la nostra organizzazione.

Il nostro sindacato ha già dimostrato che può stare contro una delle più potenti compagnie statunitensi, la KBR di Dick Cheney, che ha tentato di togliere posti ai nostri lavoratori con la protezione delle forze di occupazione.

Noi li abbiamo costretti e forzato il loro subappaltatore kuwaitiano, Al Khourafi, a rimpiazzare 1.000 dei 1.200 impiegati che aveva portato con sé con lavoratori iracheni, 70% dei quali oggi sono disoccupati. Noi abbiamo lottato anche contro i salari imposti dal governatore Paul Bremer, che ha imposto che i lavoratori pubblici iracheni devono guadagnare 69.000 ID ($35) al mese, mentre pagano più di 1.000 dollari al giorno a migliaia di mercenari iracheni. Nell'agosto 2003 abbiamo scioperato e fermato l'estrazione del petrolio per tre giorni. Come risultato le autorità di occupazione hanno aumentato i salari ad un minimo di 150.000 ID.

Difendere le risorse del nostro paese l'abbiamo visto come un nostro dovere. Noi rifiutiamo e ci opponeremo a tutti i tentativi di privatizzare la nostra industria estrattiva e le nostre risorse nazionali. Noi consideriamo questa privatizzazione come una forma di neo-colonialismo, un tentativo per imporre un'occupazione economica permanente a seguito dell'occupazione militare.

L'occupazione ha fomentato deliberatamente una divisione settaria tra sunniti e sciiti. Noi non abbiamo mai conosciuto questo tipo di divisione prima d'ora. I nostri matrimoni sono misti e abbiamo vissuto e lavorato insieme. E oggi abbiamo lottato assieme contro questa brutale invasione. Da Falluja a Najaf fino a Sadr City. La resistenza contro le forze di occupazione è un diritto divino degli iracheni e noi come sindacato ci vediamo come parte necessaria di questa resistenza - sebbene vogliamo lottare usando il nostro potere industriale, la nostra forza collettiva come unione e come parte della società civile che ha bisogno di crescere per difendersi sia dalle elitè saddamiste ancora al potere che dall'occupazione straniera del nostro paese.

Bush e Blair devono ricordarsi che coloro i quali hanno votato nelle scorse elezioni irachene sono tanto ostili all'occupazione quanto coloro che l'hanno boicottata. Coloro che affermano di rappresentare la classe lavoratrice irachena, chiedendo alle forze di occupazione di rimanere un po' più a lungo per lottare contro la guerra civile, parlano in realtà solo per se stessi e per la minoranza degli iracheni i cui interessi sono dipendenti dall'occupazione.

Noi come sindacato chiediamo unitariamente il ritiro delle forze di occupazione straniere e delle loro basi militari. Noi non vogliamo un orario preciso, questa è una tattica evasiva. Noi vogliamo risolvere i nostri problemi. Noi siamo iracheni, conosciamo il nostro paese e possiamo prenderci cura di noi stessi. Abbiamo i mezzi, le capacità e le risorse per ricostruire e creare una nostra società democratica.


Fonte: http://www.guardian.co.uk/comment/story/0,,1417222,00.html (18 febbraio 2005)
Tradotto da Chiara Panzera per l'associazione www.peacelink.it



 

lunedì 21 febbraio 2005

A proposito di Giuliana Sgrena:


Lettera aperta a Renato Farina e alla redazione di “Libero”


di  Gianluigi Corbani - 19 Feb 2005


 Cardiff, 19 Febbraio 2005.
Egregio Renato Farina, spettabile Redazione di “Libero”,
"
Faccio riferimento ad un articolo apparso ieri sul vostro giornale riguardo la figura del padre della collega Giuliana Sgrena in stato di sequestro a Baghdad. Il mio nome è Gianluigi Corbani, sono un italiano residente in Gran Bretagna dove lavoro con fatica muovendo i primi passi come freelance nell'ambito televisivo e radiofonico. Normalmente non leggo il vostro giornale perchè le mie opinioni sono molto diverse dalle vostre, il che, mi auguro concordiate, non fa altro che contribuire alla ricchezza di una democrazia".


 


"Tuttavia mi è capitato di leggere il pezzo "Quando sono nei guai si aggrappano al cavaliere" a firma Renato Farina, al quale mi riferisco, in quanto mi è stato inviato tramite la mailing list della redazione di Reporter Associati, una testata on-line con la quale collaboro".


"Volevo sottolinerare brevemente alcuni punti che, indipendentemente dalle diverse opinioni di ognuno, rendono l'articolo indifendibile da un punto di vista giornalistico".


1. "Giuliana Sgrena, come tutti noi, è un essere umano. Una donna che si trova in una situazione obiettivamente tragica. Il padre, mi auguro converrete, a parte affiliazioni politiche che chiunque è libero di ritenere discutibili, si trova in una analoga situazione di angoscia che nessuno si augura di affrontare. Come tali, entrambi meritano il rispetto e il sostegno di ogni altro essere umano".


2. "Oltre a ciò, Giuliana è una giornalista. Esiste una cosa come la solidarietà tra colleghi. Ciò non è solamente un atto formale dovuto, ma un valore assoluto riconosciuto da tutti i giornalisti, specialmente coloro i quali si trovano a lavorare in condizioni difficili e pericolose, come Giuliana. A differenza di altri, questa nozione non è giunta alle mie orecchie solo per sentito dire, ma l'ho sperimentata in prima persona attraverso il mio lavoro".


3. "Indipendentemente dalla parte politica momentaneamente al potere in un Paese, è un obbligo istituzionale, legale e morale di un governo, riconosciuto e sancito dalla legislazione internazionale, quello di occuparsi della sicurezza e della sorte di ogni concittadino, ovunque esso si trovi. E' per questo che giustamente, in occasione del recente maremoto nel Sud-Est Asiatico, la nostra Farnesina si è adoperata con un grande dispiego di mezzi e uomini per assicurarsi della sorte e del ritorno in patria di tutti i nostri connazionali".


4. "La coerenza e onestà di una persona, come di un giornalista, si afferma nel dichiarare a viso aperto le proprie opinioni e posizioni. Questa onestà intellettuale ha un'importanza altrettanto grande di quella, per un giornalista, di raccontare i fatti come avvengono e non come vorremmo che avvenissero".


