giovedì 31 marzo 2005

Il Manifesto Russell-Einstein

Pubblicato a Londra il 9 Luglio 1955

Bertrand Russell and Albert Einstein
Bertrand Russell e Albert Einstein


Nella tragica situazione che affronta l’umanità, noi riteniamo che gli scienziati dovrebbero riunirsi in un congresso per valutare i pericoli che sono sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito della seguente bozza di documento.


 


 Le violenze impunite del lager Bolzaneto di GIUSEPPE D'AVANZO


Amato: su Bolzaneto colpevole indifferenza di GIUSEPPE D'AVANZO


 


 


Non stiamo parlando, in questa occasione, come membri di questa o quella nazione o continente o fede religiosa, ma come esseri umani, membri della specie umana, la cui sopravvivenza è ora messa a rischio.


Il mondo è pieno di conflitti, tra cui, tralasciando i minori, spicca la titanica lotta tra Comunismo e Anti-comunismo. Quasi chiunque abbia una coscienza politica nutre  forti convinzioni a proposito di una di queste posizioni; noi vogliamo che voi, se è possibile, mettiate da parte queste convinzioni e consideriate voi stessi solo come membri di una specie biologica che ha avuto una ragguardevole storia e di cui nessuno di noi desidera la scomparsa.


Cercheremo di non dire una sola parola che possa piacere più ad un gruppo piuttosto che all’altro. Tutti, in eguale misura, sono in pericolo e se il pericolo è compreso, c’è speranza che lo si possa collettivamente evitare.


Dobbiamo cominciare a pensare in una nuova maniera. Dobbiamo imparare a chiederci non che mosse intraprendere per offrire la vittoria militare al proprio gruppo preferito, perché non ci saranno poi ulteriori mosse di questo tipo; la domanda che dobbiamo farci è: che passi fare per prevenire uno scontro militare il cui risultato sarà inevitabilmente disastroso per entrambe le parti?    


Un vasto pubblico e perfino molti personaggi autorevoli non hanno ancora capito che potrebbero restare coinvolti in una guerra di bombe nucleari. La gente ancora pensa in termini di cancellazione di città. Si è capito che le nuove bombe sono più potenti delle vecchie e che, mentre una bomba –A potrebbe cancellare Hiroshima, una bomba-H potrebbe distruggere le più grandi città, come Londra, New York o Mosca. Non c’è dubbio che, in una guerra con bombe-H, grandi città potrebbero finire rase al suolo. Ma questo è uno dei disastri minori che saremmo chiamati a fronteggiare. Se tutti, a Londra, New York e Mosca venissero sterminati, il mondo potrebbe, nel corso di pochi secoli, riprendersi dal colpo. Ma ora noi sappiamo, specialmente dopo i test alle isole Bikini, che le bombe nucleari possono gradualmente spargere distruzione su di una area ben più vasta di quanto si pensasse.


Si è proclamato con una certa autorevolezza che ora si può costruire una bomba 2.500 volte più potente di quella che ha distrutto Hiroshima.


 Una tale bomba, se esplodesse vicino al suolo terrestre o sott’acqua, emetterebbe particelle radioattive nell’atmosfera. Queste ricadono giù  gradualmente e raggiungono la superficie terrestre  sotto forma di polvere o pioggia mortifera. E’ stata questa polvere che ha contaminato i pescatori giapponesi e i loro pesci.


Nessuno sa quanto queste particelle radioattive possano diffondersi nello spazio, ma  autorevoli esperti sono unanimi nel dire che una guerra con bombe-H potrebbe eventualmente porre fine alla razza umana. Si teme che, se molte bombe-H fossero lanciate, potrebbe verificarsi uno sterminio universale, rapido solo per una minoranza, ma per la maggioranza una lenta tortura di malattie e disgregazione.


Molti avvertimenti sono stati lanciati da eminenti scienziati e da autorità in strategie militari. Nessuno di loro dirà che sono sicuri dei peggiori risultati. Quello che diranno sarà che questi risultati sono possibili, e nessuno può essere certo che non si realizzeranno. Non abbiamo ancora capito se i punti di vista degli esperti su questa questione dipendano  in qualche grado dalle loro opinioni politiche o pregiudizi.


Dipendono solo, per quanto ci hanno rivelato le nostre ricerche, da quanto è vasta la conoscenza particolare dell’esperto. Abbiamo scoperto che gli uomini che conoscono di più sono i più tristi.


Questa è allora la domanda che vi facciamo, rigida, terrificante, inevitabile: metteremo fine alla razza umana, o l’umanità rinuncerà alla guerra?


La gente non affronterà l’alternativa perché è così difficile abolire la guerra. L’abolizione della guerra richiederà disastrose limitazioni alla sovranità nazionale. Ma probabilmente la cosa che impedirà maggiormente di comprendere la situazione sarà il fatto che il termine “umanità” suona vago e astratto. La gente a malapena si rende conto che il pericolo è per loro stessi, i loro figli e i loro nipoti, e non per una vagamente spaventata umanità. Possono a malapena afferrare l’idea che loro, individualmente, e coloro che essi amano sono in pericolo imminente di perire con una lenta agonia. E così sperano che forse la guerra con la corsa a procurarsi armi sempre più moderne venga proibita. Questa speranza è illusoria. Qualsiasi accordo  sia stato raggiunto in tempo di pace per non usare le bombe-H, non sarà più considerato vincolante in tempo di guerra, ed entrambi i contendenti cercheranno di fabbricare bombe-H non appena scoppia la guerra, perché se una fazione fabbrica le bombe e l’altra no, la fazione che l’avrà fabbricate sarà inevitabilmente quella vittoriosa.


Sebbene un accordo a rinunciare alle armi atomiche come parte di  una generale riduzione degli armamenti non costituirebbe una soluzione definitiva, potrebbe servire a degli scopi importanti.


Primo, ogni accordo tra Est e Ovest va bene finchè serve ad allentare la tensione.


Secondo, l’abolizione delle armi termo-nucleari, se ogni parte credesse all’onestà dell’altra, potrebbe far scendere la paura di un attacco proditorio stile Pearl Harbour che ora costringe tutte e due le parti in uno stato di continua apprensione.


Noi dovremmo, quindi,  accogliere con piacere un tale accordo sebbene solo come un primo passo.


Molti di noi non sono neutrali, ma, come esseri umani, ci dobbiamo ricordare che, se la questione tra Est ed Ovest deve essere decisa in qualche maniera che possa soddisfare qualcuno, Comunista o Anti-comunista, Asiatico o Europeo o Americano, bianco o nero, questa questione non deve essere decisa dalla guerra. Noi desidereremmo che ciò fosse compreso sia all’Est che all’Ovest.


Ci attende, se sapremo scegliere, un continuo progresso di felicità, conoscenza e saggezza. Dovremmo invece scegliere la morte, perché non riusciamo a rinunciare alle nostre liti?


Facciamo un appello come esseri umani ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticatevi del resto. Se riuscirete a farlo si aprirà la strada verso un nuovo Paradiso; se non ci riuscirete, si spalancherà dinanzi a voi  il rischio di un’estinzione totale.


Risoluzione:


Noi invitiamo il Congresso, e con esso gli scienziati di tutto il mondo e la gente comune, a sottoscrivere la seguente risoluzione:


“In considerazione del fatto che in una qualsiasi guerra futura saranno certamente usate armi nucleari e che queste armi minacciano la continuazione dell’esistenza umana, noi invitiamo i governi del mondo a rendersi conto, e a dichiararlo pubblicamente, che il loro scopo non può essere ottenuto con una guerra mondiale, e li invitiamo di conseguenza a trovare i mezzi pacifici per la soluzione di tutti i loro motivi di contesa.



Max Born


Perry W. Bridgman


Albert Einstein


Leopold Infeld


Frederic Joliot-Curie


Herman J. Muller


Linus Pauling


Cecil F. Powell


Joseph Rotblat


Bertrand Russell


Hideki Yukawa



Oggi ho letto su L'Unità l'articolo "Einstein il pacifista". Quest'anno si celebra l' annus mirabilis dello scienziato. Einstein firmò la bozza di questo documento che gli fu proposto da Bertrand Russel pochi giorni prima di morire.


