domenica 27 novembre 2005

Care amiche e amici, un post lunghissimo, illegibile: ben due articoli. Si è parlato molto del servizio del The Economist. Furio Colombo, che sa bene l'inglese, l'ha interpretato in maniera diversa dalla vulgata dei nostri giornali. Mi fido di Furio Colombo, ma ho preferito avere a portata di mano l'originale del The Economist, in attesa di una sua traduzione integrale. L'articolo di Colombo è importante perché la dice lunga sulle interpretazioni degli addetti ai lavori. E' un articolo amaro, perché neanche a lui fa paicere che i perfidi dell'Economist ci dicano, a ragione, quelle cose. Non che noi non abbiamo nulla da dire agli inglesi. L'unico motivo per interessarsi all'articolo inglese è che dice cose che in Italia non si possono leggere tutte insieme, ma soprattutto non passano per il vero medium importante che è la televisione.


Dopo la caduta 


   da l'Unità di Furio Colombo





Il regime mediatico instaurato da Silvio Berlusconi un po’ con la forza (carriere brutalmente stroncate, centinaia di querele miliardarie contro i pochi che hanno osato tenergli testa) e un po’ con l’intimidazione, sta raggiungendo il suo risultato più pieno in queste ore. Un rapporto internazionale (The Economist, 26 novembre), duro e senza salvezza, contro il primo ministro italiano, nei media del nostro Paese si è trasformato come segue.


Primo. Non circola alcun testo tradotto, in modo che non si abbia notizia delle dieci accuse e della tabella riassuntiva di processi e reati di Berlusconi.


Secondo. Omissione completa dello screditamento e della confutazione di ciascuna delle mosse difensive tentate fino ad ora da Berlusconi, dall’avere accusato l’euro di essere causa della crisi economica all’avere messo preventivamente in pericolo la stabilità di futuri governi imponendo l’approvazione di una bizzarra legge elettorale.


Terzo. L’enormità delle accuse rivolte contro Berlusconi e l’elenco dei gravi danni arrecati dal suo governo all’Italia (elenco che nessuna fonte mediatica italiana ha pubblicato) fa comprensibilmente dubitare gli autori del rapporto-denuncia sulla situazione del nostro Paese che persino Prodi e un possibile nuovo diverso governo possano porvi rimedio. La notizia è diventata che, secondo l’allarmato rapporto internazionale di cui stiamo parlando, Berlusconi e Prodi sono alla pari, accomunati nello stesso giudizio negativo. Si tratta di un falso clamoroso, però accreditato o assecondato o implicato da riferimenti o commenti sempre privi del testo originale.


* * *


Basta leggere con pazienza, pena e attenzione le molte pagine e i molti argomenti dedicati da The Economist all’Italia di Berlusconi.


Basta leggerle per capire che l’immagine del nostro Paese non è mai stata tanto rovinata. Il settimanale finanziario inglese non si limita alle cifre e ai dati del disastro, che argomenta senza possibilità di contraddizione. Aggiunge due quadri.


In uno si vede Berlusconi. Domina la domanda: la responsabilità è sua? Chi ha scritto gli articoli pazientemente registra attenuanti, gli accumuli di circostanze negative nel passato. Ma dal principio (l’Economist ricorda la sua copertina col titolo “Può Berlusconi governare l’Italia?”) alla conclusione rafforzata dalla tabella degli imbarazzanti processi subiti da Berlusconi e dalle condanne toccate ai suoi due amici e collaboratori più stretti di tutta una vita, Previti e Dell’Utri, tutto il testo dell’inchiesta è un clamoroso e incondizionato giudizio negativo. «Avevamo ragione - dice The Economist - Berlusconi non può governare l’Italia». Gli solleva contro l’argomento di cui Berlusconi si vanta, la durata del suo governo. L’Economist lo vede come un danno in più toccato al Paese, come una malattia che rifiuta di andarsene, nonostante l’alto dosaggio di voti negativi ripetutamente ricevuto ad ogni consultazione democratica del Paese negli ultimi anni.


