Che cosa indica e come si traduce la parola inglese
whistleblower?
Quesito:
Nel mese di febbraio di quest’anno (2014), la
redazione del quotidiano “Pagina 99” si è rivolta all’Accademia della
Crusca per avere un parere su come tradurre in italiano il termine
inglese whistleblower. Abbiamo risposto con una nota lessicale
pubblicata dallo stesso quotidiano il 28 febbraio 2014: la riproponiamo
qui con alcuni ampliamenti e aggiornamenti.
Che cosa indica e come si traduce la parola inglese whistleblower?
Alla domanda secca “come si traduce in italiano la parola whistleblower?”, una prima essenziale e altrettanto secca risposta è che, al momento, nel lessico italiano non esiste una parola semanticamente equivalente al termine angloamericano. Manca la parola, ma è innanzitutto il concetto designato a essere poco familiare presso l’opinione pubblica italiana. L’assenza di un traducente adeguato è, in effetti, il riflesso linguistico della mancanza, all’interno del contesto socio-culturale italiano, di un riconoscimento stabile della “cosa” a cui la parola fa riferimento. Infatti, per ragioni storiche, socio-politiche, culturali – che qui non è il caso di discutere – in Italia, ciò che la parola whistleblower designa non è stato oggetto di attenzione specifica, riflessione teorica o dibattito pubblico, almeno fino a tempi recentissimi.
Chi è il whistleblower?
In inglese la parola whistleblower indica ‘una persona che lavorando all’interno di un’organizzazione, di un’azienda pubblica o privata si trova ad essere testimone di un comportamento irregolare, illegale, potenzialmente dannoso per la collettività e decide di segnalarlo all’interno dell’azienda stessa o all’autorità giudiziaria o all’attenzione dei media, per porre fine a quel comportamento’. Si tratta di una definizione di massima di fronte alla quale chi non abbia familiarità con il concetto fa fatica ad individuare un referente preciso. A chi si applica in concreto la definizione? Per esempio al dipendente dell’ufficio contabilità di un ente o di un’azienda che si accorge di un buco nel bilancio o al ricercatore di una casa farmaceutica che è a conoscenza del fatto che il farmaco che sta per essere lanciato sul mercato non ha superato tutti i test di controllo e può avere effetti collaterali pericolosi e non dichiarati. E queste persone decidono di non poter/voler tenere per sé le informazioni di cui sono in possesso e le riportano al superiore, al direttore o a una qualche autorità che abbia il potere di intervenire per bloccare il comportamento illecito e le sue conseguenze. Gli esempi sono generici, fittizi e potrebbero moltiplicarsi e differenziarsi in base agli ambiti lavorativi e ai tipi di azioni illegali perpetrabili.
La questione socio-culturale e normativa
In realtà, soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, ciò che ha reso il referente in questione degno di attenzione è stato il ruolo che una figura come quella definita ed esemplificata sopra ha o può avere nel portare allo scoperto, combattere e disincentivare fenomeni di corruzione su grande e piccola scala. Un altro aspetto chiave è che la scelta di denunciare irregolarità e comportamenti illegali riscontrati sul luogo di lavoro comporta spesso (se non sempre), e a tutte le latitudini, ritorsioni e conseguenze negative per chi denuncia e, dunque, in tempi diversi e in diversi paesi, si è profilata la necessità di legiferare a tutela di queste persone. Negli Stati Uniti, un precedente concettuale e legislativo risale addirittura al 1863: si tratta del False Claim Act o legge Lincoln, che prevede una ricompensa per chi denuncia frodi ai danni del governo federale. Ma è nel Regno Unito che è stata elaborata e adottata la legge più estesa e completa in materia: il Public Interest Disclosure Act del 1998.