Mi propongo di partire da questo punto per riflettere sul pacifismo, che sembra diventato una parolaccia, e per contrapporre vecchi e nuovi ragionamenti alla propaganda bellica di questi nostri tempi.


Il testo originale:


 


 


 


IN the tragic situation which confronts humanity, we feel that scientists should assemble in conference to appraise the perils that have arisen as a result of the development of weapons of mass destruction, and to discuss a resolution in the spirit of the appended draft.



We are speaking on this occasion, not as members of this or that nation, continent, or creed, but as human beings, members of the species Man, whose continued existence is in doubt. The world is full of conflicts; and, overshadowing all minor conflicts, the titanic struggle between Communism and anti-Communism.


Almost everybody who is politically conscious has strong feelings about one or more of these issues; but we want you, if you can, to set aside such feelings and consider yourselves only as members of a biological species which has had a remarkable history, and whose disappearance none of us can desire.


We shall try to say no single word which should appeal to one group rather than to another. All, equally, are in peril, and, if the peril is understood, there is hope that they may collectively avert it.


We have to learn to think in a new way. We have to learn to ask ourselves, not what steps can be taken to give military victory to whatever group we prefer, for there no longer are such steps; the question we have to ask ourselves is: what steps can be taken to prevent a military contest of which the issue must be disastrous to all parties?


The general public, and even many men in positions of authority, have not realized what would be involved in a war with nuclear bombs. The general public still thinks in terms of the obliteration of cities. It is understood that the new bombs are more powerful than the old, and that, while one A-bomb could obliterate Hiroshima, one H-bomb could obliterate the largest cities, such as London, New York, and Moscow.


No doubt in an H-bomb war great cities would be obliterated. But this is one of the minor disasters that would have to be faced. If everybody in London, New York, and Moscow were exterminated, the world might, in the course of a few centuries, recover from the blow. But we now know, especially since the Bikini test, that nuclear bombs can gradually spread destruction over a very much wider area than had been supposed.


It is stated on very good authority that a bomb can now be manufactured which will be 2,500 times as powerful as that which destroyed Hiroshima. Such a bomb, if exploded near the ground or under water, sends radio-active particles into the upper air. They sink gradually and reach the surface of the earth in the form of a deadly dust or rain. It was this dust which infected the Japanese fishermen and their catch of fish. No one knows how widely such lethal radio-active particles might be diffused, but the best authorities are unanimous in saying that a war with H-bombs might possibly put an end to the human race. It is feared that if many H-bombs are used there will be universal death, sudden only for a minority, but for the majority a slow torture of disease and disintegration.


Many warnings have been uttered by eminent men of science and by authorities in military strategy. None of them will say that the worst results are certain. What they do say is that these results are possible, and no one can be sure that they will not be realized. We have not yet found that the views of experts on this question depend in any degree upon their politics or prejudices. They depend only, so far as our researches have revealed, upon the extent of the particular expert's knowledge. We have found that the men who know most are the most gloomy.


Here, then, is the problem which we present to you, stark and dreadful and inescapable: Shall we put an end to the human race; or shall mankind renounce war? People will not face this alternative because it is so difficult to abolish war.


The abolition of war will demand distasteful limitations of national sovereignty. But what perhaps impedes understanding of the situation more than anything else is that the term "mankind" feels vague and abstract. People scarcely realize in imagination that the danger is to themselves and their children and their grandchildren, and not only to a dimly apprehended humanity. They can scarcely bring themselves to grasp that they, individually, and those whom they love are in imminent danger of perishing agonizingly. And so they hope that perhaps war may be allowed to continue provided modern weapons are prohibited.


This hope is illusory. Whatever agreements not to use H-bombs had been reached in time of peace, they would no longer be considered binding in time of war, and both sides would set to work to manufacture H-bombs as soon as war broke out, for, if one side manufactured the bombs and the other did not, the side that manufactured them would inevitably be victorious.


Although an agreement to renounce nuclear weapons as part of a general reduction of armaments would not afford an ultimate solution, it would serve certain important purposes. First, any agreement between East and West is to the good in so far as it tends to diminish tension. Second, the abolition of thermo-nuclear weapons, if each side believed that the other had carried it out sincerely, would lessen the fear of a sudden attack in the style of Pearl Harbour, which at present keeps both sides in a state of nervous apprehension. We should, therefore, welcome such an agreement though only as a first step.


Most of us are not neutral in feeling, but, as human beings, we have to remember that, if the issues between East and West are to be decided in any manner that can give any possible satisfaction to anybody, whether Communist or anti-Communist, whether Asian or European or American, whether White or Black, then these issues must not be decided by war. We should wish this to be understood, both in the East and in the West.


There lies before us, if we choose, continual progress in happiness, knowledge, and wisdom. Shall we, instead, choose death, because we cannot forget our quarrels? We appeal as human beings to human beings: Remember your humanity, and forget the rest. If you can do so, the way lies open to a new Paradise; if you cannot, there lies before you the risk of universal death.



Resolution:


WE invite this Congress, and through it the scientists of the world and the general public, to subscribe to the following resolution:


"In view of the fact that in any future world war nuclear weapons will certainly be employed, and that such weapons threaten the continued existence of mankind, we urge the governments of the world to realize, and to acknowledge publicly, that their purpose cannot be furthered by a world war, and we urge them, consequently, to find peaceful means for the settlement of all matters of dispute between them."


Fonte della fotografia e del testo inglese: http://www.pugwash.org/index.htm.


Nel sito http://www.klesidra.org/progetti.htm ho trovato e copiato la traduzione del Manifesto e la nota sul movimento Pugwash.


La storia del movimento Pugwash ha cominciato con un manifesto ha pubblicato a Londra, nel mese di luglio del 1955.  È stata disegnata dal filosofo britannico Bertrand Russell ed è stata firmata da Albert Einstein in uno di ultimi atti della sua vita;  la ha firmata appena prima che è morto nel mese di aprile del 1955.  Quindi è stato firmato altri da nove scienziati, quasi tutti i laureates Nobel, da dappertutto, ma ha ha cominciato conosciuto generalmente come il manifesto di Russell-Einstein.  È un appello potente agli scienziati, ai governi ed al grande pubblico per prendere la consapevolezza della situazione pericolosa che è risultato dallo sviluppo delle armi nucleari e per fare uno sforzo impedire una catastrofe.  Molti scienziati universalmente hanno fatto parte da allora del movimento del pugwashthen. www.pugwash.org

sabato 26 marzo 2005

Il silenzio


 



 