Nel secondo quadro si vede l’Italia. L’analisi che viene dedicata al nostro Paese è particolarmente umiliante perché concede al primo ministro, ritenuto primo responsabile di un governo rovinoso, tutte le ragioni che Berlusconi o un suo difensore (se ce ne fossero ancora) avrebbero potuto invocare. Riconosce che il debito italiano è enorme, che la storia della spesa pubblica italiana non è esemplare, accetta di considerare il problema del passaggio dalla lira all’euro come causa di temporaneo disordine dei prezzi. Ma anche perché, con l’ingresso dell’Italia nell’euro, la tradizionale scorciatoia di salvataggio che è stata tante volte usata, la svalutazione della lira, è venuta a mancare. 


E giudica oggettivamente difficili le riforme in un Paese segnato da contrapposizioni dure, anche di natura corporativa e sindacale.


Il fatto è che la condanna di Berlusconi non viene da una visione sociale solidaristica e di sinistra, ma da un implacabile giudizio negativo del mondo a cui Berlusconi, e i suoi affiliati, sostengono di appartenere. Infatti il rapporto inglese sull’Italia smonta uno per uno ogni argomento “visto da destra”, che viene di solito usato dalle reti unificate della propaganda berlusconiana per dare la colpa ai comunisti. Dei comunisti non c’è traccia nel rapporto dell’Economist. Ci sono invece, ben chiare, le impronte dei processi, della illegalità, delle leggi ad personam, della cascata di condoni, delle assoluzioni per “prescrizione”, delle specifiche misure approvate per estrarre il primo ministro dai suoi personali guai giudiziari.


C’è anche un “profilo imprenditoriale” di Berlusconi che è tra i passaggi più duri della requisitoria: «un monopolista che si è sempre affermato al di fuori della concorrenza e all’interno di un sistema di protezioni» che, una volta passato dagli affari al governo, è stato un capo di governo a stretta immagine e somiglianza del capo di impresa: nessuna trasparenza e un cumulo di vantaggi e convenienze e protezioni speciali create solo per lui.


Non si pensi a una cascata di moralismo. Gli autori del rapporto sanno benissimo che il mondo della politica non è fatto di angeli e di altruisti. Ma analizzano il lavoro legislativo dell’epoca Berlusconi e concludono che si è trattato di un immenso spreco di risorse e di tempo perché il grosso del lavoro parlamentare riguarda modifiche che interessano la persona e gli affari del primo ministro e non il Paese.


* * *


I punti fondamentali su cui l’analisi dell’Economist si fonda sono i seguenti.


- Il Paese Italia può precipitare in una recessione di tipo argentino.


- L’Italia compare nella classifica della competizione mondiale in un “quarantasettesimo” posto subito sopra il Botswana.


- Il costo della vita ha subìto impennate che non hanno nulla a che fare con l’euro ma piuttosto con la responsabilità di un governo che, mentre governava attentamente i propri interessi giudiziari o privati, non ha badato alla corsa libera e arbitraria dei prezzi. 


- Le infrastrutture sono tra le più fragili e invecchiate d’Europa, anzi, senza dubbio, le peggiori dell’Unione europea.


- Le Università italiane sono in una condizione penosa e al di sotto di ogni confronto internazionale.


- L’evasione fiscale è alle stelle.


- Soltanto il 57 per cento degli italiani è al lavoro, contro il 70 per cento dell’Inghilterra.


- La coalizione di governo, di cui viene spesso vantata la compattezza, è una rete di interessi divergenti che si compongono solo con compromessi pesanti a carico del Paese. L’Economist non manca di notare che l’Italia aveva trovato un punto di arresto del rischio di frammentazione politica e di ricatto dei piccoli partiti con il sistema semi-maggioritario voluto dai cittadini con il referendum Segni. Ma adesso una nuova legge elettorale nega anche i modesti progressi di stabilità ottenuti con una pur imperfetta legge maggioritaria e torna a spingere l’Italia verso un sistema destinato a produrre frammentazione e ingovernabilità.


