Risorgere
PASQUA
nella discordia berlusconista-leghista-fascista
Libera nos a malo, Domine!
Dal premierato alla Giustizia gli assalti alla Costituzione
Un solo disegno: piegare la Carta ai bisogni del Cavaliere
di Massimo Giannini
La campagna di de-strutturazione della Costituzione non conosce tregua. Gli operosi "picconatori" del Pdl assestano colpi quotidiani alle fondamenta della "casa comune" costruita nel '48. Vignali e Sardelli, Ceroni e Alfano, La Russa e Tremonti: è una rincorsa dissennata a sfasciare gli istituti e svalorizzare i principi che unirono i padri costituenti. La sub-cultura della destra berlusconiana sta snaturando le basi della civiltà repubblicana.
In questa manovra di decomposizione sistemica, quello che colpisce non è la frequenza, quanto l'incoerenza. Quello che atterrisce non è la volontà di "mettere mano" alla Costituzione per un'esigenza politica collettiva (quella del popolo italiano), quanto l'irresponsabilità di "manomettere" le sue regole in funzione di una biografia politica individuale (quella di Silvio Berlusconi). Rivedere e aggiornare la Carta è legittimo. Quello che spaventa, nelle modifiche estemporanee sfornate dalla coalizione forzaleghista, è la totale assenza di un quadro d'insieme, di un impianto di norme coordinate e coerenti, e soprattutto destinate a durare nel tempo. Un'unica "ratio" guida le proposte di pseudo-riforma della maggioranza: saldare qualche conto sospeso, consumare qualche vendetta postuma. Cioè piegare anche la Costituzione (e non più solo la legge ordinaria) ai bisogni attuali e potenziali del Cavaliere. Siamo alla "personalizzazione" della Costituzione. Per valutarne i danni, basta ripercorrerne le tappe.
La "Grande Riforma" del 2005
La perversa "filosofia" del berlusconismo costituzionale si evince dalle origini. La legge 269 viene approvata il 18 novembre 2005: già quella è un Frankenstein giuridico, che contiene tutto e il suo contrario. Oltre alla devolution, alla riduzione del numero dei parlamentari e alla fine del bicameralismo perfetto, la "riforma" introduce un anomalo "premierato forte", sconosciuto alle democrazie occidentali. Il Primo Ministro può revocare i ministri e sciogliere direttamente la Camera, sottraendo questa prerogativa al presidente della Repubblica. Il Capo dello Stato diventa meno che un notaio: nomina Primo Ministro chi risulta candidato dalla maggioranza uscita dalle elezioni, senza più la libertà di scelta contemplata dall'articolo 92. Il senso dell'operazione, in quel momento, è chiarissimo: Berlusconi si prepara alle nuove elezioni del 2006, non può ancora puntare al Quirinale. Per questo, con una "revisione ad personam" della Carta, depotenzia il ruolo del presidente della Repubblica, rafforzando quello del premier. Ma gli va male. Il 25 giugno 2006, al referendum, gli italiani bocciano la legge: il "pacchetto" si rivela un "pacco".
La "Riforma epocale della Giustizia"
Dopo il trionfo elettorale del 13 aprile 2008, il Cavaliere accantona momentaneamente le velleità presidenzialiste. La priorità diventa la giustizia. Il 10 marzo 2011 il Guardasigilli Alfano presenta la sua "riforma epocale". In realtà, un pasticcio totale: l'unica logica che lo tiene insieme è la "punizione" dei magistrati. C'è la separazione delle carriere, c'è la scissione del Csm, c'è la sottomissione del potere giudiziario al potere legislativo, persino nell'esercizio dell'azione penale: "L'ufficio del pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge". Il giudice e il pm dispongono della polizia giudiziaria "secondo le modalità stabilite dalla legge", e al ministro della Giustizia spettano "la funzione ispettiva, l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia". L'obiettivo è palese: non c'è alcuna intenzione di migliorare l'efficienza della macchina giudiziaria, nell'interesse dei cittadini. C'è solo l'urgenza del potere politico di mettere sotto controllo il potere giudiziario, nell'interesse di Berlusconi.