«Vi è mai capitato quel momento di grazia in cui, stando nel profondo silenzio, si avverte una specie di sinfonia o di coro dalle innumerevoli voci? Il silenzio non è sempre, come sembra, una assenza di eloquio, potrebbe anche essere un modo di accogliere, tramite le vibrazioni della nostra struttura umana le voci dell'infinito cosmo. 'Vogliamo un tuo discorso', dissero un giorno a Buddha i suoi discepoli. Buddha prese un fiore e si alzò tenendolo in mano in silenzio. Fu quello il famoso 'sermone dei fiori' da cui trasse origine il buddhismo zen, questa grande scuola del silenzio, che prima o poi, in una forma o in un'altra, l'uomo occidentale dovrà decidersi a frequentare.
La parola che illumina nasce dal silenzio come il fulmine nasce dalla nube. Il senso della parola infatti non è di trasmettere, è di comunicare, e cioè di rilevare ciò che sta oltre la parola. Le parole occultano o svelano, trasmettono comandi o comunicano amore. Esse hanno una storia in cui si riflette l'ambivalenza dell'uomo governato da due pulsioni, quella dell'aggressività e quella della comunione.
"In principio era il logos, la parola", sta scritto. Ma si potrebbe dire altrettanto bene che in principio era il sighé, il silenzio, che è l'altro nome di Dio. Ma anche parlando dell'uomo si può dire che in lui il principio è, insieme, la parola e il silenzio. "Noi siamo doppi a noi stessi", scriveva Montaigne, nel senso che noi portiamo in noi stessi una doppia identità; siamo, come io amo dire, editi ed inediti. L'uomo inedito è l'uomo come insieme di possibilità in attesa di adempimento, di trasformarsi cioè in realtà, diventando così dicibili a tutti. Perché come Dio è un Deus abscunditus, così anche l'uomo è a se stesso abscunditus. Nascosto, ma non del tutto, perché, come dice etimologicamente la parola coscienza (con-scientia), c'è una presenza dell'io a se stesso che ha l'unico limite di non potersi esprimere con parole, ma appunto perché le parole sono gli strumenti forgiati dall'uomo edito. L'uomo edito è quello che si ritaglia nella cultura in cui si è svolta la sua formazione, che è sempre una cultura governata dalle esigenze del gruppo di appartenenza. L'uomo inedito predilige il silenzio e, anche quando parla, le sue parole si caricano dell'ispirazione alla totalità, come dire a un mondo che non è quello della cultura espressa dai vocabolari, è la vera patria dell'essere. Diceva ancora Montaigne che per quanto l'uomo perlustri il suo perimetro "non si dà comunicazione all'essere". Se mi chiedi chi è Dio, diceva Agostino, non lo so, ma se non me lo chiedi, lo so. Restare fedeli a questo versante inedito della nostra realtà umana vuol dire, poi, saper entrare nella conversazione degli uomini senza alterigia, con umiltà, accettandone le regole, ma restando in qualche modo estranei, capaci, proprio per questo, di svegliare negli altri le segrete affinità elettive e cioè la dimensione inedita che resta repressa e soffocata nella chiassosa convivenza della piazza.
La parola veramente comunicativa fiorisce ai confini dell'uomo nascosto. Solo chi ha orecchi da intendere intende e ha orecchi da intendere chi a sua volta abita nel silenzio. Nel silenzio fioriscono le immagini in cui si riflettono le nostre possibilità che non hanno né possono avere cittadinanza nella città comune, la cui legge più severa è la discriminazione tra il possibile e l'impossibile. I sogni ad occhi aperti, quelli che nascono dal silenzio in cui lo spirito si concentra al massimo in se stesso, sono le traduzioni immaginative delle possibilità che fervono in noi in attesa del loro tempo.
Ma anche Dio è, a sua volta, edito ed inedito, conosciuto e sconosciuto. Nessun nome è più funesto di quello di Dio quando diventa dio edito, il dio del gruppo, della città, emblema e garanzia di ogni potere. L'uomo inedito lo sa e non ama nominarlo. Il vero Dio è un Deus abscunditus, l'estremo corrispettivo dell'homo abscunditus. La preghiera è, nella sua intima essenza, una silenziosa corrispondenza tra l'uomo sconosciuto e il Dio sconosciuto. Non si parla di Dio, dunque, si parla a Dio, e parlando di lui le parole sono di inciampo. Nominare significa possedere, e un Dio posseduto è un idolo fatto a immagine e somiglianza dell'uomo. Il limite dell'ateo è di essere a suo modo del tutto conforme alle misure dell'uomo edito, il corrispettivo dialettico del bigotto o del clericale che fanno di Dio un punto di sostegno delle loro sicurezze pubbliche e delle loro aspettative maturate sulle pulsioni della società in cui si sono integrati. La religione è loquace e scrive il nome di Dio sui muri, la fede silenziosa lo cancella: la verità di Dio è nel momento in cui il suo nome si cancella. La preghiera è il respiro dell'uomo nascosto che si protende verso Colui che è nascosto: l'incontro, se c'è, non è dicibile. Dio non si dimostra, Dio si mostra e si mostra a chi, rinunciando a quella sottile forma di potere che è la parola, si mostra a sua volta».


Padre Ernesto Balducci, 1992


Fonte: http://italy.peacelink.org/pace/articles/art_10295.html


Dal caro amico Alain (zenblog.splinder.com) mi arriva questa splendida testimonianza:


 




"Il Buddha dichiarò: “Possiedo l’occhio del tesoro della vera legge, dell’autentico dharma, lo spirito sereno del nirvana, ed ora è trasmesso a Mahakasyapa”. Fu la prima trasmissione i shin den shin (da cuore a cuore) di questa “saggezza del Risveglio assolutamente pura, che non contiene nulla sul quale appoggiarsi". Appunto nulla, tantomeno le parole.

giovedì 24 marzo 2005

 



In memoria del vescovo Romero


 


In nome di Dio vi prego, vi scongiuro,
vi ordino: non uccidete!
Soldati, gettate le armi...
Chi ti ricorda ancora,
fratello Romero?
Ucciso infinite volte
dal loro piombo e dal nostro silenzio.
Ucciso per tutti gli uccisi;
neppure uomo,
sacerdozio che tutte le vittime
riassumi e consacri.
Ucciso perché fatto popolo:
ucciso perché facevi
cascare le braccia
ai poveri armati,
più poveri degli stessi uccisi:
per questo ancora e sempre ucciso.
Romero, tu sarai sempre ucciso,
e mai ci sarà un Etiope
che supplichi qualcuno
ad avere pietà.
Non ci sarà un potente, mai,
che abbia pietà
di queste turbe, Signore?
nessuno che non venga ucciso?
Sarà sempre così, Signore?

David Maria Turoldo


"Il 24 marzo 1980 Oscar Romero, proprio nel momento in cui sta elevando il Calice nell’Eucarestia viene assassinato. Le sue ultime parole sono ancora per la giustizia: “In questo Calice il vino diventa sangue che è stato il prezzo della salvezza. Possa questo sacrificio di Cristo darci il coraggio di offrire il nostro corpo ed il nostro sangue per la giustizia e la pace del nostro popolo.Questo momento di preghiera ci trovi saldamente uniti nella fede e nella speranza”.  Da quel giorno la gente lo chiama, lo prega, lo invoca come San Romero d’America. Sì, la profezia di Romero, il vescovo fatto popolo si è realizzata: “Se mi uccideranno – aveva detto – risorgerò nel popolo salvadoregno”.


Fonte: http://www.giovaniemissione.it/testimoni/romero2.htm



Perché ricordare la morte del vescovo Romero? Perché continua ad essere ucciso ancora oggi in ogni vittima della violenza senza fine e senza vergogna. Perché si deve continuare a non tacere. Perché il silenzio uccide.


Ieri il Senato della Repubblica ha fatto scempio della nostra Costituzione. Non tacere, continuare a non tacere, è dovere etico e politico. Ricordare l'impegno del vescovo Romero oggi per me significa anche richiamarmi a un grande esempio.



Costituzione della Repubblica italiana 


Due indicazioni importanti di cui sono grata a "laBuba" (labuba.splinder.com/) su un'opportunità di giustizia per il vescovo Romero: http://www.zmag.org/Italy/menchu-giustizia-arcivescovo.htm e, più recente:


"ecco, trovato, Alvaro Saravia è stato condannato in sede civile per favoreggiamento per l'omicidio dell'arcivescovo Romero, definito dal giudice "crimine contro l'umanità":

http://www.cja.org/cases/Romero%20Press/TrialPR9.04.htm


I fiori sono di Marzia (alchimie.splinder.com.) per il Vescovo Romero.


 

martedì 22 marzo 2005

22 Marzo, Giornata Mondiale dell'Acqua 2005



Ogni anno, il 22 marzo, l'ONU indice la Giornata Mondiale dell'Acqua,


in particolare, oggi ha inizio il


decennio internazionale Acqua per la vita 2005-2015 su iniziativa  delle Nazioni Unite. 


Per sottolineare il dovere che tutte e tutti abbiamo rispetto all'uso sostenibile delle risorse idriche del pianeta e promuovere la cooperazione internazionale affinché il diritto all’acqua sia riconosciuto a tutti gli esserei viventi, umani e non umani.  



Ieri, 21 Marzo, è stata la Giornata Mondiale della Poesia


La Conferenza Generale dell’UNESCO, in occasione della sua 30ª Sessione svoltasi a Parigi nel 1999, ha proclamato il 21 marzo Giornata Mondiale della Poesia nell’intenzione di offrire l’occasione di svolgere attività e manifestazioni finalizzate alla divulgazione e alla promozione della poesia nel mondo.