"Per questa ragione, trovo più apprezzabile un giornale come il Manifesto che dichiari apertamente di essere comunista rispetto ad altre testate che si presentino come imparziali di fronte ai lettori quando tutto, fuorchè imparziali, sono".


"A differenza di molti commenti, spesso espressi a sproposito, questi sono fatti incontrovertibili".


"Vi ringrazio per la vostra attenzione. Non mi aspetto che la mia lettera venga apprezzata, spero solo che la leggiate e mi auguro che il suo contenuto contribuisca a una discussione all'interno della vostra redazione".


Distinti saluti,


Gianluigi Corbani
redazione@reporterassociati.org  


Non avrei voluto parlare degli articoli e delle opinioni di Renato Farina o Vittorio Feltri, non per l'assoluta discordanza con le mie, ma per la mancanza di quella irrinunciabile "pietas" che in essi vi trovo (leggo il loro giornale nell'emeroteca della mia città).


Me ne occupai in un altro periodo tragico, quello del rapimento e poi dell'assassinio di Enzo Baldoni. La campagna del quotidiano 'Libero' in quell'occasione fu talmente impietosa e martellante contro la vittima che mi fu impossibile tacere (post di venerdì 27 agosto 2004).


Per questo oggi voglio registrare nel mio diario la lettera di Gianluigi Corbani, perché non ha taciuto e perché ha detto parole che condivido completamente.  Ma c'è un altro motivo ben più importante e fondamentale: il lavoro senza prezzo dei giornalisti e delle giornaliste libere, non embedded, e dei loro collaboratori. Quel lavoro serve a sollevare qualche velo su verità tenacemente oscurate e su menzogne propalate senza ritegno alcuno. Quel lavoro è per noi, la famosa "gente comune, semplice", quella 'ggente' lontana dai centri del potere nelle mani di "gente speciale, superiore", gente che ha ottenuto il potere attraverso libere e democratiche elezioni, ma poi non tiene fede ai giuramenti.  

sabato 19 febbraio 2005

sgrena_aubenas
Florence Aubenas, Giuliana Sgrena e Hussein Hanoun 


"Liberiamo la pace"



A chi dice che non è possibile accettare il ricatto dei terroristi che chiedono il ritiro delle truppe italiane, rispondo che chi non voleva questa guerra ingiusta il ritiro delle truppe italiane lo sta chiedendo da "sempre", senza bisogno di sollecitazioni terroristiche di 'persone' che non sembrano avere come massimo obiettivo la liberazione dell'Iraq.


Il nostro governo e la prona maggioranza non hanno voluto nemmeno riconsiderare i termini della vicenda, appunto dopo il coraggioso risultato delle elezioni in Iraq. Anche volendo mantenere i nostri soldati in Iraq, attualmente sotto il comando USA, avrebbero potuto almeno riflettere e discutere su una ridefinizione della nostra 'missione di pace'.


Ho sentito con sollievo dalla voce di Pier Scolari che tuttavia il governo si sta muovendo bene  per arrivare alla liberazione di Giuliana. E questa al momento è la questione fondamentale, senza dimenticare gli altri ostaggi e la popolazione irachena. Ogni vittima è una vittima innocente, e "il mondo muore ad ogni morte di un uomo", come diceva Fulvio Tomizza.


A still from the video allegedly showing two missing Indonesian journalists and their captors


I due indonesiani appena rapiti (da BBCNEWS)



Perché l' Iraq è ora il posto più pericoloso per i giornalisti...non embedded, quelli liberi insomma?

venerdì 18 febbraio 2005

 


Release Voices of freedom kept prisoner in Baghdad.

Created by Release Voices on February 9th, 2005 at 12:34 pm AST





  • Voices of freedom are kept prisoner in Baghdad.

  • Voix libres prisonnières à Baghdad.

  • Voci libere prigioniere a Baghdad.

  • Voces libres presas en Baghdad

    Fermiamo la guerra


    Dal DIARIO di questa settimana: http://www.diario.it/index.php



    Nella sezione "Documenti di adesione" l'appello dei giornalisti


    Vi invitiamo a firmare e linkare ai vostri siti l’appello per la liberazione di Giuliana Sgrena e Florence Aubenas. 




  •  L’appello è tradotto in inglese, francese e spagnolo. http://www.petitionspot.com/petitions/freevoicesfreedom  



  • giovedì 17 febbraio 2005

    Sottoscrivi l'appello


    L'appello dei giornalisti per la liberazione di Giuliana Sgrena


    Chiediamo a tutti i giornalisti di sottoscrivere il seguente appello per la liberazione di Giuliana Sgrena e per la partecipazione alla manifestazione nazionale del 19 febbraio a Roma:


    Non avrebbe voluto essere un simbolo, e invece lo è diventata. Non avrebbe voluto mai più vedere una guerra, e invece la guerra le è piombata addosso.
    Giuliana Sgrena, “inviata di pace” per scelta e per cultura mostra, con la qualità del suo impegno, come è possibile capire e interpretare, raccontare con onestà ma al tempo stesso lottare con convinzione, attraverso la parola scritta, contro un insopportabile orrore.
    Per questo salvare Giuliana, salvare la collega di Libération, Florence Aubenas, scomparsa a Baghdad deve riguardare tutti. Non è questo il momento delle divisioni e delle polemiche. Anche avendo idee diverse da Giuliana, dobbiamo tutti partecipare alla mobilitazione per salvarla.
    Rifiutiamo la logica della paura, dell'intimidazione, della censura, dell'autocensura, della propaganda. I giornalisti “embedded”, arruolati, raccontano inevitabilmente solo una parte della verità.
    Giuliana non lo è, e ha rischiato. Giuliana è una giornalista attenta e consapevole ed è una donna coraggiosa. Come tante colleghe e tanti colleghi.
    Giuliana ci manda un messaggio: l'informazione resti in Iraq, per raccontare e capire. Ne vale la pena, i cittadini vogliono conoscere.
    La libertà di fare informazione dalle zone di crisi, di guerra, sarebbe negata se venisse approvata anche dalla Camera, dopo il Senato, la riforma del Codice militare di pace, legge che prevede sanzioni penali e anche il carcere per i giornalisti che fanno informazione sulle missioni cosiddette “di pace” rivelando notizie non approvate dai comandi militari.
    Sono queste le buone ragioni per le quali è importante esserci tutti, il 19 a Roma, alla manifestazione indetta dal Manifesto.