Il senso dell’articolo si riassume in questa domanda fondamentale: è possibile che un solo governo nelle mani di un solo uomo che controlla un solo sistema di informazioni e domina un apparato legislativo che non ha fatto che servirlo, possa provocare, da solo, un simile danno? La risposta è sì, e al settimanale finanziario inglese non resta che ricordare (insieme con la tabella di tutti i processi subiti e in corso, di Silvio Berlusconi) le 23 domande proposte al premier italiano nel 2003 e restate sempre senza risposta.


* * *


Come si vede, nulla, nell’esame sullo stato dell’Italia proposto dalla più autorevole pubblicazione economica del mondo, coincide con il sistema di notizie quotidianamente diffuso dalle reti mediatiche di Berlusconi. Non avete ascoltato una sola parola, nei media italiani, di ciò che gli economisti inglesi ci mandano a dire in questa documentatissima analisi.


Ricorderete che quando Romano Prodi ha sollevato in passato questi argomenti e proposto le stesse accuse, e annunciato con allarme lo stesso rischio di esito disastroso, il sistema di regime mediatico ha sempre provveduto a mandare in onda e in pagina i volti o le voci di alcuni personaggi fissi il cui compito era di scuotere la testa con compatimento e di assicurare che, se c’era un problema, era quello di una deriva “zapaterista” di Prodi.


Potrà essere utile - per confermare che il nostro disastro economico si accompagna al disastro mediatico - che la maggior parte delle firme autorevoli del giornalismo italiano passa il tempo a interrogarsi con preoccupazione sul programma dell’Unione, l’armonia dei partiti di sinistra e la guida di Prodi, mentre gli analisti inglesi scrivono dell’Italia di Berlusconi quello che scrivono.


Mentre Berlusconi arruola il fascismo più schietto e privo di pentimenti per la sua prossima campagna elettorale, numerosi editorialisti continuano a chiedersi, ansiosi, se il pericolo comunista sia ancora in agguato. E discutono sul probabile “ricatto” di Bertinotti che, senza dubbio, tenterà di ridurre Prodi a una specie di Trotzkij. E ciò proprio nei giorni in cui Camera e Senato italiani, debitamente orchestrati, mandano alla firma del Presidente della Repubblica una squallida e pericolosa legge, frutto di un ricatto della parte inferiore della vita politica italiana (la Lega Nord) la legge detta “devolution” che spacca l’Italia, come ci ricorda il Presidente emerito della Repubblica Scalfaro.


* * *


Ma attenzione. Questa inchiesta clamorosa che inchioda il Paese alla più grande umiliazione del dopoguerra e annuncia un pericolo grave ed imminente, viene volentieri rappresentata a rovescio. E’ un trucco già messo in opera da giorni, da quando sono uscite le prime anticipazioni di questo pessimo ritratto internazionale dell’Italia governata da Silvio Berlusconi.


The Economist propone il dubbio: in queste condizioni può farcela Romano Prodi, nel caso ormai probabile di una vittoria dell’Unione? La legittima perplessità del settimanale inglese è stata subito spiegata dai funzionari mediatici italiani in questo modo: il mondo economico anglosassone non vede alcuna differenza fra Prodi e Berlusconi. Non ha fiducia né nell’uno né nell’altro. Scorrete attentamente, argomento per argomento, le pagine da 13 a 15 del testo inglese e vi rendete conto che tale interpretazione è un falso. Un falso di regime, accreditato però in tanti modi, per esempio utilizzandolo per inquadrare i titoli, i commenti, le interviste.


Nella requisitoria davvero spietata contro Berlusconi e coloro che lo hanno servito, non c’è una frase, espressione o parola che esprima opinione negativa sulla persona di Romano Prodi o anche solo una sospensione di giudizio. I dubbi nei confronti dell’Unione e della sua eventuale vittoria (che lo stesso settimanale inglese sembra dare per scontata, dato che è difficile da immaginare un voto per Berlusconi) si dividono in due gruppi.