In particolare, nel documento di proclamazione della Giornata Mondiale della Poesia, viene indicato l’intento di promuovere:



























I


gli sforzi delle piccole case editrici che combattono per entrare nel mercato librario pubblicando instancabilmente le raccolte di giovani poeti;



II


il ritorno alla tradizione orale, ossia alla performance dal vivo, dato che i recital di poesia attirano un pubblico sempre più numeroso;



III


il recupero di un dialogo tra la poesia e le altre arti (quali il teatro, la danza, la musica, la pittura ecc.) imperniato su contenuti fondamentali come la cultura della pace, la non-violenza, la tolleranza ecc.;



IV


l’interdipendenza, in occasione della Giornata Mondiale della Poesia, di tutte le arti e della filosofia, anch’essa affine alla poesia, in modo da infondere nuova vita alle parole di Deklacroix, che scrisse sul suo diario: “Non c’è arte senza la poesia”;



V


l’immagine della poesia nei media, per fare in modo che la poesia non venga più considerata una forma d’arte sorpassata, bensì una maniera di esprimersi capace di permettere alla società nel suo insieme di recuperare ed affermare la sua identità.




La Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO promuove le attività previste nell’ambito della Giornata Mondiale della Poesia 2005 segnalando su questo sito le manifestazioni di divulgazione e promozione della poesia sul territorio italiano di cui è venuta a conoscenza. 


http://www.unesco.it/stampa/conf_stampa/testi/2004/giornatapoesia.htm 

lunedì 21 marzo 2005

X Giornata della memoria e dell’impegno


contro le mafie


Il 21 marzo, a Roma, Libera - Associazioni, nomi e numeri contro le mafie promuove la decima Giornata della memoria e dell’impegno. Non una semplice celebrazione, ma una dichiarazione di partecipazione e coinvolgimento in difesa dei diritti della società civile.


Non dimenticare, non arrendersi
di Luigi Ciotti*


Dieci anni fa, la prima Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie. Quest’anno, per celebrare il decimo anniversario, torniamo dove eravamo quel 21 marzo del 1996: a Roma. Fu una giornata straordinaria: non una celebrazione ma una dichiarazione di impegno per il futuro e di doverosa attenzione per il passato. Un passato che aveva, e ha, i volti e i nomi delle troppe vittime delle mafie. Un’orazione laica, che ha inteso fare della memoria l’indispensabile fondamento del futuro. Con Libera, promotrice della Giornata, con le tante associazioni e i rappresentanti delle istituzioni, a partire dall’allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, ma soprattutto con i moltissimi cittadini che intervennero. Con i parenti delle vittime, con i giovani che si susseguirono nel leggere il doloroso elenco di vite spezzate dalla violenza.
Avevamo pensato e voluto quella iniziativa come una sfida per il presente.
Una sfida, senza arroganza o presunzione. Una sfida a cominciare un percorso, a scommettere sulla partecipazione: perché solo essa è realmente capace di promuovere e difendere la legalità. Solo assieme si battono le mafie, si edificano democrazia e giustizia. Una sfida non solo alle attività criminali, agli omicidi, alle stragi, ma anche a quel “sentire” mafioso che avvelena la società, corrompendone le culture e ipotecandone il futuro.
Il futuro è nostro e si costruisce con “mattoni” di presente: per questo è importante aprire gli occhi su tutto il “positivo” che c’è: il grande sforzo della Magistratura e delle Forze dell’Ordine per contrastare le mafie, l’impegno di tanti amministratori, sindaci, assessori. Il fermento di attività che ci hanno restituito parte del territorio attraverso la confisca dei beni dei mafiosi. Ancora, l’energia del mettersi in gioco, la fatica e la gioia dello sport pulito; la condivisione di sogni e speranze. In una parola, la strada, a volte scomoda, che abbiamo fatto insieme in questi dieci anni. Abbiamo creduto alla promozione culturale e lavorato per lo sviluppo sociale, attraverso percorsi educativi.
Tutti sappiamo che la mafia non dà, toglie: ruba la vita di coloro che considera propri nemici e, assieme, la dignità, i diritti, le opportunità di tutti. L’economia criminale, concentrata nella mani di pochi, costituisce una grave sottrazione di risorse alla collettività, compresi i giovani manovali che riesce ad arruolare e che distruggono la propria e le altrui vite per un tozzo di pane.
In questi anni quante parole abbiamo detto. Le parole sono importanti per distruggere stereotipi e luoghi comuni che rafforzano le sottoculture e il “sentire” mafioso.
Però le parole non bastano, sono distanti dalla vita, dalle necessità, dai problemi reali. Sono un rumore di sottofondo che non si misura con la necessità di cambiamento. Ormai ci siamo abituati e non lo sentiamo più, storditi dai messaggi di disimpegno, dalle veline e dai telequiz che ingombrano tutti i canali e raccontano di un mondo di plastica, di immagini finte e di persone prive di verità. Non è quella la realtà, non è quello il mondo, non sono quelli i valori che i nostri ragazzi devono sentire come propri, come le cose che contano, per le quali vale la pena di vivere.
La partecipazione è un antidoto rispetto al veleno della passività, che svuota la democrazia dall’interno, come abbiamo visto in modo crescente e preoccupante negli anni più recenti. E, assieme, è difesa di fronte alle incoerenze, alla retorica, alle troppe parole vuote che addormentano le coscienze.
Noi, “a occhi aperti”, vogliamo sognare. Il sogno ci aiuta a non appiattirci nella quotidianità, a non accontentarci delle promesse, a non spegnerci nell’abitudine e nella rassegnazione. Ma il sogno deve sapersi fare segno: deve incidersi nella vita di tutti i giorni, deve trasformarsi in presente diverso, deve rendersi riconoscibile agli altri per poter essere condiviso.
Camminare assieme è la premessa e il contenuto del futuro che vogliamo. E che, anche oggi, siamo qui a disegnare. Assieme.
Proprio come dieci anni fa, nello stesso Campidoglio, nello stesso primo giorno di primavera.
La primavera è un annuncio che bisogna vivere, annusandone gli odori e riconoscendone i colori.
Dieci anni fa erano qui con noi alcuni amici, che ci mancano molto. Antonino Caponnetto – “Nonno Nino”, per come hanno imparato a conoscerlo tantissimi giovani – e Saveria Antiochia, la mamma di Roberto, l’agente di polizia ucciso a Palermo insieme al commissario Cassarà. E poi con noi c’era anche Gianmario Missaglia, una delle anime fondatrici della nostra associazione, e Tom Benettollo, indimenticabile presidente dell’Arci.
Questa giornata è dedicata anche a loro: ai giovani di ieri e a quelli di oggi, accomunati dalle difficoltà di comunicazione con il mondo degli adulti, dalla mancanza di luoghi in cui riconoscersi e operare, di opportunità rubate e tuttora negate. Accomunati anche dalle preoccupazioni.
Non si può evitare di essere preoccupati davanti a una crisi di legalità impressionante e inedita, che incrina la democrazia sin nel suo fondamento e nei contenuti della Carta Costituzionale.
Non si può non essere preoccupati, se guardiamo alle fatiche della politica nell’interpretare la società, nel fornire risposte, nel rendersi credibile e autorevole.
Però la preoccupazione non può zittire la nostra voce o fermare il nostro cammino lungo, faticoso, denso di rischi e di delusioni. Ma anche capace di darci senso e coraggio. In questi dieci anni abbiamo fatto tappa a Niscemi, Reggio Calabria, Corleone, Casarano, Torre Annunziata, Nuoro, Modena, Gela.
Ora siamo di nuovo a Roma. Più stanchi e preoccupati, ma non meno determinati.
Perché il nostro sogno si fa segno. Le parole, fecondate dalla coerenza, diventano vita, reciprocità, costruzione di futuro. Condivisione e memoria. Impegno e promessa.
E tutto ciò è scritto non sulla sabbia ma nella carne viva di ciascuno. Per questo denunciamo le nostre preoccupazioni ma non ci ritiriamo nelle nostre case o nelle nostre chiese.
Dopo dieci anni non dobbiamo stare zitti, né fermarci, non possiamo dimenticare, né arrenderci.