    Primi firmatari:


    Gabriele Polo, Paolo Serventi Longhi, Franco Siddi, Pierluigi Sullo, Roberto Natale, Silvia Garambois, Davide Sassoli, Furio Colombo, Antonio Padellaro


    Articolo 21 - http://www.articolo21.com/appelli_form.php?id=29


    SOLIDARIETA' E TESTIMONIANZE


    APPELLO DEI GIORNALISTI
    PER LA LIBERAZIONE
    DI GIULIANA SGRENA
    Il 19 febbraio manifestazione indetta
    da Il Manifesto


    Mi pare che sia lo stesso appello ma con possibilità diverse di invio.

    mercoledì 16 febbraio 2005


     




    Giuliana Sgrena piange in un video: «Ritirate le truppe»
    di 
    red.

    Piange un po', porta le mani giunte alla bocca. «Questo popolo non vuole occupanti, questo popolo non deve più soffrire così, migliaia di persone sono in prigione, la gente muore ovunque...Pierre aiutami fai vedere i bambini colpiti con le claster bomb (le micidiali bombe a grappolo ndr)...non devono più venire occidentali, anche gli italiani qui sono visti solo come invasori».


    Sono questi i passaggi nodali di ciò che dice Giuliana Sgrena nel video che i suoi sequestratori hanno diffuso tramite l'Associated Press Television e che è stato trasmesso attorno a mezzogiorno. Il messaggio è accorato e chiaro. «Aiutatemi a chiedere il ritiro delle truppe» dall'Iraq, chiede a più riprese, mentre si avverte una voce di fondo forse femminile. È sola nel video. Sembra provata «smagrita ma lucida», è il commento del suo compagno Pierre Scolari. Indossa una casacca verde e parla con le mani giunte. Sullo sfondo si vede un lenzuolo bianco e una scritta rossa in arabo, «Mujaheddin senza confini», una sigla finora sconosciuta.

     



     



    «Chiedo al governo italiano, al popolo italiano contrario all'occupazione, chiedo a mio marito, vi prego, aiutatemi - dice la Sgrena, parlando ora in italiano ora in francese - Dovete fare tutto quello che potete per mettere fine all'occupazione. Conto su di voi, potete aiutarmi». «Ritiratevi dall'Iraq, perché nessuno deve più venire in Iraq... per favore, fate qualcosa per me», ha detto Sgrena nel video, piangendo. «Pierre, aiutami tu, sei stato con me in tutte le battaglie, ti prego aiutami... aiutami a salvarmi... Chiedo alla mia famiglia di aiutarmi... Questo popolo non deve più soffrire... Questo popolo non vuole occupazione, non vuole truppe, non vuole stranieri». ...


    Il compagno di Giuliana, Pierre Scolari si rivolge direttamente al governo, alle forze politiche e al Parlamento, impegnato in queste ore proprio a decidere il rifinanziamento della missione militare in Iraq. «Chiedo di ritirare le truppe ma non per Giuliana - dice orgoglioso - lo chiedo per il popolo iracheno. Kofi Annan lo ha detto chiaramente - aggiunge - in questa situazione l'Onu non può andare (cioè sostituirsi alle truppe della coalizione ad esempio con caschi blundr) bisogna prima cambiare le condizioni...». ... continua: http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=HP&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=40910 


    Oggi il voto in Senato, voto scontato per la maggioranza. Mi unisco all'appello a ritirare i nostri soldati dell'Iraq, non sotto il ricatto per Giuliana Sgrena, per quanto sia cara e preziosa. Sono sempre stata contraria a questa guerra falsa e criminale, ho sempre provato sdegno per la nostra partecipazione attiva e subalterna, avrei sempre votato a favore del nostro ritiro, in nome della Costituzione e della giustizia e dell'etica che vieta l'assassinio. Provo dolore per la posizione del solito Rutelli et similes, per il fatto in sé certo, ma soprattutto perché sono ragionevolmente convinta che le cittadine e i cittadini che si riconoscono ne L'Unione siano favorevoli a far cessare l'occupazione dell'Iraq.


    Il post che segue è di stamattina.


    Mi è sempre stato incomprensibile come una maggioranza parlamentare abbia dedicato e dedichi tali e così prolungati sforzi a legiferare con chiari intenti ad personam o ad personas. I processi durano troppo, è evidente, ma allora perché non macerarsi nella ricerca di tutti i possibili strumenti per sanare questo problema? D'ora in poi possiamo essere certi che i processi si allungheranno, perché la difesa di imputati vari avrà tutto l'interesse ad assicurarsi un così semplice salvacondotto. Cosa questa già ampiamente sperimentata e tristemente nota.