In Italia l’attenzione verso questo tema risale ad anni molto più recenti: dal 2009 se ne occupa stabilmente la sezione italiana di Trasparency International (organizzazione non governativa impegnata contro la corruzione), che ha prodotto le prime ricerche in ambito italiano; è recentissima l’iniziativa delle associazioni Libera e Gruppo Abele con la campagna “Riparte il futuro”; in rete, inoltre, esistono alcuni siti e blog in italiano dedicati all’argomento; domande, riflessioni e proposte, anche di tipo linguistico, affiorano in blog e forum che si occupano di terminologia o di traduzione (cfr. in particolare la pagina dedicata a quest'argomento sul blog Terminologia etc.). Infine, anche in Italia una prima parziale presa in carico del problema sul piano giuridico è testimoniata dall’art. 51 bis della Legge “anticorruzione” 190/2012, intitolato “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”.
Sta di fatto, però, che parola e concetto sono ancora confinati in circuiti informativi abbastanza ristretti o specialistici, che non raggiungono l’opinione pubblica più larga e indifferenziata.
Attestazioni sui quotidiani italiani
La copertura dei media tradizionali su questo tema ha raggiunto, infatti, posizioni di alta visibilità per lo più in relazione a persone e fatti d’oltreoceano con ricadute e risonanza internazionali (il caso Assange o il caso Snowden, per esempio). La ricerca della parola whistleblower negli archivi online di “Repubblica” e del “Corriere della sera” mostra che l’oggetto e la sua denominazione emergono carsicamente nelle pagine (per lo più economiche o, comunque interne) dei due quotidiani a partire dal 1995/2000: le prime attestazioni si trovano in un articolo breve apparso sul “Corriere” il 6/2/1995, in cui si dà notizia di una piattaforma informatica dedicata alla segnalazione di illeciti aziendali inaugurata e gestita dalla rivista economica “Fortune” (Il capo è cattivo? Fischiate Corriere della sera, sez. Economia, p. 21) e in una recensione del film Insider incentrato sulla storia del whistleblower americano Jeffrey Wigand (Quando l’etica in tv diventa suspance, “Repubblica”, sez. Spettacoli, 26/2/2000, p. 51). Il picco di attestazioni, in entrambi i quotidiani, si ha nel 2013 in seguito alle rivelazioni di Edward Snowden sull’attività di “monitoraggio dati” della National Security Agency. Non mancano tuttavia le testate che cominciano a dedicare spazio e rilievo autonomi all’argomento: si segnalano per esempio un lungo servizio pubblicato il 28/2/2014 su “Pagina 99” alle pagine 1-4 (Ci salveranno le spie. Perché i delatori proteggono dal Potere. E vanno tutelati) e un articolo sull’inserto domenicale del “Sole 24 ore” del 12/10/2014 (Whistleblowing. Soffiate per l’interesse comune).
La questione traduttivo-terminologica
In molti casi sono i giornalisti stessi a porsi il problema di come tradurre in maniera soddisfacente il termine whistleblower o il corrispondente sostantivo astratto whistleblowing (‘l’azione di denuncia compiuta dal whistleblower, il fenomeno globalmente considerato’).
Uno sguardo ad altre lingue a noi “vicine” rivela che in francese sembrano già diffusi lanceur d’alerte, denonciateur e informateur, in spagnolo alertador o denunciante, mentre in tedesco sembrerebbe più frequente il ricorso all’anglismo, pur essendo attestata la forma informant.