*presidente di Libera

mercoledì 16 marzo 2005

Per cominciare un link tratto dal blog di Sahishin: ricordo di Rachel Corrie, perché la sua agghiacciante morte non sia inutile.


E poi ...


"Siamo sulla cuspide di un rinascimento biologio o


stiamo spargendo i semi della nostra distruzione?"


Con questa domanda Jeremy Rifkin chiude un articolo che mi ha messo addosso una grande paura. Rifkin è il fondatore e il presidente della Foundation on Economic Trends di Washington. La sua attività è molto vasta e ha una grande influenza in tutto il mondo.



Uomini o Topi



di Jeremy Rifkin

Sperimentazioni celate stanno creando ibridi animal-umani. Questa volta la scienza si è davvero spinta troppo oltre.


Cosa succede a incrociare un uomo con un topo? Sembra l’inizio di una freddura di pessimo gusto ma, nella realtà, è un esperimento vero, recentemente condotto da un team di scienziati guidati da un importante biologo molecolare, Irving Weissman, della Stanford University.



 




 



Gli scienziati hanno iniettato cellule di cervello umano nei feti di topo, creando topi che sono approssimativamente umani per l’1%. Weissman sta considerando di poter arrivare a creare topi il cui cervello sia al 100% umano.


Che accadrebbe se un topo così scappasse dal laboratorio e cominciasse a riprodursi? Quali sarebbero le conseguenze ecologiche di un topo che ragiona come un essere umano, libero in natura? Weissman dichiara che controllerebbe con la massima attenzione i topi e se essi mostrassero qualunque segno di umanità, li ucciderebbe. Poco rassicurante.


Esperimenti in grado di produrre topi parzialmente umani forzano i limiti dell’armeggiare umano sulla natura, sino al patologico.
Il nuovo campo di ricerca che porta all’estremo limite la rivoluzione biotech viene chiamata sperimentazione chimerica. Ricercatori di varie parti del globo stanno combinando cellule umane e animali creando creature chimeriche, in parte umane, in parte animali.


La prima sperimentazione chimerica si svolse molti anni fa, quando degli scienziati di Edimburgo fusero un embrione di pecora con uno di capra, due specie animali non imparentate e incapaci di accoppiarsi creando degli ibridi. La creatura che ne risultò aveva la testa di una capra e il corpo di una pecora.


Ora gli scienziati si sono proposti di infrangere l’ultimo taboo del mondo naturale: l’incrocio tra umani e animali per arrivare alla creazione di nuovi ibridi animal-umani. Già ora, oltre al topo umanizzato, hanno creato maiali con sangue umano e pecore con fegato e cuore quasi completamente umani.


Gli esperimenti sono finalizzati a far progredire la ricerca medica. In effetti, un numero crescente di ingegneri genetici afferma che gli ibridi animal-umani condurranno a un era d’oro della medicina. I ricercatori sostengono che più potranno rendere gli animali umani, più saranno in grado di controllare i mali dell’uomo, di testare nuovi farmaci, di produrre tessuti e organi per i trapianti. Quello che evitano di dire è che esistono alternative altrettanto promettenti e di gran lunga meno invasive a questi bizzarri esperimenti, inclusi modelli al computer, cultura di tessuti in vitro, nanotecnologia e protesi che possono sostituire i tessuti umani e gli organi.


Alcuni ricercatori stanno meditando sulla chimera scimpanzè-umana, uno scimpuomo. Sarebbe l'esperimento perfetto perchè gli scimpanzè sono molto simili a noi. Condividiamo il 98% dei geni e uno scimpanzè adulto ha le stesse capacità mentali di un bambino umano di sei anni.


Fondendo un embrione umano con uno di scimpanzè – e i ricercatori sostengono sia fattibile- si creerebbe una creatura talmente umana da porre quesiti sul suo status morale e legale, quesiti tali da gettare 4000 anni di creazione di un’etica nel caos. Lo Simpuomo avrebbe i diritti di un essere umano? Dovrebbe superare qualche test “ominizzante” per guadagnarsi la libertà? Verrebbe utilizzato per i lavori più umili o per le attività più pericolose?


Le possibilità sono impressionanti. Per esempio, che succede se le cellule staminali dell’uomo, cellule primordiali che generano i 200 tipi di cellule del corpo, vengono iniettate in un embrione animale generando cellule umane in tutto il corpo, in ogni organo? Alcune di queste cellule possono migrare nei testicoli e nelle ovaie e diventare sperma umano, ovuli umani. Unendosi due di questi animali chimerici potrebbero generare un embrione umano. Questo embrione, impiantato in un utero in grado di farlo crescere, farebbe nascere un bimbo umano i cui genitori sono topi.


Occorre capire che tutto questo non è fantascienza. La National Academy of Sciences, il più augusto centro scientifico americano, si ritiene diffonderà il mese prossimo le linee guida per la sperimentazione chimerica, dando il via a un’ondata di nuovi esperimenti nel campo della ricerca sugli ibridi.


I bioetici stanno già chiarendo il percorso morale da seguire per le sperimentazioni chimeriche che coinvolgono l’uomo, sostenendo che una volta che la società avrà superato la repulsione morale, creature parzialmente umane avranno molto da offrire alla razza umana. E, certamente, questo è lo stesso tipo di ragionamento al quale è stata data la priorità per giustificare quello che sta velocemente diventando un viaggio in un nuovo mondo d’azzardo, nel quale tutta la natura può essere brutalmente manipolata. Già ora, con la sperimentazione chimerica animal-umana, rischiamo di minare l’integrità biologica della nostra stessa specie, in nome del progresso.


Con la tecnologia chimerica gli scienziati hanno il potere di riscrivere la saga evolutiva – diffondendo parti della nostra specie nel resto del regno animale e fondendo le altre specie con i nostri geni, creando nuove sotto-specie umane e super-specie. Siamo sulla cuspide di un rinascimento biologio o stiamo spargendo i semi della nostra distruzione?







Fonte: http://www.commondreams.org/views05/0315-28.htm
Traduzione di Nuovi Mondi Media


Immagine dal sito: http://epl.meei.harvard.edu/~bard/chimera/


lunedì 14 marzo 2005

Le armi nucleari e NOI


Nuclear Weapons & Waste


For more than 25 years, NRDC has played a major role in the formation of U.S. nuclear nonproliferation, arms control, energy, and environmental policies. In addition we have established vital precedents in the application of environmental laws to U.S. nuclear and national security programs. Our overarching goal is the reduction, and ultimate elimination, of unacceptable risks to people and the environment from the exploitation of nuclear energy for both military and peaceful purposes.


Ho trovato questa immagine e l'annessa didascalia nel sito del

 



Natural Resources Defense Council


http://www.nrdc.org/


sito che consiglio di visitare perché contiene molte informazioni sulla situazione del nostro pianeta e, quindi, della nostra sopravvivenza, determinata da una politica che ciascuno di noi potrà giudicare.


La situazione in Europa è illustrata dalla seguente cartina:



I discorsi egoistici hanno meno senso che mai in questioni di questo genere, tuttavia lasciate che 'umanamente' mi senta particolarmente minacciata, e anche offesa, dalla presenza di armi nucleari a Ghedi di Torre e ad Aviano. Ma come? Noi non abbiamo centrali nucleari per la produzione di energia e ci teniamo in casa il nucleare a scopi bellici? A che titolo? In base a quale trattato? Con il permesso di chi? E potremmo liberarcene, se lo volessimo? Datemi pure dell'ignorante, me lo merito. Ma vorrei cominciare a venire fuori da questa 'ignoranza'.


Oltre al sito del NATURAL RESOURCES DEFNSE COUNCIL, mi è capitato di leggere un articolo di Noam Chomsky pubblicato in http://www.zmag.org/Italy/chomsky-terrorenucleareinterno.htm.



Il terrore nucleare all’interno
I laboratori nucleari e il destino del pianeta.


Noam Chomsky


Se degli esseri razionali potessero osservare da Marte questa strana specie, che abita qui sul nostro pianeta, non penso che ci darebbero molte possibilità di sopravvivere per una o due altre generazioni. Infatti è miracoloso che siamo sopravvissuti così a lungo.