    Csm: la salvaPreviti cancellerà 4.500 processi
    15/02/05


    La legge salvaPreviti avrà "effetti devastanti", farà quadruplicare i reati prescritti. La Sesta Commissione del Csm lanciare l'allarme con un documento che sarà discusso dal plenum giovedì prossimo, assieme al testo alternativo presentato dal laico della Cdl Giorgio Spangher.
    L'analisi della Commissione è spietata. "L'applicazione del nuovo regime ai processi in corso comporterà un vero e proprio cataclisma organizzativo all'interno di un sistema di giustizia penale che già oggi riesce con assoluta difficoltà a fronteggiare il numero elevatissimo di procedimenti". E provocherà "la vanificazione di gran parte del lavoro svolto dall'intero sistema giudiziario nel corso di alcuni anni". I consiglieri di Palazzo dei marescialli indicano con precisione i processi destinati ad essere spazzati via: "Quasi tutti i processi per reati puniti con la pena della reclusione compresa nel massimo tra i cinque e i sei anni e la grande maggioranza di quelli per reati puniti con la pena della reclusione massima di otto anni sono destinati a sicura prescrizione". Reati come la corruzione, la violenza o minaccia a pubblica ufficiale, la truffa, l'usura, la rivelazione di segreto di Stato. La previsione della Commissione è fondata sui numeri, innanzitutto su un'analisi compiuta dalla Corte di appello di Bologna che "ha stimato che per tale fascia di delitti sul totale dei processi iniziati davanti al giudice la quota destinata a prescriversi dall'attuale livello del 9,60% passerebbe a circa il 47%, il che, in termini assoluti, equivarrebbe ad una grandezza dell'ordine di 4.500 processi". Ma non solo: i consiglieri fanno riferimento anche a una ricognizione effettuata recentemente dalla Corte di cassazione che ha individuato in nove anni il tempo medio di durata dei processi per reati puniti con pena compresa fra cinque e otto anni che giungono al vaglio della stessa Corte. Ne consegue che "per la massima parte dei processi il termine prescrizionale maturerebbe prima della sentenza definitiva, ma dopo la decisione di appello, e cioé in un contesto che comporta per il sistema giustizia il massimo spreco di energie". E non è ancora tutto: i processi diventeranno ingovernabili, avverte Palazzo dei marescialli. Il nuovo regime "impedirà al giudice di controllare lo sviluppo dell'istruttoria dibattimentale e di gestire i tempi di lavoro", visto che la nuova disciplina renderà "del tutto naturale per i difensori fare ricorso agli istituti che comportano la sospensione del processo, non tanto per ottenere una pronuncia del giudice, ma anche solo al fine di far maturare il limite di prescrizione". Di tutt'altro tenore la relazione di Spangher: oltre a sottolineare la "legittimità" dell'intervento legislativo, il laico della Cdl segnala come "dato indiscutibilmente positivo della riforma" aver eliminato i poteri discrezionale del giudice nel riconoscimento della prescrizione dei reati; un elemento di "trasparenza con tendenziale attuazione del principio di uguaglianza".


    L'appello contro la salvaPreviti


    Fonte: http://www.libertaegiustizia.it/giustizia/giust01.htm


    Immagine: Bernini, Giustizia, Galleria Borghese, Roma (dal sito: http://keptar.demasz.hu/arthp/html/b/bernini/sculptur/1640/)



    lunedì 14 febbraio 2005

    "Scende sulla terra il vuoto dei cieli o su di noi si splanca la miglior vita?


    Questo non sapevo, che il mondo muore ad ogni morte di un uomo."




     


     


     


     


     


     


     


     


     Questo il viatico, questo il prezioso distillato di un romanzo fiume come La miglior vita di Fulvio Tomizza (Oscar Mondadori, 1996, pagg. 310). Tolstoji affermava che per essere universali si doveva parlare del proprio villaggio e questo fa Tomizza, - in un’operazione che forse non ha precedenti nella storia del romanzo italiano di ieri e di oggi e che gli valse il Premio Strega nel 1977 – decidendo di raccontare la storia di un villaggio istriano di confine, Radovani, e della sua comunità, filtrata dal punto di vista del suo sagrestano, Martin Crusich, testimone e cronista lungo tutto l’arco della sua vita dei fatti minuti quanto dei grandi avvenimenti della Storia.






    Crusich vive in una società arcaica e contadina travolta da due guerre mondiali e lacerata da frequenti mutamenti di organizzazione politica. La vicenda individuale del sagrestano abbraccia tre quarti del Novecento ma attraverso i registri parrocchiali da lui consultati si allarga a ben tre secoli di Storia.


    La piccola comunità, geograficamente marginale, composta da diverse etnie, è unita dai suoi riti atavici (il romanzo si apre con una benedizione delle messi dai tratti pagani), dalla povertà e dalla fatica del lavoro sui campi, dal tentativo di mantenere una sua coesione e identità anche nell’attraversamento non certo indolore della Storia, passando dall’iniziale dominazione asburgica all’Italia e infine alla Jugoslavia , tra esodi volontari e forzati, dominazioni, religioni, appartenenza a fazioni diverse e contrapposte e giusto perché piove sempre sul bagnato anche a calamità naturali.


    Il cronista Crusich definisce però la storia del suo paese una “non-storia”: “Continuavamo a trovarci in piena guerra per l’eterna questione dell’essere italiani ed essere slavi, quando in realtà non eravamo che bastardi”.


    Leggendo il romanzo si comprende come Radovani, malmenata e fiaccata dalla Storia, in realtà non viene radicalmente trasformata dalla sua inesorabile marcia. I suoi contadini, ripiegati sulla propria miseria, sulla roba, sul sesso e la famiglia, sulla loro religione ostinata e declinata in modo singolare, tendono a scivolare in un limbo fuori del tempo, pressoché invisibili.  


     


    Martin Crusich nell’arco della sua vita serve messa a ben sette parroci le cui figure, accanto a quella del protagonista-narratore, divengono altrettante pietre angolari del romanzo.


     


    Don Kuzma, prete polacco che predica in slavo, tenta di costruire un campanile che per varie discordie si arresta a un moncone. Gli succede il sessuofobo Don Michele, personalità conflittuale e motivo di turbamento per l’adolescente Martin. Il pastore d’anime don Stipe occupa invece una buona fetta nella vicenda personale del sagrestano; di estrazione contadina e prossimo alla laurea, don Stipe, orgoglioso delle sue radici slave, vive con spirito partigiano tenuto a freno a stento le divisioni etniche dei suoi parrocchiani che negli anni del suo ministero si inaspriscono per le opposte rivendicazioni dei nazionalisti italiani e croati. Arriva


    la Prima Guerra Mondiale
    e costringe i giovani alle armi; il villaggio è funestato anche dal vaiolo ed in queste difficili traversie (fame, miseria e disperazione) il prete ha occasione di far valere le sue doti e di mettere a prova la sua fede. E’ lo stesso don Stipe che incoraggia le nozze di Martin con una giovane servente. Crusich avrà un figlio da lei, in quel tempo in cui le donne si vendevano per un pezzo di lardo e si sbarazzavano crudelmente dei frutti dei loro traffici.


    Al termine della guerra Radovani passerà all’Italia e il prete slavo lascerà l’incarico. Prenderà il suo posto don Ferdinando, veneto pieno di virtù e qualche vizio che agli occhi del sagrestano ha avuto il solo torto di succedere a un uomo superiore. Poi ci sarà don Angelo, ostile al suo sagrestano e alla fazione croata. Dei buoni rapporti tra il fascismo e il clero don Angelo approfitta per portare a termine grazie a un finanziamento del fratello del Duce, la costruzione del campanile.