La "Riforma storica" dell'articolo 41
Nel patchwork costituzionale della destra c'è spazio anche per l'economia. Il 9 febbraio il ministro Tremonti presenta il disegno di legge di riforma dell'articolo 41. "L'attività economica privata è libera ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, con gli altri principi fondamentali della Costituzione o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Una "riforma storica", la definisce dopo il varo un entusiasta ministro Sacconi. Piuttosto, una riforma "strabica": da una parte si professa il liberismo, dall'altra si pratica il colbertismo. Ci ha pensato il presidente emerito della Consulta Ugo De Siervo, a spiegare in un'intervista al "Sole 24 Ore" che "il governo vuole cambiare l'articolo 41, senza rendersi conto che la legge sul salvataggio dell'Alitalia è stata salvata proprio grazie all'articolo 41: abbiamo salvato una legge del governo in base a una norma che il governo considera sentina di tutti i mali". Un bel cortocircuito: da Popolo delle false libertà.
La riforma dell'articolo 1
Siamo all'attualità di questi giorni. All'apice dell'aggressione del premier contro il "brigatismo giudiziario" dei pm e i manifesti vergognosi di Lassini sulle "Br in procura", il pidiellino Remigio Ceroni presenta il 20 aprile un ddl che riscrive l'articolo 1 della Carta: "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e sulla centralità del Parlamento, quale titolare supremo della rappresentanza politica della volontà popolare espressa mediante procedimento elettorale". Dunque, dopo anni di prediche presidenzialiste, la destra berlusconiana si lascia folgorare dalla "centralità del Parlamento". Un Parlamento per mesi umiliato dal Cavaliere. Con i fatti. Gli ha imposto già 31 voti di fiducia. Con le parole. Il 26 marzo 2009 dice ad Acerra: "Il voto in Parlamento dovrebbe essere consentito solo ai capigruppo... gli altri se ne stanno lì a perdere tempo, con due dita, a votare emendamenti di cui non sanno nulla...". Il 28 febbraio scorso rincara la dose in Confcommercio: "Quando il governo presenta una legge, questa deve passare al vaglio di tutto l'enorme staff del Capo dello Stato... Se una legge non gli piace, deve tornare in Parlamento, e lì lavorano solo in 50 o 60, tutti gli altri perdono tempo...". Un Parlamento che ora viene invece "elevato": diventa fonte suprema della sovranità del premier, che se ne serve per eludere il principio di legalità. L'antinomia costituzionale è stridente: l'assemblea degli eletti del popolo, strumentalmente "riabilitata" dopo accuse devastanti e pratiche frustranti, deve consegnare al presidente del Consiglio, ora e per sempre, un potere gerarchicamente sovraordinato a tutti gli altri, dal Capo dello Stato alla Consulta. Una rivalutazione del parlamentarismo, a scapito del presidenzialismo? Niente affatto. Un banale delirio costituzionale, tagliato ancora una volta a misura del Sovrano.
La "sfiducia" di Sardelli e il presidenzialismo di La Russa
Al rovinoso "picconamento" del sistema non poteva mancare il contributo dei cosiddetti "Responsabili". Luciano Sardelli, capogruppo della tribù scilipotiana alla Camera, presenta venerdì scorso la sua riforma costituzionale. Vuole cambiare l'articolo 94, e introdurre la cosiddetta "sfiducia costruttiva". Un solo articolo prevede che il presidente del Consiglio possa cessare dalla carica se il Parlamento in seduta comune approva "una mozione di sfiducia motivata, contenente l'indicazione del successore, con votazione per appello nominale a maggioranza dei suoi componenti". Dunque, contrordine: niente chiacchiere parlamentariste, riemergono i rigurgiti da premierato forte. O addirittura da presidenzialismo, come si evince dalla sortita di due giorni fa del ministro La Russa su "Affaritaliani. it": "Le forme di governo e quelle costituzionali non cambiano con le mode - dice il responsabile della Difesa - e quindi il presidenzialismo rimane sicuramente la forma migliore". Ma sul modello di presidenzialismo da adottare, il luogotenente del Pdl ha le idee chiare: "All'italiana", risponde. Appunto: Costituzione "a la carte", secondo convenienza del momento.