 



Il mondo negli anni recenti è arrivato molto vicino alla distruzione totale per guerra nucleare. Il New Mexico in questo gioca un ruolo importante. C’è una serie di casi, in cui la guerra è stata evitata quasi per miracolo. E la minaccia è in crescita come conseguenza della politica consapevolmente perseguita dall’amministrazione.

 



Il Segretario USA alla Difesa Donald Rumsfeld capisce perfettamente che questa politica aumenta la minaccia della distruzione. Come è noto, non è un evento ad alta probabilità, ma se un evento a bassa probabilità continua a verificarsi, c’è un’alta probabilità che prima o poi accadrà.

 



Se si vuole fare una classificazione dei problemi in relazione alla loro importanza, ci sono letteralmente alcuni problemi relativi alla sopravvivenza del genere umano e sono incombenti. La guerra nucleare è un problema legato alla sopravvivenza della specie e i pericoli sono gravi da molto tempo in qua.

 



Si è arrivati al punto che sui giornali più moderati e rispettabili si possono leggere, scritti da analisti strategici di primo piano, moniti sul fatto che l’attuale atteggiamento americano - la trasformazione dell’apparato militare - aumenta la possibilità di quello che vien chiamato il “giudizio universale” e non in tempi molto lontani. Questo perché determina l’apertura di un ciclo di azione-reazione, sulla base della risposta degli altri. Cosa che ci induce a adottare e a fidarci sempre più di meccanismi di reazione rapida, che hanno un’immensa capacità distruttiva.

 



La militarizzazione dello spazio potrebbe effettivamente condannare il genere umano. Viene portata avanti con forza. Questo è un problema, sul quale è necessario un maggiore impegno ed è enorme nel New Mexico. Il New Mexico è uno dei centri, dove questa potenziale distruzione del genere umano prende corpo.

 



C’è un documento, intitolato “Elementi essenziali di deterrenza dopo la guerra fredda”, redatto durante gli anni di Clinton dal Comando Strategico, che è responsabile delle armi nucleari. È uno dei documenti più terrificanti, cha abbia mai letto. La gente non vi ha fatto caso.

 



Il Comando Strategico si domanda come dovremmo ricostruire il nostro nucleare e le altre forze per la fase successiva alla Guerra Fredda. E le conclusioni sono che dobbiamo affidarci soprattutto alle armi nucleari, perché - diversamente da altre armi di distruzioni di massa, come quelle biologiche o quelle chimiche - gli effetti delle armi nucleari sono immediati, devastanti, travolgenti. Non solo distruttivi, ma terrificanti. Così devono essere il nucleo essenziale di quella, che si chiama deterrenza.

 



Tutto significa l’opposto di quello che dichiara. Deterrenza significa che il nostro atteggiamento offensivo si dovrebbe fondare essenzialmente sulle armi nucleari, perché sono così distruttive e terrificanti. E inoltre proprio il possesso di una grande quantità di forza nucleare getta un’ombra su ogni conflitto internazionale, come se la gente avesse paura di noi, perché abbiamo questa forza soverchiante.

 



Dobbiamo come nazione impersonare l’irrazionalità, con forze fuori controllo, così da terrorizzare chiunque, poi possiamo ottenere quello che vogliamo. E inoltre abbiamo ragione di essere terrorizzati, perché proprio davanti a noi avremo queste armi nucleari, che li faranno saltare tutti in aria: infatti, faranno saltare in aria tutti noi, se finiranno fuori controllo.

 



Se si legge la previsione per il 2020, pubblicata dall’Amministrazione Spaziale, afferma che la nuova frontiera è lo spazio e che dobbiamo ottenere il controllo dello spazio a scopi militari e assicurarci di non avere concorrenti. Vuol dire strumenti di rapida distruzione di massa collocati nello spazio.

 



Nel 1967 c’è stato un trattato sullo spazio esterno, privo di efficacia, ma che esige la salvaguardia dello spazio per scopi pacifici. Al Comitato per il Disarmo dell’Assemblea Generale dell’ONU ci sono stati tentativi di rafforzarlo. Ma sono stati bloccati unilateralmente dagli Stati Uniti. Gli Stati Uniti sono i soli a opporsi alla votazione di una risoluzione dell’Assemblea Generale ed è stata bloccata dal 2000. I Cinesi sono gli unici a far pressione per una sua estensione. Di ciò negli Stati Uniti non si dà notizia. Nel 2000 è stato riportato da un solo giornale, un piccolo quotidiano dello Utah.

 



Suppongo che l’intero pianeta sia coperto - è molto probabile che lo sia - da sofisticati meccanismi di controllo e da un intero sistema di un complesso, letale, distruttivo armamento, in grado di attaccare dallo spazio qualsiasi cosa. Questo vuol dire armi nucleari nello spazio - fonti di energia nucleare nello spazio -, che possono sfuggire al controllo, esplodere e chissà cosa può accadere.

 



Quando l’amministrazione Bush è entrata in carica, hanno reso la cosa ancora più pericolosa. Sono passati dalla dottrina di Clinton sul controllo dello spazio a quello, che chiamano, possesso dello spazio, che vuol dire - stando alle loro parole - “ingaggio immediato dovunque” o distruzione senza preavviso di ogni regione della Terra.


martedì 8 marzo 2005

U.S. Checkpoints Raise Ire in Iraq
Chris Hondros/Getty Images


Two children are held by G.I.'s after their parents were killed when soldiers fired on the family's car near Tal Afar, Iraq, on Jan. 18.


By JOHN F. BURNS

Published: March 7, 2005


BAGHDAD, Iraq, March 6 - When an Italian journalist was driven up Baghdad's airport road toward an American military checkpoint on Friday night, she was driving into a situation fraught with hazards thousands of Iraqis face every day.


The journalist, Giuliana Sgrena, 56, ran into fierce American gunfire that left her with a shrapnel wound to her shoulder and killed the Italian intelligence agent sitting beside her in the rear seat. She had been released only 35 minutes earlier by Iraqi kidnappers who had held her hostage for a month, and the car carrying them to the airport was driving in pitch dark.


But the conditions for the journey, up a road that is considered the most dangerous in Iraq, were broadly the same as those facing all civilian drivers approaching American checkpoints or convoys. American soldiers operate under rules of engagement that give them authority to open fire whenever they have reason to believe that they or others in their unit may be at risk of suicide bombings or other insurgent attacks.


Next to the scandal of prisoner abuse at Abu Ghraib, no other aspect of the American military presence in Iraq has caused such widespread dismay and anger among Iraqis, judging by their frequent outbursts on the subject. Daily reports compiled by Western security companies chronicle many incidents in which Iraqis with no apparent connection to the insurgency are killed or wounded by American troops who have opened fire on suspicion that the Iraqis were engaged in a terrorist attack.


Accounts of the incidents vary widely, as they have in the incident involving Ms. Sgrena, with the American command emphasizing aspects of drivers' behavior that aroused legitimate concerns, and survivors saying, often, that they were doing nothing threatening. Since few of the incidents are ever formally investigated, many families are left with unresolved feelings of bitterness.


American and Iraqi officials say they have no figures on such casualties, just as they say they have no reliable statistics on the far higher number of civilian deaths in the fighting that began with the American-led invasion nearly two years ago. But any Westerner working in Iraq comes across numerous accounts of apparently innocent deaths and injuries among drivers and passengers who drew American fire, often in circumstances that have left the Iraqis puzzled as to what, if anything, they did wrong.


The confusion arises, in most cases, from a clash of perspectives. The American soldiers know that circumstances erupt in which a second's hesitation can mean death, and say civilian deaths are a regrettable but inevitable consequence of a war in which suicide bombers have been the insurgents' most deadly weapon. But Iraqis say they have no clear idea of American engagement rules, and accuse the American command of failing to disseminate the rules to the public, in newspapers or on radio and television stations.


The military says it takes many precautions to ensure the safety of civilians. But a military spokesman in Baghdad declined in a telephone interview on Sunday to describe the engagement rules in detail, saying the military needed to maintain secrecy over how it responds to the threat of car bombs.