    Al termine del secondo conflitto mondiale la parrocchia viene assegnata al Territorio Libero di Trieste per poi essere annessa alla Jugoslavia. Scoppiano risentimenti nazionalistici e la micro-società risente di una brusca svolta comunista; dvisioni all’interno delle stesse famiglie portano all’esodo degli italiani; le case abbandonate sono occupate da nomadi e serbi o da forestieri di altre etnie e credo religioso. Don Nino, fresco di seminario, illuso e inesperto, soggiace all’ostilità dei nuovi potenti per la funzione che rappresenta. Ancora, il croato don Miro, cattolico e nazionalista, partigiano con Tito, straziato nel cuore per un pericoloso coinvolgimento con la maestrina del villaggio, si autodistruggerà lasciandosi morire lentamente di vino e di cancro. In regime socialista non ci sarà più posto per parroci a Radovani. Nella desolata “casa dei preti” prenderà alloggio il solo Martin Crusich, guardiano della memoria.


    Claudio Magris ha parlato di La miglior vita come “un’epica della frontiera”; il romanzo può essere tranquillamente accostato alle saghe contadine dei romanzieri di area slava.


    Uno dei punti più alti del romanzo è l’episodio che vede Martin trasportare la salma del suo unico figlio per i boschi fino al paese natio. Il figlio del sagrestano aveva lasciato il seminario e il sacerdozio per andare a battersi da partigiano.


    Come scrive Paolo Milano in un articolo apparso su L’Espresso del 15 maggio del 1977, “sembra uscito dalle pagine di ‘un romanzo della resistenza’ in lingua slava.”


    Peccato che Tomizza, morto nel 1999, sia stato spesso accostato a un genere narrativo di area triestina per il solo fatto che viveva a Trieste. Tradotto in dieci lingue, Tomizza è una perla rara nel panorama della recente narrativa italiana e mitteleuropea e dispiace vederlo accantonato da molta critica.


    La sua scrittura, mai sofisticata ma partecipe, concreta e perfettamente aderente alla materia narrata, ci offre pagine mirabili. Ne sa qualcosa Grazia Giordani, giornalista e commentatrice letteraria de l’Arena, che lo ha conosciuto di persona e gli ha dedicato ampie recensioni e memorie (le potete leggere nel suo sito: www.graziagiordani.it). Conoscevo già Tomizza per alcune mie letture ma voglio ringraziare in questa sede

    la Giordani per avermi segnalato questo libro (che volete farci: per me un libro è sempre un incontro, casuale e improvviso, con relativo investimento emotivo).


     


    Il dettato sembra stentare, all’inizio, per poi intrecciarsi e procedere dritto verso il suo destino. A ben guardarlo, questo sagrestano giudica le vicende che scorrono sotto i suoi occhi in maniera improbabile per il suo personaggio, ma tant’è, il lettore si mostra disponibile a concedere a Tomizza questa licenza per identificarsi con il sagrestano e vivere con lui la storia in presa diretta.


    La lingua del romanzo è un italiano che si ammanta di apporti dialettali, con espressioni ora venete, ora friulane/giuliane, ora chiaramente di ceppo slavo in un’amalgama talora posticcio e divertente di suoni e ragioni d’essere.


    Felice il titolo, che suggerisce allo stesso tempo la nostalgia per la vita di un passato che non tornerà, l’attuale malinconia consapevole di un patrimonio sociale e culturale destinato a scomparire e la timida speranza di un riscatto in un’altra vita, migliore, dopo la morte.


    “Il nuovo inverno mi colse come sfebbrato, pavidamente lieto e un po’ sorpreso di essere ancora in vita. Ma Dio continuò a dimenticarsi di chiamarmi a sé, e altri fatti piccoli e grandi vennero a scuotere la parrocchia, come sussulti di un vecchio mondo avviato a mutarsi o a finire con me.”


    scritto da cigale - mercoledì, 14 luglio 2004




    .


    Referenze web: www.istrians.com







     


    Cigale mi ha permesso di pubblicare qui questo suo straordinario pezzo su "La miglior vita" di Fulvio Tomizza. Gliene sono profondamente grata, perché il romanzo merita di essere richiamato all'attenzione o al ricordo, e perché io non avrei potuto scriverlo. Ma forse è giunto il momento di superare il silenzio in cui mi sono rinchiusa dopo la morte di un amico grande e molto caro.

    domenica 13 febbraio 2005

     


    Appello
    Da Venezia il giornalismo internazionale per la liberazione delle giornaliste ostaggio in Iraq


    di Redazione
    I rappresentanti dei principali canali satellitari all news occidentali ed arabi, assieme ai rappresentanti di televisioni di servizio pubblico, dei maggiori quotidiani nazionali e agenzie di stampa internazionali, di organizzazioni internazionali dei Media, riuniti a Venezia  in un incontro sull’informazione di guerra in Iraq, raccolgono l’appello di Articolo 21 e della Federazione Italiana della stampa e, a loro volta, rivolgono un appello per la liberazione senza condizioni delle colleghe giornaliste Giuliana Sgrena e Florence Aubenas e del collaboratore di quest’ultima Hussein Hanoun Al Saadi.


    Il loro sequestro è la prova del rischio che l’intera informazione cada, essa stessa, in ostaggio. 


    La situazione in Iraq e la difficoltà crescente nello svolgere la professione giornalistica pongono il mondo dell’informazione davanti alla drammatica scelta di rinunciare al diritto/dovere di informare.


    La possibilità di operare in sicurezza direttamente sul territorio iracheno deve essere garantita a tutti i giornalisti occidentali e del mondo arabo.


    Fonte: http://www.articolo21.com/notizia.php?id=1626


    Mi sono formata l'opinione (spero sbagliata) che buona parte dell'informazione nel mondo intero sia già "in ostaggio" e che i giornalisti, anche i più integri ed eroici, riescano a sapere qualche verità solo affrontando enormi difficoltà.