Se guardiamo alla forma originale, il composto inglese, parafrasabile letteralmente come ‘chi soffia (blower) nel fischietto (whistle)’, deriva dall’espressione metaforica to blow the whistle che, inizialmente(a partire dai primi anni ’30 del Novecento, stando alle attestazioni dell’Oxford English Dictionary), veniva usata col significato di ‘interrompere qualcosa bruscamente’ propriocome farebbe un arbitro con un colpo di fischietto. L’espressione acquista poi nell’uso informale, di registro basso, il senso ulteriore, connotato negativamente, di ‘vuotare il sacco, rivelare (proditoriamente) informazioni riservate e incriminanti su qualcuno’. Fino a tutti gli anni ’60 to blow the whistle e il derivato whistleblower sono espressioni basse, gergali appartenenti allo stesso campo semantico e allo stesso registro di fink, rat, squealer e dei verbi corrispondenti (cfr. Zimmer 2013). Si tratta di espressioni i cui equivalenti in italiano sono rintracciabili in parole come talpa, spione e nelle locuzioni verbali fare la spia, fare una soffiata, cantare. La letteratura sul whistleblowing in lingua inglese sembra, poi, essere concorde nell’attribuire a Ralph Nader – attivista e politico americano impegnato, fra le altre cose, nella difesa dei diritti dei consumatori – il ribaltamento di connotazione e la conseguente “ristrutturazione” semantica della famiglia lessicale di whistleblower. Nader nel 1972, in una conferenza sulla “Responsabilità professionale” così definisce il whistleblowing: “l’azione di un uomo o una donna che, credendo che l’interesse pubblico sia più importante dell’interesse dell’organizzazione di cui è al servizio, denuncia/segnala che l’organizzazione è coinvolta in un’attività irregolare, illegale, fraudolenta o dannosa” (l’originale è citato in Vandekerckhove 2006, la traduzione è nostra).
La rideterminazione semantica operata da Nader ha ristretto e specificato il significato di whistleblower, facendo diventare la parola un termine vero e proprio che individua un referente preciso, non più generico, con un tratto connotativo positivo di impegno civile, etico. L’operazione linguistico-concettuale di Nader ha avuto successo, tanto che in un supplemento del 1986, l’Oxford English Dictionary introduce le voci wistleblowing e whistle-blower, prima non registrate, accogliendole nel lessico angloamericano come termini neutri, di livello standard per indicare il referente proposto da Nader.
A riprova dell’avvenuta stabilizzazione del termine nell’accezione promossa da Nader, citiamo l’incipit di un articolo del 2013 di Ben Zimmer sul “Wall Street Journal”, che comincia con la domanda: “Is Edward Snowden, leaker of the National Security Agency's trove of data-driven secrets, a whistleblower or a traitor?”. Se ne deduce chiaramente che nel lessico americano attuale la parola whistleblower non intrattiene più una relazione di associazione o di implicazione con la parola traitor, ma una relazione di opposizione / esclusione.
Le traduzioni italiane di whistleblower
È questo il motivo principale per cui i traducenti proposti sulle pagine dei quotidiani italiani in alternativa al prestito integrale risultano inadeguati: parole come spia, delatore, talpa, informatore o anche spifferatore,soffiatore non garantiscono l’equivalenza né denotativa né connotativa con whistleblower, perché veicolano connotazioni negative di segretezza e anonimato legati a slealtà, al tradimento di un patto di fiducia, generalmente motivato da un tornaconto o un interesse personale. In nessun modo, dunque, queste voci sono associabili in italiano a un comportamento etico, virtuoso, manifestazione di senso civico.
Un’altra espressione usata per tradurre whistleblower è gola profonda: anch’essa però si rivela insoddisfacente in quanto fortemente legata nel nostro immaginario al contesto giornalistico; nel nostro lessico e nelle nostre mappe mentali una gola profonda è l’informatore anonimo che rivela informazioni “scottanti” a un giornalista, mentre il whistleblower non è una fonte anonima, anche quando la sua identità debba rimanere riservata per prevenire ritorsioni, e i media non sono il suo canale unico né privilegiato.
Sono stati tentati anche (pseudo)calchi come fischietto, fischiettista, fischiettatore o, addirittura, fischiettore. Di queste forme l’unica accettabile potrebbe essere fischietto già usata con valore metonimico nel gergo giornalistico sportivo per indicare l’arbitro (per lo più di calcio), figura a cui il referente di whistleblower è metaforicamente associabile. Resta problematica però la scarsa trasparenza e dunque l’ambiguità della designazione che non possiede tratti semantici che aiutino a identificare la figura nei suoi aspetti caratterizzanti, oltre al fatto che la metonimia fischietto,quand’anche fosse specificata da un determinante come per esempio anticorruzione, difficilmente varcherebbe la soglia del registro “brillante” di tipo giornalistico per entrare nel serbatoio del lessico comune di medio-alta formalità.