The spokesman, as well as a senior Pentagon official who discussed the issue in Washington on Sunday, said official statements issued after the Friday shooting offered a broad outline of the rules. In those statements, the military said it tried to slow Ms. Sgrena's vehicle with hand signals, flashing lights and warning shots before firing into the car's engine block.


But many Iraqis tell of being fired on with little or no warning.


Basman Fadhil, 29, a taxi driver interviewed Sunday in Baghdad, described driving home to the southern Doura neighborhood on Jan. 13. The power was out, as it often is in the capital, and the streets were very dark. He was only a block or so from his house when bullets shattered his windshield. "I thought it was thieves trying to steal my car, so I drove faster," he said.


One bullet struck him in the shoulder, causing him to crash into a concrete barrier. Getting out of the badly damaged vehicle, he staggered a few steps until American and Iraqi soldiers began yelling at him from the darkness not to move. When he asked the soldiers why they had shot at him, Mr. Fadhil said, they told him there had been gunmen in the area shortly before. continua: http://www.nytimes.com/2005/03/07/international/middleeast/07patrols.html 


Dopo l'uccisione di Nicola Calipari, in questo articolo, lunghissimo, il New York Times spiega e critica le regole di ingaggio che sono causa di molti casi simili. La fotografia dei bambini, i cui genitori sono stati uccisi a un posto di blocco americano, documenta la situazione di pericolo che gli Iracheni devono affrontare ogni giorno. In pratica devono convivere con il terrore dei kamikaze e delle loro autobombe, dei guerriglieri di ogni tipo e, infine, del possibile tragico errore dei soldati americani.


Questo apprezzo di molta stampa americana. C'è sempre qualcuno che non tace e racconta le cose nei dettagli e critica ciò che c'è da criticare. E noi?

lunedì 7 marzo 2005


"Grazie per chi ci è stato vicino
Chi paga di persona cambia il mondo"



Le parole di Don Maurizio Calipari, fratello di Nicola, a nome della famiglia


 "Queste sono ore di profondo dolore per noi, un dolore che minuto per minuto è alleviato, sostenuto dalla vicinanza di tanti, anzi di tantissimi": con queste parole, al termine del funerale del fratello Nicola, don Maurizio Calipari ha cominciato il ringraziamento, a nome della famiglia, a quanti - ha detto - "non solo in tutta Italia, ma anche dall'estero, hanno voluto farci sentire la loro vicinanza. Di fronte a questo, con molta semplicità, vogliamo dire grazie, perché non ci avete lasciati da soli".

"Ci è stata vicina tutta la comunità civile in tutte le istituzioni, a cominciare dal presidente della Repubblica. Grazie perché siete stati presenti. Grazie a chi ha avuto anche responsabilità. Senza paura di sostituirmi a nessuno, ho potuto intuire cosa c'è e cosa c'era intorno a Nicola". Ed ha aggiunto: "Vi diciamo grazie per i valori nei quali avete creduto insieme. Non è diverso quello che lui ha fatto da quello che voi fate tutti i giorni". Il sacerdote ha detto anche "grazie a tutte le migliaia di persone che in queste ore hanno voluto far sentire che c'erano, che hanno apprezzato quel che è successo, pur nella speranza che non debba accadere più quello che è successo. Grazie anche alla comunità cristiana, a cominciare dal Santo Padre in persona".

Don Maurizio Calipari ha poi detto: "Credo che un'esperienza così, avvenimenti di questo genere, non debbano passare inutilmente e invano. Di fronte a queste cose, ci si ritrova di fronte a valori forti, a un'Italia che sa di camminare e cerca di camminare verso un mondo migliore. Credo che non ci sia uno di noi qui presente che non desideri profondamente nel suo cuore che non ci siano più occasioni di guerra, di odio, di divisioni, di scontro. Chi di noi non lo desidera, per il bene comune? Quello che voglio dire, ma lo dice Nicola e tutti quelli che hanno passato vicende come la sua - in queste ore familiari di altre vittime a Nassiriya e Afghanistan si sono fatte vive con noi, e di questo siamo grati - è che c'è un solo modo per costruire una società migliore e una sola logica da adottare: non si costruisce una società diversa e un mondo diverso se non si adotta la logica del dono di sè. Bisogna dire: Io sono disposto a pagare di persona, e allora nascerà qualcosa di nuovo. Non serve prevaricare gli altri".
Don Maurizio Calipari ha così concluso: "Io prego Dio perché quello che Nicola ha fatto e tanti altri hanno fatto serva perché nessuno di noi si dimentichi che percorrendo questa via le cose possano andar meglio. Grazie di cuore a tutti quelli che ci sono stati vicini".

da La Repubblica, 7 marzo 2005



I fiori sono di Marzia - http://alchimie.splinder.com/

domenica 6 marzo 2005

Nicola Calipari

E' un angelo quello che nel sogno

mi sfila delicatamente

 di dosso l'umanità

quasi d'una veste impropria

intenda liberarmi

e un'altra ne abbia in serbo

preparata per l'eternità.

Ma eccoli a miriadi

mi vengono incontro, mi associano

alla loro plenitudine.

Chi sono, di che specie e ordine?

Particole dell'anima del mondo

che qualcuno forse incarnerà?

Mario Luzi

Non riesco a staccare il mio pensiero da Nicola Calipari che prima della tragedia non avevo mai sentito nominare. Non riesco a rassegnarmi alla sua morte, immagino quanto sia inaccettabile per i suoi cari.  Dai giornali ho appreso molte cose di lui. Mi sembra che fra gli altri sia stato Walter Veltroni a tracciarne un ritratto che commuove e insegna.