Nel primo gruppo ci sono le tipiche riserve della visione rigorosamente di mercato dell’Economist.


La domanda è se la coalizione dell’Unione saprà essere liberista quanto basta per porre rimedio al disastro. Naturalmente - come dimostrano la situazione politica tedesca, quella francese e anche quella inglese (con il vivacissimo dibattito interno tra il laburismo storico del solidarismo sociale e il “nuovo laburismo” liberista di Tony Blair) - il rimedio esclusivo del mercato non è che una delle strade. E’ naturale che stia a cuore all’Economist.


Ben più pesante è il secondo gruppo di dubbi. Indicano, senza mezzi termini,


- i pericoli italiani nella nuova legge elettorale fatta apposta per frantumare,


- nella totale mancanza di ricerca scientifica,


- nella difficoltà di fare accettare misure impopolari dopo il crollo di fiducia creato fra i cittadini dal governo delle leggi ad personam, dei condoni e degli omessi controlli fiscali.


E’ importante notare la seguente affermazione conclusiva, che purtroppo non è arrivata alla gran parte dei lettori e degli spettatori italiani: «Un’ultima eredità negativa del governo di Berlusconi è la svalutazione di ogni valore civico e morale. Quando un primo ministro attacca i magistrati del suo Paese come cospiratori comunisti, fa votare leggi a suo personale favore, e ignora ogni attività di controllo sulla situazione fiscale, manda un messaggio che dice: non ci sono regole, e non preoccupatevi di osservarle».


Ecco la lapide più tremenda sull’Italia in cui viviamo e sul governo di questa Italia. Certo, la sfida è pesante, tanto più che, dopo aver chiuso porte e finestre alla libertà d’informazione, Berlusconi si prepara a varare una nuova legge a sua protezione e contro i cittadini, quella che abolisce la “par condicio”, ovvero il minimo di libertà che resta per confutare il suo regime mediatico e l’azione immensa di intimidazione esercitata anche su coloro che non lo servono ma sono indotti a tacere o a parlare d’altro.


Il pericolo è grande, al punto da far dubitare seri osservatori internazionali che la situazione, anche nelle mani di persone perbene, possa ritornare ad un livello normale di civiltà.


Tocca ai cittadini, agli elettori italiani dare la risposta con il voto. Sarà anche una risposta di orgoglio nazionale. E’ da quel momento che - per usare la frase preferita di Prodi - «potrà ripartire l’Italia». furiocolombo@unita.it



SURVEY: ITALY



Addio, Dolce Vita


Nov 24th 2005
From The Economist print edition


For all its attractions, Italy is caught in a long, slow decline. Reversing it will take more courage than its present political leaders seem able to muster, says John Peet (interviewed here)


Alamy

AT FIRST blush, life in Italy still seems sweet enough. The countryside is stunning, the historic cities beautiful, the cultural treasures amazing, and the food and wine more wonderful than ever. By most standards, Italians are wealthy, they live for a long time and their families stick impressively together. The boorish drunkenness that makes town centres in many other countries unpleasant is mercifully rare in Italy. The traffic may be bad, and places such as Venice and Florence are overrun by tourists, but if you go off-season—or merely off the beaten track—you can have a more enjoyable time in Italy than practically anywhere else.


Yet beneath this sweet surface, many things seem to have turned sour. The economic miracle after the second world war, culminating in the famous 1987 sorpasso (when Italy officially announced that its GDP had overtaken Britain's), is well and truly over. Italy's average economic growth over the past 15 years has been the slowest in the European Union, lagging behind even France's and Germany's (see chart 1). Its economy is now only about 80% the size of Britain's. Earlier this year Italy briefly tipped into recession; for 2005 as a whole, its economy is likely to be the only one in the EU to shrink. Growth next year is expected to be anaemic at best.