Sono attestate anche proposte come vedetta civica o sentinella civica, reperibili all’interno della prima ricerca pubblicata da Trasparency International Italia intitolata Protezione delle vedette civiche: il ruolo del whistleblowing in Italia del 2009, ma queste designazioni non hanno avuto fortuna, tant’è che nelle pubblicazioni successive le forme non sono state rilanciate, forse anche perché le parole sentinella e vedetta rimandano all’idea di un ruolo codificato, istituzionalizzato, quasi professionalizzato e non di una scelta che si potrebbe presentare a chiunque.
Restano le opzioni lessicali più neutre di denunciatore / denunciante, segnalatore / segnalante, quest’ultima compare tra l’altro nel testo di legge sopra menzionato insieme alla perifrasi ‘dipendente pubblico che segnala illeciti’ ed è quindi l’unica forma a essere stata in qualche modo “ufficializzata”. Anche queste forme hanno il “difetto” di essere parole generiche dal significato ampio e vago, ma in questo caso potrebbe funzionare la scelta di determinarle combinandole con un aggettivo come quello sopra proposto: il denunciante o segnalante anticorruzione potrebbe essere il whistleblower italiano, con il vantaggio di avere a disposizione anche la forma simmetrica denuncia / segnalazione anticorruzione per il sostantivo astratto whistleblowing.
Resta il fatto che le parole non entrano nel lessico di una lingua e negli usi di una comunità per imposizione dall’alto: soltanto il progredire del dibattito intorno al tema e l’intensificarsi dell’interesse pubblico per la “cosa” designata consentirà di sviluppare e radicare una designazione linguistica condivisa.
Per approfondimenti:
A cura di Maria Cristina Torchia
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca
Che cosa indica e come si traduce la parola inglese whistleblower?
Alla domanda secca “come si traduce in italiano la parola whistleblower?”, una prima essenziale e altrettanto secca risposta è che, al momento, nel lessico italiano non esiste una parola semanticamente equivalente al termine angloamericano. Manca la parola, ma è innanzitutto il concetto designato a essere poco familiare presso l’opinione pubblica italiana. L’assenza di un traducente adeguato è, in effetti, il riflesso linguistico della mancanza, all’interno del contesto socio-culturale italiano, di un riconoscimento stabile della “cosa” a cui la parola fa riferimento. Infatti, per ragioni storiche, socio-politiche, culturali – che qui non è il caso di discutere – in Italia, ciò che la parola whistleblower designa non è stato oggetto di attenzione specifica, riflessione teorica o dibattito pubblico, almeno fino a tempi recentissimi.
Chi è il whistleblower?
In inglese la parola whistleblower indica ‘una persona che lavorando all’interno di un’organizzazione, di un’azienda pubblica o privata si trova ad essere testimone di un comportamento irregolare, illegale, potenzialmente dannoso per la collettività e decide di segnalarlo all’interno dell’azienda stessa o all’autorità giudiziaria o all’attenzione dei media, per porre fine a quel comportamento’. Si tratta di una definizione di massima di fronte alla quale chi non abbia familiarità con il concetto fa fatica ad individuare un referente preciso. A chi si applica in concreto la definizione? Per esempio al dipendente dell’ufficio contabilità di un ente o di un’azienda che si accorge di un buco nel bilancio o al ricercatore di una casa farmaceutica che è a conoscenza del fatto che il farmaco che sta per essere lanciato sul mercato non ha superato tutti i test di controllo e può avere effetti collaterali pericolosi e non dichiarati. E queste persone decidono di non poter/voler tenere per sé le informazioni di cui sono in possesso e le riportano al superiore, al direttore o a una qualche autorità che abbia il potere di intervenire per bloccare il comportamento illecito e le sue conseguenze. Gli esempi sono generici, fittizi e potrebbero moltiplicarsi e differenziarsi in base agli ambiti lavorativi e ai tipi di azioni illegali perpetrabili.
