domenica 12 dicembre 2004

«Ut inter nos societatis augeatur gratia»


«Affinché cresca fra noi l’armonia del rapporto sociale», risponde il vescovo Ambrogio. Si tratta di un’armonia che è grazia, gratitudine, gratuità. È un’armonia, un “ben-essere”, non inteso solo economicamente, che costituisce l’obiettivo fondamentale della vita di una Città.



E' un passo del Discorso alla Città per la Vigilia di S. Ambrogio 2004 pronunciato, in cui l'arcivescovo Dionigi Tettamanzi ha richiamato, "rimeditato e riattualizzato" la lezione etica del patrono di Milano.


Dice Dionigi Tettamanzi: - Con parole decise Ambrogio nel suo De officiis un “manuale” di etica che forse andrebbe oggi riletto con grande attenzione – ci suggerisce un “percorso” possibile.


Così scrive: «Secondo la volontà di Dio e il vincolo di natura dobbiamo esserci di reciproco aiuto, servirci a gara, mettere i nostri beni a disposizione di tutti e, per usare le parole della Sacra Scrittura, aiutarci a vicenda o con l’impegno personale o con i buoni uffici o con il denaro o con le opere o con qualsiasi mezzo, affinché cresca fra noi l’armonia del rapporto sociale. E nessuno sia distolto dal suo dovere, nemmeno dal timore di un pericolo, ma sia convinto che tutte le cose, sia buone che cattive, lo riguardano direttamente».


E continua: «Grande pertanto è lo splendore della giustizia che, destinata agli altri piuttosto che a se stessa, sostiene la nostra comunità sociale ed è posta così in alto da avere ogni cosa soggetta al suo giudizio: soccorrere gli altri, offrire denaro, non rifiutare assistenza, affrontare i pericoli altrui».


Si domanda infine: «Chi non desidererebbe raggiungere tale vetta di perfezione, se l’avarizia, per prima, non indebolisse e piegasse il vigore di una virtù così nobile? Infatti, quando siamo smaniosi di aumentare le nostre sostanze, di ammassare denaro, di estendere i nostri possedimenti, di superare gli altri in ricchezza, mettiamo da parte la giustizia, tralasciamo la beneficenza verso i nostri simili. Come potrebbe essere giusto chi cerca di strappare all’altro ciò che vuole per sé? Anche la brama di potenza indebolisce il carattere energico della giustizia. Come potrebbe intervenire in favore degli altri chi cerca di asservirli a sé e recare aiuto al debole contro i potenti chi aspira ad un potere funesto per la libertà?»[1].


Chiarissimo il pensiero morale del Vescovo di Milano del IV secolo, altrettanto chiaro il discorso dell Vescovo di oggi che su quel pensiero fa perno per dire:


- In queste pagine del De officiis è di particolare interesse per noi l’uso della parola “giustizia” che, nell’accezione di sant’Ambrogio, indica un percorso a riguardo della solidarietà, quasi ne fosse la cifra e la chiave applicativa. La solidarietà è un fatto di giustizia, un’opera, un’applicazione della giustizia. ...


... non mi riferisco solo ai beni economici, al denaro e alle ricchezze che, per altro, secondo l’insegnamento evangelico, sono pure tra i beni da condividere. Mi riferisco piuttosto ad ogni genere di talento: intelligenza, capacità e abilità professionale, cultura, estro creativo, sapere tecnologico e scientifico, amore, fedeltà nella quotidianità e nella semplicità, senso religioso, e tutte quelle particolari attitudini che o riceviamo in dono alla nascita o coltiviamo con l’esercizio incessante di ogni giorno. ...


Per quanto non sia d'accordo sul concetto corrente di "elemosina", perché in uno stato di diritto non dovrebbe esserci bisogno si elemosine, credo che l'arcivescovo Tettamanzi esprima concetti pienamente condivisibili quando dice:


“Compassione” ed “elemosina” devono essere comprese nella logica della reciprocità. Sono sempre un dare e un ricevere amore. Sono uno scambio di solidarietà. Non sono “movimenti” dall’alto verso il basso, da un essere superiore a un essere inferiore, da chi ha a chi non ha. Devono essere, piuttosto, il frutto di una circolarità nell’azione e di una reciprocità necessaria.


Dobbiamo dunque “entrare in relazione” con l’altro; capire che la «societatis gratia» dipende dalla nostra capacità di uscire da noi stessi e di stringere relazioni vere, forti, segnate dalla fedeltà.