    Quello che accade in casa nostra è verificabile di giorno in giorno, di telegiornale in telegiornale, di censura in censura. Ed è ancor meglio verificabile se ci si dedica alla lettura di giornali stranieri o di fonti alternative d'informazine. Non pretendo di leggere tutti i nostri quotidiani, ma ne scorro un certo numero online, e mi sottopongo al tormento dei nostri telegiornali. Ogni giorno mi fa specie vedere che sono quasi del tutto uguali, nella scelta degli argomenti, nell'ordine della scaletta e nei mezzucci manipolatori. Ma, soprattutto, ci sono notizie importanti, a volte di vitale importanza, che non vengono date, tout court. In Occidente i giornalisti generalmente, non sempre, non vengono rapiti o uccisi, ma alcuni di loro, molti o pochi?, incorrono in incidenti di percorso di vario genere quando si spingono oltre certi limiti. Mi spiego con l'ultimo caso, quello di Eason Jordan, direttore delle news e vicepresidente esecutivo della Cnn, che si è dimesso per evitare che il network venisse "ingiustamente macchiato dalla controversia creata dai resoconti delle mie osservazioni sull'allarmante numero di giornalisti uccisi in Iraq". E' una storia lunga pubblicata da Il Manifesto. L'articolo s'intitola "Cnn, dimissioni di guerra" e da domani sarà possibile leggerlo online all'indirizzo:


    http://www.ilmanifesto.it/oggi/art8.html

    giovedì 10 febbraio 2005

     Il valore della Giornata del ricordo


    LA MEMORIA SENZA OSSESSIONE


    di Claudio Magris



    Nel mito greco Mnemosyne, la memoria, è la madre delle Muse ossia di tutte le arti, di ciò che dà forma e senso alla vita, proteggendola dal nulla e dall’oblio.


    Nella tradizione ebraica, uno dei più profondi attributi di Dio è quello di ricordare «fino alla terza, alla quarta, alla centesima generazione». Questa memoria divina è insieme giustizia e carità, rifiuto di lasciar cadere in prescrizione il male e riscatto delle sue vittime. L’atto del ricordo, in tal senso, è carità e giustizia per le vittime del male e del dolore, individui e popoli scomparsi talora anche in silenzio e nell’oscurità, schiacciati dal «terribile potere di annientamento» della Storia universale, come la chiamava Nietzsche.


    La memoria è resistenza a questa violenza; essa significa andare alla ricerca dei deboli calpestati e cancellati, di quella «pietra rifiutata dai costruttori» di cui il Signore, come sta scritto, farà la pietra angolare della sua casa, ma che giace sepolta sotto le rovine e i rifiuti e va ritrovata e custodita con amore e rispetto. La memoria è il senso della coralità di tutti gli uomini, anche di quelli in quel momento non visibili, che essa scopre presenti, e dar vita agli assenti, come ha scritto Lorenzo Mondo, è un atto d’amore.


    Le persone, i valori, gli affetti, le passioni sono ; anche se legate a un preciso momento temporale, non appartengono soltanto ad esso, così come una poesia scritta in un certo giorno di un certo anno non appartiene soltanto a quella data, bensì al presente della vita e continua a esistere e a crescere. Questo ricordare, strettamente connesso con l’amore, ha ben poco a che vedere con la memoria meccanica, con la capacità di registrare e ritenere molti dati, e con la querula nostalgia sentimentale del passato, trasfigurato e falsificato come se fosse stato migliore del presente, anche se è stato invece così spesso orribile e pieno di sciagure.


    La memoria è il fondamento di ogni identità, individuale e collettiva, che si basa sulla libera conoscenza di se stessi, anche delle proprie contraddizioni e carenze, e non sulla rimozione, che crea paura e aggressività. Custode e testimone, il ricordo è pure garanzia di libertà; non a caso le dittature cercano di alterare o distruggere la memoria storica.


    I nazionalismi la falsificano e la violentano, il totalitarismo soft di tanti mezzi di comunicazione la cancella, con un’insidiosa violenza che scava paurosi abissi non solo fra le generazioni, ma fra una classe e l’altra di scuola, e crea individui inconsapevoli della complessità della storia, incapaci di essere semplici come colombe e avveduti come serpenti, come vuole il Vangelo, e per ciò esposti all’inganno, alla manipolazione, alla servitù.


    Dedicare ufficialmente alcune giornate al ricordo delle vittime di genocidi, massacri, guerre e altre delittuose catastrofi non basta, così come non basta portare un fiore una volta all’anno su una tomba, ma è un gesto simbolico che, se non è svuotato e ridotto a mera convenzione retorica, ha l’autentico valore e significato di esprimere la presa di coscienza di un’intera comunità nazionale e statale.


    La proposta di ricordare insieme - ossia di equiparare - tutte le vittime dei diversi totalitarismi e delle violenze perpetrate anche da regimi e governi non totalitari ha destato discussioni e proteste, talora ingiuste e talora giustificate. Ingiuste, se si vuole far differenza tra le vittime, come se alcune avessero più diritto di altre di non morire, di non essere assassinate e dimenticate. Le vittime di Auschwitz esigono, individualmente, di essere ricordate altrettanto quanto le vittime dei gulag staliniani, delle foibe titoiste, del lager di Arbe, in Croazia, e di altri in cui noi italiani abbiamo imitato, contro gli slavi, con zelo i nazisti.


    Se qualcuno vuole escludere dalla pietas e dal ricordo l’una o l’altra schiera di vittime, ha torto. E non bisogna scordare che crimini li hanno compiuti non solo i regimi tirannici, ma pure quelli democratici, responsabili di ciniche ecatombi nel passato più lontano e più recente, massacri che - come quelli che anche adesso si svolgono in tanti Paesi, anche non additati quali Stati canaglia e ignorati dalle televisioni - sono tante volte passati e passano sotto silenzio, perché il grido di quelle vittime non ha la forza di giungere fino a noi, soffocato da un accorto rumore mediatico assordante.


    Ma l’eguaglianza delle vittime non significa eguaglianza delle cause per cui sono morte. I tedeschi morti nel bestiale bombardamento di Dresda non sono meno degni di memoria e rispetto dei caduti americani e inglesi, ma ciò non può eliminare, in una conciliazione truffaldina in cui come nella notte tutte le vacche sono nere, la sostanziale differenza tra l'Inghilterra di Churchill e la Germania di Hitler.