La questione socio-culturale e normativa
In realtà, soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, ciò che ha reso il referente in questione degno di attenzione è stato il ruolo che una figura come quella definita ed esemplificata sopra ha o può avere nel portare allo scoperto, combattere e disincentivare fenomeni di corruzione su grande e piccola scala. Un altro aspetto chiave è che la scelta di denunciare irregolarità e comportamenti illegali riscontrati sul luogo di lavoro comporta spesso (se non sempre), e a tutte le latitudini, ritorsioni e conseguenze negative per chi denuncia e, dunque, in tempi diversi e in diversi paesi, si è profilata la necessità di legiferare a tutela di queste persone. Negli Stati Uniti, un precedente concettuale e legislativo risale addirittura al 1863: si tratta del False Claim Act o legge Lincoln, che prevede una ricompensa per chi denuncia frodi ai danni del governo federale. Ma è nel Regno Unito che è stata elaborata e adottata la legge più estesa e completa in materia: il Public Interest Disclosure Act del 1998.
In Italia l’attenzione verso questo tema risale ad anni molto più recenti: dal 2009 se ne occupa stabilmente la sezione italiana di Trasparency International (organizzazione non governativa impegnata contro la corruzione), che ha prodotto le prime ricerche in ambito italiano; è recentissima l’iniziativa delle associazioni Libera e Gruppo Abele con la campagna “Riparte il futuro”; in rete, inoltre, esistono alcuni siti e blog in italiano dedicati all’argomento; domande, riflessioni e proposte, anche di tipo linguistico, affiorano in blog e forum che si occupano di terminologia o di traduzione (cfr. in particolare la pagina dedicata a quest'argomento sul blog Terminologia etc.). Infine, anche in Italia una prima parziale presa in carico del problema sul piano giuridico è testimoniata dall’art. 51 bis della Legge “anticorruzione” 190/2012, intitolato “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”.
Sta di fatto, però, che parola e concetto sono ancora confinati in circuiti informativi abbastanza ristretti o specialistici, che non raggiungono l’opinione pubblica più larga e indifferenziata.
Attestazioni sui quotidiani italiani
La copertura dei media tradizionali su questo tema ha raggiunto, infatti, posizioni di alta visibilità per lo più in relazione a persone e fatti d’oltreoceano con ricadute e risonanza internazionali (il caso Assange o il caso Snowden, per esempio). La ricerca della parola whistleblower negli archivi online di “Repubblica” e del “Corriere della sera” mostra che l’oggetto e la sua denominazione emergono carsicamente nelle pagine (per lo più economiche o, comunque interne) dei due quotidiani a partire dal 1995/2000: le prime attestazioni si trovano in un articolo breve apparso sul “Corriere” il 6/2/1995, in cui si dà notizia di una piattaforma informatica dedicata alla segnalazione di illeciti aziendali inaugurata e gestita dalla rivista economica “Fortune” (Il capo è cattivo? Fischiate Corriere della sera, sez. Economia, p. 21) e in una recensione del film Insider incentrato sulla storia del whistleblower americano Jeffrey Wigand (Quando l’etica in tv diventa suspance, “Repubblica”, sez. Spettacoli, 26/2/2000, p. 51). Il picco di attestazioni, in entrambi i quotidiani, si ha nel 2013 in seguito alle rivelazioni di Edward Snowden sull’attività di “monitoraggio dati” della National Security Agency. Non mancano tuttavia le testate che cominciano a dedicare spazio e rilievo autonomi all’argomento: si segnalano per esempio un lungo servizio pubblicato il 28/2/2014 su “Pagina 99” alle pagine 1-4 (Ci salveranno le spie. Perché i delatori proteggono dal Potere. E vanno tutelati) e un articolo sull’inserto domenicale del “Sole 24 ore” del 12/10/2014 (Whistleblowing. Soffiate per l’interesse comune).