Quel che ci dice Nicola Calipari

Quando ho visto Gabriele Polo, direttore di un «quotidiano comunista», piangere per la morte di un uomo dei servizi segreti ho pensato che, nella tragedia, stesse accadendo qualcosa di grande. Che, grazie alla forza della democrazia e al cammino che il Paese ha compiuto, ognuno colga oggi più facilmente nell’altro virtù che un tempo sembrava impossibile poter persino vedere. Gli uomini dei servizi che hanno lavorato in Iraq, che hanno messo in gioco la propria vita per salvare altre vite, sono eroi di questo nostro tempo e come tali ora è il tempo di riconoscerli.
Certo, in questo Paese c'è stato il tempo dei servizi deviati, ma adesso non è più così, adesso la democrazia ha vinto anche questa battaglia e si è creato un nuovo legame, come dimostrano proprio le vicende di queste ore. Gli italiani sanno di poter contare su questo nuovo rapporto, che è scritto anche nelle biografie degli uomini dei servizi, nella loro sensibilità umana e civile.
Ho sotto gli occhi un appunto sul periodo in cui, tra il 2001 e il 2002, Nicola Calipari ha lavorato, come dirigente dell'Ufficio Immigrazione della Questura, a stretto contatto con il Comune di Roma. Lo leggo e lo rileggo, con un po' di commozione, inseguendo qualche ricordo e il filo d'una storia che sento vicina alla mia, alla nostra, a quella di questa città. L'impegno del “progetto Roxanne” per strappare alla schiavitù le donne comprate e vendute alla prostituzione; le fatiche e le soddisfazioni della concertazione con le comunità straniere: incontri, trattative, e alla fine soluzioni accettate da tutti; il piano per l'accoglienza dei richiedenti asilo…
Quando accade una vicenda terribile e irreparabile come la morte violenta di un uomo è questo che si cerca: il filo della sua storia, una sostanza che ci renda l'idea del suo sacrificio se non accettabile, meno dura. Il filo di Nicola è quello di un uomo sobrio, discreto, solido, con le sue idee e le sue passioni, ma lontano dall'idea di farne un credo da sbandierare. Un onesto servitore dello Stato, si sarebbe detto un tempo (e forse è il tempo che si torni a dire), fedele alle istituzioni e anche a se stesso, alla propria coerenza, fino al sacrificio della propria vita in un atto di eroismo che è stato il supremo, definitivo, compimento d'un dovere che non contiene in sé neppure una bava di retorica.
È l'immagine di un'Italia che c'è, anche se ci capita raramente di accorgercene. Un'Italia che non grida, non cerca i riflettori, non insegue televisioni e indici di gradimento, che non litiga per litigare e non stupisce per stupire, che non si involgarisce e riserva le sue indignazioni a quel tanto che c'è, nel mondo, da meritare l'indignazione: una prostituta bambina sul ciglio d'una strada, per esempio; la sofferenza d'un povero cristo scappato dalla fame o dalla tortura; una donna sequestrata dai terroristi in un paese lontano; le ingiustizie vere, quelle che versano sul mondo la morte e il dolore.
Un'Italia che c'è. Nella compostezza, nella serietà, nel rispetto di sé e degli altri di tanti che lavorano nelle istituzioni, di tanti uomini e donne delle forze dell'ordine che mettono per il bene di tutti a repentaglio la propria vita, e non in astratto ma concretamente, correndo a salvare chi è in difficoltà e magari non sparando per primi a un posto di blocco, perché davanti alla pistola c'è comunque una vita. Nell'esperienza dei ragazzi (sono tanti, tantissimi, molti di più di quanto normalmente si pensi) che vanno a fare i volontari nei paesi più disgraziati e lontani o in quella triste periferia dell'anima del mondo ricco che vive nella povertà e nel degrado sotto le nostre case. Nella forza d'animo dei familiari degli, ormai tanti, italiani che sono stati rapiti in Iraq: l'ostinazione nell'ottimismo dei genitori, dei fratelli e delle sorelle di Stefio, Agliana e Cupertino, il dolore composto dei familiari di Quattrocchi e poi di Baldoni, la serenità dei genitori di Simona Torretta e Simona Pari, la tristezza che, alla notizia della morte dell'uomo che le aveva salvato la figlia, è calata sul volto da patriarca di Franco Sgrena.
Un'Italia di cui ho visto un tratto, ieri mattina, nei racconti e nelle confidenze degli uomini del Sismi che, sul terreno o qui da Roma, hanno partecipato alla liberazione di Giuliana. Persone impegnate, con una grande professionalità, molto motivate. Nessuno di loro ha la vocazione dell'eroe e però uno di loro, per compiere il proprio dovere, è morto da eroe. Ora di lui raccontano che era una persona mite, che non amava le armi e gli atteggiamenti da “duro”, dicono che era un uomo silenzioso e quasi timido. Ma faceva il suo dovere ed era bravissimo a farlo.
Quest'uomo, che Giuliana ha voluto abbracciare due volte, quando lui l'ha liberata e quando è caduto sul suo corpo dopo averle salvato la vita, ha lavorato alla soluzione del suo ultimo e più importante “caso” da poliziotto collaborando strettamente con il direttore e il gruppo dirigente del “Manifesto”. Era nata un'amicizia, così come era accaduto, durante i negoziati per le liberazioni di Simona Pari e Simona Torretta, con gli esponenti della cooperazione e dei gruppi pacifisti.
Anche qui c'è il segno di una bella Italia che c'è: l'unità, il rispetto reciproco, la lotta comune contro il terrorismo e la violenza, il rispetto delle istituzioni ne sono la trama. Antiche inimicizie, antichi schieramenti ideologici, antichi sospetti sono caduti perché il mondo è cambiato. E il merito è anche di uomini come Nicola Calipari. (Walter Veltroni, L'Unità, 6 marzo 2005)

Sempre sull'Unità di oggi ho letto un altro documento che voglio conservare nel mio diario. E' l'editoriale in cui Furio Colombo affronta con argomentazioni politiche e morali il problema della verità, la necessità di sapere la verità.

05.03.2005
La verità, nient'altro che la verità
di Furio Colombo

In un momento così disorientante e così doloroso, l'Italia non si divide tra amici e nemici dell'America. Si divide fra chi chiede la verità e chi si contenta di credere nel destino. O forse è più rispettoso e più corretto per tutti dire che in questo Paese, in questo momento, non c'è alcuna divisione. Difficile immaginare che qualcuno rifiuti per principio di sapere che cosa è accaduto su quella maledetta strada Bagdad-aeroporto nella sera del 4 marzo, quando tutti (anche in quel momento senza alcuna divisione) stavano celebrando la liberazione di Giuliana Sgrena e il buon lavoro di chi l'aveva liberata.

Difficile anche immaginare che la verità sia anti-americana. Se c'è una cosa da celebrare di quel Paese (basti ripensare a certi terribili eventi accaduti in Vietnam, basti ricordare che l'orrore di Abu Grahib è stato rivelato ai giornali del mondo dalla denuncia spontanea di soldati americani) è il coraggio con cui, anche nelle situazioni peggiori, in America c'è sempre qualcuno che non tace. E se c'è una lezione che tutte le democrazie si consegnano l'una all'altra, nel mondo, è che le verità nascoste o negate sono materiale infetto che contamina non solo la vita politica ma anche la fibra morale e il volto di un Paese.

Questo giornale, che non ha alcuna compiacenza verso l'attuale governo italiano e il suo presidente del Consiglio, ha detto ieri e ripete oggi che Berlusconi ha agito da statista convocando subito l'ambasciatore americano. Niente equivoci. Il punto di merito non è di immaginare una sgridata agli americani e una crepa nel rapporto fra i due Paesi. Qui si sta parlando di una tragedia. Il punto è il rispetto fra due Paesi amici. Ciascuno deve all'altro la verità, e il momento è questo.

E' necessario ricostruire la vicenda e trovare un punto di spiegazione e di responsabilità che non sia il destino. Scoprire come sono andati davvero i fatti è un debito permanente che le democrazie (solo le democrazie) contraggono con i cittadini.

Al momento ciò che sappiamo sulla uccisione di un valoroso servitore dello Stato italiano e sul ferimento della nostra giornalista e dei nostri agenti sulla strada tra Bagdad e l'aeroporto, è tanto tragico quanto misterioso.

Il problema non è trovare un capro espiatorio. Il problema è - per gli italiani - la verità come segno di rispetto e di partecipazione al dolore di un Paese amico, molto al di là di vaghe espressioni diplomatiche. Il problema è di evitare il senso di oltraggio che fatalmente sarebbe generato da risposte indifferenti, con il linguaggio dei regolamenti militari, o dal gesto di allargare le braccia come per dire che, in stato di guerra, per forza c'è pericolo.

L’argomento qui non è sostenere polemicamente (e purtroppo con ragione) che dunque in Iraq la guerra continua, che la pacificazione è una finzione, che l'immenso apparato militare spara e uccide proprio perché non controlla niente, e che la verità che cerchiamo non verrà perché niente di vero, fin dal primo giorno, ci viene detto dell'Iraq.

L'argomento è di concentrare l'attenzione sulle domande che l'opinione pubblica italiana pone con dignità, attraverso il governo italiano all'America, affinché con dignità e con chiarezza ci vengano date le risposte dovute. Dovuto, qui, vuol dire inevitabile. Infatti è giusto, ma anche inevitabile sapere. Ed è, per il nostro Paese, una richiesta irrinunciabile. Non è neppure concepibile, una volta considerate le notizie e lo stato delle cose, così come tutti, su tutti i giornali e telegiornali le stiamo narrando, sulla base di ciò che ci dicono i sopravvissuti, che la risposta non arrivi. Oppure arrivi burocratica e indifferente, come se uccidere o essere uccisi con una valanga di fuoco fosse un rischio fra tanti.

Le democrazie vivono ad uno stato di civiltà molto alto, e questo vantano e propongono quando si impegnano ad allargare la libertà del mondo. Se la prima libertà è vivere, la seconda è certo sapere. Su questo diritto-dovere della civiltà democratica (e non su ragioni militari calcolate a livello di chi è autorizzato a sparare liberamente) dobbiamo contare. Perché qui passa il confine al di là del quale le pratiche antiche e barbare della guerra contano di più dei valori della democrazia.

"Non arrenderti mai, perché quando pensi che sia tutto finito, è il momento in cui tutto ha inizio."

Jim Morrison

L'immagine e le parole di Morrison da Federica Aurora - http://federicaurora.splinder.com/