Non siamo automi e gli altri non sono automi; non siamo monadi che non si incontrano mai. Certo, la condizione moderna ci ha consegnato un mondo di uomini e di donne perfettamente anonimi; quasi trasparenti agli sguardi: “li” guardiamo e non “li” vediamo; “ci” guardiamo e non “ci” vediamo.


Ci ammaliamo di anonimato; ci difendiamo anche con l’anonimato. Nascono così richieste intense e drammatiche, soprattutto nei giovani, per uscire da un anonimato che è una condanna a non esistere, una condanna al non-umano, una negazione dell’essere nei sentimenti, negli affetti, nell’intelligenza, nel radicato e ineliminabile desiderio di ciascuno di amare e di essere amato. Come non interpretare così il ricorso a gesti estremi, all’irrazionalità più spinta, oppure al voler comparire a qualsiasi costo e in qualsiasi maniera?


L’anonimato ci ferisce ogni giorno. È, dentro il cuore di ciascuno, una piaga inguaribile, nascosta e dolorosissima. La solidarietà come vincolo che unisce, oggi, deve ripartire da lì, dalla domanda profonda, che viene dai milioni di anonimi, di “essere qualcuno” per gli altri. Non un “essere qualcuno” nel senso dell’essere ricco o importante agli occhi del mondo, ma nel senso dell’essere importante in una relazione, dell’avere un amico, dell’avere chi ti “riconosce”, chi conosce il tuo nome, chi sa chi sei e che cosa fai, se sei nella gioia o nel pianto, nella quotidianità, magari anche nella banalità di tutti i giorni.


Impossibile racchiudere nello spazio di un post tutte le istanze poste da un discorso lungo 26 pagine, anche perché ogni taglio risulterebbe inadeguato. Infatti, il documento andrebbe letto e meditato nella sua completezza. Sono stata colpita dall'assenza di particolarsimi e dall'intento sincero di rivolgersi a tutti, in quanto non ho sentito una distinzione tra credenti e non credenti, tra etica con fede ed etica senza fede, anche se l'impostazione è ovviamente e profondamente religiosa e cristiana.


Da parte mia, la citazione di alcuni passi e le sottolineature sono soltanto un punto da segnare nel mio diario e un invito alla condivisione per amiche e amici, viandanti del WEB.




Fonte: http://www.chiesadimilano.it













[1] Sant’Ambrogio, I doveri, lib. I, cap. 28, 135-138.


 



16 commenti:

  1. Cara harmonia grazie per aver richiamato uin documento di questa importanza e altezza, che mi vado a leggere e meditare. E buona domenica così degnamente iniziata.

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  2. ciao, ho fatto un post che ti potrebbe interessare...

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  3. concordo in pieno con le tue conclusioni, da leggere e rileggere. Alain

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  4. ho letto con grande emozione questo post...e la societatis gratia la terrò come immagine potente.
    grazie, harmonia...e grazie anche per avermi dato la possibilità di venire a banchetto :)

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  5. ho letto con grande emozione questo post...e la societatis gratia la terrò come immagine potente.
    grazie, harmonia...e grazie anche per avermi dato la possibilità di venire a banchetto :)

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  6. ho letto con grande emozione questo post...e la societatis gratia la terrò come immagine potente.
    grazie, harmonia...e grazie anche per avermi dato la possibilità di venire a banchetto :)

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  7. Grazie di questo bel post, da rileggere e meditare con attenzione "concreta"...circolarità nell'azione e reciprocità necessaria...
    buona serata
    veradafne

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  8. Grazie di questo bel post, da rileggere e meditare con attenzione "concreta"...circolarità nell'azione e reciprocità necessaria...
    buona serata
    veradafne

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  9. Grazie di questo bel post, da rileggere e meditare con attenzione "concreta"...circolarità nell'azione e reciprocità necessaria...
    buona serata
    veradafne

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  10. una lezione di umiltà, tra le altre cose(un abbraccio)

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  11. Troppo gentile, sul serio.
    Ambrogio era uno che sapeva il fatto suo, ma i Milanesi non ne sanno molto.

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  12. Troppo gentile, sul serio.
    Ambrogio era uno che sapeva il fatto suo, ma i Milanesi non ne sanno molto.

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  13. Troppo gentile, sul serio.
    Ambrogio era uno che sapeva il fatto suo, ma i Milanesi non ne sanno molto.

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