La questione traduttivo-terminologica
In molti casi sono i giornalisti stessi a porsi il problema di come tradurre in maniera soddisfacente il termine whistleblower o il corrispondente sostantivo astratto whistleblowing (‘l’azione di denuncia compiuta dal whistleblower, il fenomeno globalmente considerato’).
Uno sguardo ad altre lingue a noi “vicine” rivela che in francese sembrano già diffusi lanceur d’alerte, denonciateur e informateur, in spagnolo alertador o denunciante, mentre in tedesco sembrerebbe più frequente il ricorso all’anglismo, pur essendo attestata la forma informant.
Se guardiamo alla forma originale, il composto inglese, parafrasabile letteralmente come ‘chi soffia (blower) nel fischietto (whistle)’, deriva dall’espressione metaforica to blow the whistle che, inizialmente(a partire dai primi anni ’30 del Novecento, stando alle attestazioni dell’Oxford English Dictionary), veniva usata col significato di ‘interrompere qualcosa bruscamente’ propriocome farebbe un arbitro con un colpo di fischietto. L’espressione acquista poi nell’uso informale, di registro basso, il senso ulteriore, connotato negativamente, di ‘vuotare il sacco, rivelare (proditoriamente) informazioni riservate e incriminanti su qualcuno’. Fino a tutti gli anni ’60 to blow the whistle e il derivato whistleblower sono espressioni basse, gergali appartenenti allo stesso campo semantico e allo stesso registro di fink, rat, squealer e dei verbi corrispondenti (cfr. Zimmer 2013). Si tratta di espressioni i cui equivalenti in italiano sono rintracciabili in parole come talpa, spione e nelle locuzioni verbali fare la spia, fare una soffiata, cantare. La letteratura sul whistleblowing in lingua inglese sembra, poi, essere concorde nell’attribuire a Ralph Nader – attivista e politico americano impegnato, fra le altre cose, nella difesa dei diritti dei consumatori – il ribaltamento di connotazione e la conseguente “ristrutturazione” semantica della famiglia lessicale di whistleblower. Nader nel 1972, in una conferenza sulla “Responsabilità professionale” così definisce il whistleblowing: “l’azione di un uomo o una donna che, credendo che l’interesse pubblico sia più importante dell’interesse dell’organizzazione di cui è al servizio, denuncia/segnala che l’organizzazione è coinvolta in un’attività irregolare, illegale, fraudolenta o dannosa” (l’originale è citato in Vandekerckhove 2006, la traduzione è nostra).
La rideterminazione semantica operata da Nader ha ristretto e specificato il significato di whistleblower, facendo diventare la parola un termine vero e proprio che individua un referente preciso, non più generico, con un tratto connotativo positivo di impegno civile, etico. L’operazione linguistico-concettuale di Nader ha avuto successo, tanto che in un supplemento del 1986, l’Oxford English Dictionary introduce le voci wistleblowing e whistle-blower, prima non registrate, accogliendole nel lessico angloamericano come termini neutri, di livello standard per indicare il referente proposto da Nader.
A riprova dell’avvenuta stabilizzazione del termine nell’accezione promossa da Nader, citiamo l’incipit di un articolo del 2013 di Ben Zimmer sul “Wall Street Journal”, che comincia con la domanda: “Is Edward Snowden, leaker of the National Security Agency's trove of data-driven secrets, a whistleblower or a traitor?”. Se ne deduce chiaramente che nel lessico americano attuale la parola whistleblower non intrattiene più una relazione di associazione o di implicazione con la parola traitor, ma una relazione di opposizione / esclusione.
Le traduzioni italiane di whistleblower
È questo il motivo principale per cui i traducenti proposti sulle pagine dei quotidiani italiani in alternativa al prestito integrale risultano inadeguati: parole come spia, delatore, talpa, informatore o anche spifferatore,soffiatore non garantiscono l’equivalenza né denotativa né connotativa con whistleblower, perché veicolano connotazioni negative di segretezza e anonimato legati a slealtà, al tradimento di un patto di fiducia, generalmente motivato da un tornaconto o un interesse personale. In nessun modo, dunque, queste voci sono associabili in italiano a un comportamento etico, virtuoso, manifestazione di senso civico.