    Le vittime delle foibe - alcune delle quali, antifascisti militanti, sono cadute per mano di coloro che consideravano amici e alleati nella lotta contro il nazifascismo - non valgono meno delle vittime della Shoah. Ma non si possono storicamente equiparare le foibe alla Shoah e non solo e non tanto per il divario numerico, ma perché in un caso si è trattato del pianificato progetto di sterminio di un popolo intero e nell’altro di una violenza nazionalista-sociale-ideologica, simile a tanti altri episodi accaduti in analoghe circostanze di guerra e di collasso civile, ma non per questo certo meno orribile o più giustificabile.


    Perché il lungo silenzio sulle foibe? Chiedono molti che avrebbero potuto e dovuto parlarne. Se i comunisti, come si è detto, hanno cercato di soffocare la loro memoria per interesse politico di parte, gli altri, gli anticomunisti - si è osservato qualche giorno fa in una trasmissione televisiva dedicata all’argomento - hanno taciuto anche perché era interesse dell’Occidente, in quegli anni, tenersi buono Tito nella sua opposizione a Mosca e nella sua leadership dei Paesi non allineati. È certo un bene che l’Occidente abbia vinto, ma non era altrettanto cinico, rispetto a quei morti, consegnarli alla violenza dell’oblio in nome del proprio interesse politico?


    Ma il silenzio era calato su di loro - come sull’esodo istriano - anche per altre ragioni: per indifferenza, per l’abitudine di concentrare il proprio interesse soltanto sugli argomenti del giorno imposti da un’informazione sempre più concentrata su se stessa, che ha insegnato a parlare solo di ciò di cui si parla, a leggere solo ciò che viene vistosamente imposto e a dimenticare che esistono altri libri e altri giornali, in una crescente gara dei mezzi di comunicazione a diventare sempre più simili e a dire tutti le stesse cose, a parlare tutti dello stesso libro, in un apparente pluralismo che produce gli stessi effetti di un rigido monopolio ideologico.


    Come ricordava l’altra sera Anna Maria Mori, capitava, in quegli anni, di incontrare gente, anche di media cultura, che chiedeva se Trieste era in Jugoslavia e diceva «Belgrado» e non «Beograd», ma «Pula» e non «Pola». Non credo fosse colpa dei comunisti, ma dell’andazzo culturale del Paese e dunque della sua classe dirigente, che non era comunista, come, contrariamente a quanto si dice, non lo era la maggior parte dell’editoria, responsabile dei testi scolastici, né dell’informazione. In quegli stessi anni in cui il dramma dell’Istria era dimenticato, gli italiani potevano ascoltare tanta propaganda sui comunisti trinariciuti e autori di ogni nefandezza.


    C’è tuttavia pure un ricordo negativo che pretende di legare irreparabilmente gli uomini al passato, di pietrificarli come il volto di Medusa. Una memoria rancorosa che incatena l’animo al ricordo bruciante di tutti i torti subiti, pure lontani, magari vecchi di secoli, e alla necessità di presentare il loro conto anche a eredi o presunti eredi che non ne hanno colpa alcuna, di vendicarli indiscriminatamente, perpetuando così la catena di violenze e vendette, alimentando nuove tragedie.


    In quegli anni di oblio, il ricordo delle foibe - e, più in generale, dell’esodo istriano - veniva spesso alimentato (e sfruttato politicamente dall’estrema destra) con uno spirito di risentimento e di vendetta che poteva essere comprensibile in chi aveva subito gravi o gravissimi torti, ma rinfocolava quel generico, indiscriminato odio o disprezzo antislavo che era stato una delle origini del dramma provocato e subito dall’Italia ai suoi confini orientali.


    Ricordare, aver sempre presente Auschwitz non significa coltivare l’odio per i tedeschi di oggi.


    Ancor più inammissibile e sacrilego sarebbe se gli italiani e gli slavi usassero i loro morti per attizzare odi reciproci, in una terra il cui senso - come hanno visto i grandi scrittori triestini - è la compresenza di culture, l’oppressione o scomparsa di una delle quali significa una mutilazione per tutti.


    La rappresentazione più autentica di quel mondo l’hanno data in questo senso, da parte italiana, coloro che - come Tomizza, Madieri, Miglia, per citare solo alcuni - hanno narrato senza titubanza e senza regressivi rancori il dramma che l’ha lacerato, ponendo così le premesse, come altri scrittori da parte slava, per una memoria non più divisa ma condivisa.


    Il ricordo creativo è libertà, anche dall’ossessione dei luttuosi eventi ricordati: «Getta dietro di te il tuo dolore e sarai libero», dice Rebecca nel Rosmersholm di Ibsen. La memoria guarda avanti; si porta con sé il passato, ma per salvarlo, come si raccolgono i feriti e i caduti rimasti indietro, per portarlo in quella patria, in quella casa natale che ognuno, dice Bloch, crede nella sua nostalgia di vedere nell’infanzia e che si trova invece nel futuro, alla fine del viaggio.


    dal Corriere  - 10 febbraio 2005




    Claudio Magris mi ha fatto piangere di commozione. Nel suo pensiero ho trovato risonanze profonde del mio sentimento e della mia memoria, e tutte quelle cose che non sarei stata in grado di raccogliere in un discorso di siffatta completezza, lucidità e onestà.


    Ha avuto anche il merito di ricordare scrittori di valore che hanno sviscerato quella complessità dolorosa in opere che sarebbe indispensabile conoscere per comprendere come le persone vissero quegli accadimenti. 


    Con dolce malinconia ricordo la nobiltà di Fulvio Tomizza che ho conosciuto e avuto per amico. I suoi romanzi sono stati nutrimento essenziale per la mia formazione, e per la memoria storica e per l'analisi introspettiva e per la grandezza letteraria. I suoi romanzi sono stati nutrimento essenziale per la mia formazione, e per la memoria storica e per l'analisi introspettiva e per la grandezza letteraria. "Ciò che ho visto e vissuto" è l'epigrafe che Fulvio Tomizza ha posto all'inizio de "La miglior vita", una delle opere più belle che abbia letto. E non mi fa velo l'immenso affetto per l'amico.



    Un altro articolo di Claudio Magris, trovato in PeaceReporter oggi 11 Febbraio 2005.