Italian companies, especially the small, family-owned firms that have been the backbone of the economy, are under ever-increasing pressure. Costs have risen, but productivity has remained flat or even declined. Membership of the euro, Europe's single currency, now rules out devaluation, which for many years acted as a safety-valve for Italian business. Italy's competitiveness is deteriorating fast, and its shares of world exports and foreign direct investment are very low. The World Economic Forum in its annual competitiveness league table recently ranked the country a humiliating 47th, just above Botswana. The economy has also proved highly vulnerable to Asian competition, because so many small Italian firms specialise in such areas as textiles, shoes, furniture and white goods, which are taking the brunt of China's export assault.


Down at heel


The effects of decline are starting to show. Increasing numbers of Italians are finding their living standards stagnating or even falling. The cost of living is widely believed to have risen sharply since euro notes and coins replaced lire in January 2002. Property prices have certainly shot out of reach for many first-time buyers in Rome, Milan and even Naples. Many Italians are cutting back on their annual holidays, or even going without. Others are putting off buying new cars or even new suits, a real deprivation for such design-conscious people. Supermarkets report that spending now falls in the fourth week of every month before the next pay cheque arrives, a sure sign that families are struggling to make ends meet.


A lacklustre economy is causing broader problems too. Italy's infrastructure is creaking: roads, railways and airports are falling below the standards of the rest of Europe, and public and private buildings are looking ever shabbier. Educational standards have slipped: the country comes out badly in the OECD's PISA cross-national comparisons, and no Italian university now makes it into the world's top 90. Spending on research and development is low by international standards.


Italy has also suffered more than its fair share of corporate scandals, notably the bond default by Cirio and the collapse of Parmalat. And the public finances are in a shambles. Respectable estimates put the underlying budget deficit for next year, ignoring one-off measures, at 5% of GDP, way above the 3% ceiling set by the euro area's stability and growth pact. The public debt stands at over 120% of GDP and is no longer falling.


Even Italy's social fabric is coming under strain. The family remains strong and divorce rates are relatively low. But the fact that 40% of Italians aged 30-34 are reportedly living with their parents is not just a happy sign of family harmony or attachment to mamma's cooking. Many young Italians stay at home because they cannot find work or because they do not earn enough to afford a place of their own.


Social trust, a concept that is admittedly hard to measure, seems unusually low in Italy—one reason, perhaps, why family firms have always played such a big part in the economy. And respect for the rules, and even the law, never high, appears to have fallen further in recent years. Both tax evasion and illegal building, encouraged by repeated amnesties, seem to be on the rise. Organised crime and corruption remain entrenched, especially in the south.


To cap it all, Italy's demographics look terrible. The country has one of the lowest birth rates in western Europe, at an average of 1.3 children per woman, and the population is now shrinking; yet Italians are living ever longer, so it is also ageing rapidly. The economic consequences—too many pensioners, not enough workers to maintain them—are worrying enough on their own. What makes them worse is Italians' low rate of participation in work. Only 57% of those in the 15-64 age range are in employment, the smallest proportion in western Europe. Germany, by comparison, has an employment rate of 66%, and Britain one of 73%. Although overall unemployment in Italy is not too bad by west European standards, it is disturbingly high among the young and in the south.


Berlusconi's legacy


What has gone wrong with the Italian economy, and how can it be put right? These are the main questions this survey will seek to answer. But it will do so in the context of Italy's unruly political scene. Silvio Berlusconi's centre-right government, elected in May 2001, seems likely to manage the rare feat of staying in office for a full term (ending next spring)—a first for a post-war government in Italy. Mr Berlusconi is immensely proud of this. But he has much less to be proud of when it comes to the economy. In his 2001 election campaign, he promised to apply the business acumen that had helped him to become Italy's richest man to make all Italians richer. This he has conspicuously failed to do.


The Economist's view of Mr Berlusconi is well known. We declared in April 2001 that he was unfit to lead Italy, because of the morass of legal cases brought against him at various stages of his business career and because of the conflicts of interest inherent in his ownership of Italy's three main private television channels. Almost five years on, he still faces legal problems (of which more later), and he has done little to resolve his conflicts of interest: indeed, because the government owns RAI, the state broadcaster, Mr Berlusconi now controls or influences some 90% of Italian terrestrial television (which does not stop him complaining about his critics on TV). Our verdict of April 2001 stands.