Un’altra espressione usata per tradurre whistleblower è gola profonda: anch’essa però si rivela insoddisfacente in quanto fortemente legata nel nostro immaginario al contesto giornalistico; nel nostro lessico e nelle nostre mappe mentali una gola profonda è l’informatore anonimo che rivela informazioni “scottanti” a un giornalista, mentre il whistleblower non è una fonte anonima, anche quando la sua identità debba rimanere riservata per prevenire ritorsioni, e i media non sono il suo canale unico né privilegiato.
Sono stati tentati anche (pseudo)calchi come fischietto, fischiettista, fischiettatore o, addirittura, fischiettore. Di queste forme l’unica accettabile potrebbe essere fischietto già usata con valore metonimico nel gergo giornalistico sportivo per indicare l’arbitro (per lo più di calcio), figura a cui il referente di whistleblower è metaforicamente associabile. Resta problematica però la scarsa trasparenza e dunque l’ambiguità della designazione che non possiede tratti semantici che aiutino a identificare la figura nei suoi aspetti caratterizzanti, oltre al fatto che la metonimia fischietto,quand’anche fosse specificata da un determinante come per esempio anticorruzione, difficilmente varcherebbe la soglia del registro “brillante” di tipo giornalistico per entrare nel serbatoio del lessico comune di medio-alta formalità.
Sono attestate anche proposte come vedetta civica o sentinella civica, reperibili all’interno della prima ricerca pubblicata da Trasparency International Italia intitolata Protezione delle vedette civiche: il ruolo del whistleblowing in Italia del 2009, ma queste designazioni non hanno avuto fortuna, tant’è che nelle pubblicazioni successive le forme non sono state rilanciate, forse anche perché le parole sentinella e vedetta rimandano all’idea di un ruolo codificato, istituzionalizzato, quasi professionalizzato e non di una scelta che si potrebbe presentare a chiunque.
Restano le opzioni lessicali più neutre di denunciatore / denunciante, segnalatore / segnalante, quest’ultima compare tra l’altro nel testo di legge sopra menzionato insieme alla perifrasi ‘dipendente pubblico che segnala illeciti’ ed è quindi l’unica forma a essere stata in qualche modo “ufficializzata”. Anche queste forme hanno il “difetto” di essere parole generiche dal significato ampio e vago, ma in questo caso potrebbe funzionare la scelta di determinarle combinandole con un aggettivo come quello sopra proposto: il denunciante o segnalante anticorruzione potrebbe essere il whistleblower italiano, con il vantaggio di avere a disposizione anche la forma simmetrica denuncia / segnalazione anticorruzione per il sostantivo astratto whistleblowing.
Resta il fatto che le parole non entrano nel lessico di una lingua e negli usi di una comunità per imposizione dall’alto: soltanto il progredire del dibattito intorno al tema e l’intensificarsi dell’interesse pubblico per la “cosa” designata consentirà di sviluppare e radicare una designazione linguistica condivisa.
Per approfondimenti:
- www.whistleblowing.it
- Davide Del Monte, Giorgio Fraschini (a cura di), Un'alternativa al silenzio. Promozione delle segnalazioni nell'interesse pubblico, Transparency International Italia, 2012.
- Giorgio Fraschini, Nicoletta Parisi, Dino Rinoldi, Protezione delle "vedette civiche": il ruolo del whistleblowing in Italia, Transparency International Italia, 2009.
- Giorgio Fraschini, Nicoletta Parisi, Dino Rinoldi,Il whistleblowing. Nuovo strumento di lotta alla corruzione, Bonanno, 2011.
- Wim Vandekerckhove, Whistleblowing and Organizational Social Responsibility: A Global Assessment , Ashgate Publishing Limited, 2006.
- Ben Zimmer, The Epithet Nader Made Respectable, “The Wall Street Journal”, 12/7/2013.
A cura di Maria Cristina Torchia
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca
28 ottobre 2014
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