    Italia - 10.2.2005
    La giornate delle foibe
    Pubblichiamo un intervento di Claudio Magris










































     Le tragedie «usate»


    da un intervento di
    Claudio Magris* 


    La Resistenza e le foibe sono delle realtà, ognuna delle quali va ricordata di per sé, quando è il momento, senza il ridicolo bisogno quasi di correggere il ricordo dell’una col ricordo delle altre o viceversa.
    Quando diciamo che i Gulag staliniani erano un orrore, è grottesco precipitarsi a dire, nello stesso momento, che i Lager erano mostruosi o viceversa, come se ciò non fosse ovvio.
    Inoltre, c’è differenza fra il disegno sistematico di sterminio propugnato e praticato dal nazismo, del quale la Risiera è un episodio, e orribili violenze nazionalistiche scatenate alla fine di una guerra.
    È blasfemo, è indice di cattiva coscienza usare le tragedie delle vittime per fini politici attuali.
    Quando, molti anni fa, scrissi sul Corriere dei crimini delle foibe, nessuno dei tanti che oggi se ne sciacquano la bocca vi prestò la minima attenzione, perché in quel momento quei crimini e le loro vittime non servivano ad alcuna propaganda politica.
    Una cosa è certa: se oggi possiamo tutti parlare liberamente di Risiera e di foibe, esprimendo le opinioni politiche più diverse e contrastanti, lo dobbiamo al 25 aprile, alla Resistenza, alla Liberazione che ha ridato a tutti i cittadini, di destra, di centro e di sinistra, la democrazia e la libertà.
    Deve averlo istintivamente capito, pur forse senza rendersene pienamente conto, anche chi a Trieste ha proposto di dichiarare il 25 aprile festa non della Resistenza, ma della conciliazione di tutti gli italiani: la festa di tutti - del Paese, della nazione, dell’Italia restituita a se stessa e a tutti i suoi cittadini, di centro, di destra e di sinistra - non può certo essere la marcia su Roma, bensì la Resistenza e la Liberazione antifascista.


    Claudio Magris, giornalista, ha pubblicato questo intervento  il 5maggio2002




    mercoledì 9 febbraio 2005

     Una buona notizia



    I quattro elicotteristi non vollero guidare i Ch47
    perché li consideravano non abbastanza sicuri
    Si rifiutarono di volare in Iraq
    assolti: non fu per "codardia"
    "Non fu per paura: quei velivoli presentavano carenze tecniche"


    "La notizia giunge ad un mese esatto dalla morte del maresciallo dell'Esercito Simone Cola, ucciso da una raffica di khalashnikov in Iraq mentre era in volo su un elicottero AB-412 da più parti giudicato un velivolo non del tutto sicuro per missioni di guerra."


    Articolo: La Repubblica, 9 febbraio 2005-http://www.repubblica.it/2005/b/sezioni/politica/iraqeli/iraqeli/iraqeli.html;  Foto: Il Corriere della Sera


    Ho sempre ammirato quegli elicotteristi per il loro coraggio, la loro dignità e il loro amore per la vita. Il loro rifiuto mi sembrò anche un segno di fedeltà ai compiti che si erano assunti. Oggi, caro diario, sono felice per come si è conclusa una vicenda penosa, molto penosa nella storia controversa della nostra partecipazione alla guerra contro l'Iraq.

    martedì 8 febbraio 2005

    Abbas and Sharon shake hands at the summit


        Speranza di pace in Palestina.


       Pace e giustizia per due popoli.


       "Abbiamo concordato con il primo ministro di Israele di porre fine a tutti gli atti di violenza contro gli israeliani e contro i palestinesi, quali che siano" ha dichiarato Abu Mazen, e poco dopo Ariel Sharon ha indicato che anche Israele "fermerà ogni operazione militare contro i palestinesi ovunque".


    Voglio crederci, devo crederci. Credendoci possiamo dare un sostegno ideale ma concreto. E fra tanti uomini, tutti uomini?, potessimo vedere qualche donna!


    I miei sono auspici e niente altro, perché non riesco più a capire l'intrico dei giochi politici e militari. Per qualche orientamento mi sembra utile un buon articolo di Uri Avnery


    "Il punto morto" di Uri Avnery

    lunedì 7 febbraio 2005

     senza titolo
    EDUARDO GALEANO
    L'abbiamo visto che
    il terrore genera altro
    terrore e le cecità altra
    cecità. L'Iraq, un paese
    invaso, occupato, smembrato,
    si è trasformato
    in un tragico manicomio
    condannato all'oscurità.
    Ci sarà un'ultima scintilla
    di umanità e di saggezza?
    Che arde nella notte, come
    la fiamma di un fiammifero
    nella mano di qualcuno?
    Che illumina il volto di
    Giuliana, dicendole: non sei
    sola, dicendole: l'incubo
    finirà, scongiurandola:
    non crollare!




    Caro diario, ho rubato a man bassa le vignette di Vauro e la poesia di Galeano dal Manifesto, toccato in prima persona dal rapimento della nostra Giuliana Sgrena. Non dimenticano, però, quelli del Manifesto Florence Aubenas e gli altri giornalisti sia i rapiti e rilasciati che gli assassinati, come Enzo Baldoni e Maria Grazia Cutuli e ...



    "Vai, dolce sognata agognata pace, e riportacele, riportaceli, tutti gli infelici oppressi e straziati, tutti gli ostaggi della guerra", vorrei gridare a imitazione di Vauro e di Galeano, a riecheggiare i pensieri liberi di Giuliana e delle persone come lei.


    Ma la guerra non è una entità astratta, è la condizione in cui tutti siamo coinvolti, come carnefici o come vittime. E le vittime, che sono la stragrande maggioranza, devono ribellarsi, sottrarsi al silenzio e all'acquiescenza, gridare la propria sdegnata radicale opposizione.


    Mentre penso a Giuliana e a Florence, ai vivi e ai morti e ai torturati, sento risuonare con orrore i discorsi di Bush e gli applausi dei suoi accoliti, primi fra tutti Blair e Berlusconi. Sono discorsi terribili per me, e non lo dico da romantica inutile stupida pacifista. Sono discorsi terribili perché li ho già sentiti altre volte leggendoli nei libri di Storia, la famosa magistra vitae. Le situazioni storiche sono diverse e si presentano con molte variazioni, ma nella sostanza teorizzare la soluzione di qualsiasi problema politico con la guerra fa parte di quello che Umberto Eco chiama l' 'ur-fascismo', il fascismo eterno.