Yet, as we acknowledged at the time, in 2001 there was nevertheless a case to be made for electing Mr Berlusconi's centre-right coalition. Italy badly needed a dose of pro-market reforms, liberalisation, privatisation, deregulation and a shake-up of the public administration, all of which Mr Berlusconi had promised. He even pledged to cut taxes. A majority of Italian voters, backed by much of Italian business, were willing to overlook both his legal entanglements and his conflicts of interest and give him a chance to reform the country. But as the next election approaches, very little of what he promised has been delivered, so many of his erstwhile supporters are feeling disillusioned.


Even the apparent political stability that Mr Berlusconi has fostered is deceptive. His six-party centre-right coalition has come close to collapse more than once, usually thanks to squabbling between Umberto Bossi's Northern League and Gianfranco Fini's National Alliance. Last April a row with a smaller ally, the Union of Centre and Christian Democrats, forced Mr Berlusconi to resign and form a new government.


On current form the centre-left opposition under Romano Prodi looks the likeliest victor in the election planned for April 9th 2006. But even if he manages to win, Mr Prodi will find it hard to introduce reforms—not least because his coalition embraces no fewer than nine parties, several of which will obstruct change. It was an ally of Mr Prodi's, Fausto Bertinotti, and his unreconstructed Communists that pushed him out of office in 1998. In truth, neither of the two main groupings in Italian politics offers much hope to those who believe that the country needs radical (and painful) reform.


Yet Italy is approaching a crunch. Rather like Venice in the 18th century, it has coasted for too long on the back of its past success. Again like Venice, it has lost many of the economic advantages which underpinned that success. For Venice, it was a near-monopoly on trade with the East that paid for the creation of its beautiful palaces and churches; today's Italy has benefited hugely from a combination of low-cost labour and a switch of workers away from low-productivity farming (and the south) into manufacturing (mostly in the north). But such good things invariably come to an end.



That is what happened to La Serenissima at the end of the 18th century. Venice was contemptuously swept away by Napoleon, and the last doge voted himself out of office. The serene republic is now little more than a tourist attraction, however beguiling. Could this become the fate of Italy as a whole?


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3 commenti:

  1. non seguo molto le vicende politiche,ma capisco da sola che quella che viviamo non è una bella situazione e che può esserci un crollo economico da un momento all'altro. Credo che essere ancorati all'Europa ci darà una mano, ma temo che non ci sarà un governo "migliore" di questo perché i danni di questo sono veramente tanti.
    ciao rosi

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  2. che vergogna!!!!
    Ma, come sempre, io voglio essere ottimista...
    Credo nell'intelligenza degli italiani, credo nel loro buonsenso, credo che ci siano ancora persone che, come Scalfaro, che abbiano il coraggio di testimoniare il clima in cui nacque la Costituzione...credo che la memoria di una rovinosa dittatura sia ancora tanto vicina che la gente la tema ancora....
    C'è solo da aspettare qualche mese...poi noi italiani dimostreremo al mondo che abbiamo una testa...e un orgoglio!!!!!

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  3. Riesco solo a lasciarti un boccone di lirica. Tratta da "Quasi un madrigale" di S. Quasimodo




    Il girasole piega a occidente
    e già precipita il giorno nel suo
    occhio in rovina e l'aria dell'estate
    s'addensa e già curva le foglie e il fumo
    dei cantieri. S'allontana con scorrere
    secco di nubi e stridere di fulmini
    quest'ultimo gioco del cielo. Ancora,
    e da anni, cara, ci ferma il mutarsi
    degli alberi stretti dentro la cerchia
    dei Navigli. Ma è sempre il nostro giorno
    e sempre quel sole che se ne va
    con il filo del suo raggio affettuoso.

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