La riforma dell'articolo 136 e il declassamento della Consulta
L'ultima trovata è di Raffaello Vignali, che usa i padri costituenti per giustificare la sua nefandezza. Il deputato pidiellino presenta un ddl di modifica dell'articolo 136, che limita l'intervento della Consulta ad una funzione "meramente dichiarativa" dell'illegittimità costituzionale delle leggi. Se bocciate dalla Corte, cioè, queste non saranno più abrogate, ma dovranno tornare in Parlamento per le eventuali modifiche del governo. Spiega Vignali, con sprezzo del ridicolo: "Ci troviamo in presenza di una Corte costituzionale che potrebbe realizzare quella eccessiva ingerenza politica del giudice temuta dai costituenti". Tradotto in volgare: il Pdl vuole declassare la Consulta, perché non può più rischiare che gli vengano respinti i Lodi Schifani-Alfano o le leggi sulle prescrizioni brevi e i processi lunghi. Del resto il Cavaliere non ripete da anni che la Corte è "un covo di comunisti"?
Questo accade, dunque, nella "macelleria costituzionale" berlusconiana. Dov'è il disegno complessivo che questa destra persegue sulla Repubblica, sulle sue istituzioni, sulla sua forma di governo? Non esiste. Esiste solo il calcio nei denti, il ribellismo costituzionale. Oggi più che mai vale la lezione di Piero Calamandrei: "E' un errore formulare gli articoli della Costituzione con lo sguardo fisso agli eventi vicini, alle amarezze, agli urti, alle preoccupazioni elettorali dell'immediato... La Costituzione non deve essere miope, ma presbite: deve vedere lontano...". Esattamente quello che non può e non sa fare Berlusconi. Così lo Stato di diritto si sta trasformando in Stato d'assedio.
m. gianninirepubblica. it
La Repubblica, 24 aprile 2011 © Riproduzione riservata
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Pasqua, lo spirito risorge per tutti
di Eugenio Scalfari
IL MALE non esiste. Dio decise di incarnarsi, di assumere natura umana e assumere su di sé tutti i peccati del mondo. Ripristinò l'alleanza tra l'umanità e il suo creatore e indicò la via della salvezza lasciando agli uomini la libertà e la responsabilità di scegliere.
Nel giorno del giovedì cenò con i suoi apostoli. La sera si ritirò con loro nell'orto del Getsemani. Nella notte fu arrestato. Il venerdì fu processato, torturato e crocifisso. Sepolto. Dopo tre giorni (ma il sabato secondo la liturgia) resuscitò da morte, apparve alle donne e poi agli apostoli. Così raccontano i Vangeli.
Un altro racconto, pur sempre condotto sui testi della Scrittura ma diversamente interpretati, narra la storia di un uomo, figlio di Giuseppe e della giovane Maria, nato a Betlemme nei giorni del censimento, ma residente a Nazaret. Di lui, dopo la nascita ed una fuggitiva presenza al Tempio, i Vangeli non dicono più nulla, non esiste alcun racconto della sua infanzia e della sua adolescenza. Non sappiamo nulla del suo lavoro, dei suoi studi, della sua famiglia, della sua vita.
Lo ritroviamo a trent'anni, quando inizia la sua predicazione in Galilea e in Tiberiade. Va al Giordano a farsi battezzare dal Battista, raduna un gruppo di discepoli, pescatori, artigiani, mendicanti. La sua predicazione ha all'inizio contenuti soprattutto sociali; sostiene che nel regno di Dio gli ultimi saranno i primi, i deboli, i poveri, gli ammalati, saranno confortati, i giusti avranno giustizia, gli ingiusti saranno castigati.Ma intanto quell'uomo sente crescere dentro di sé una potenza misteriosa, connessa a capacità medianiche e taumaturgiche. Ed è allora che domanda: "Voi chi credete che io sia?". Alcuni dei discepoli rispondono: "Tu sei il "rabbi", il Maestro". Altri: "Tu porti in te lo spirito di Mosè". Ed altri: "Un grande profeta, più grande di Ezechiele e di Geremia". Altri ancora: "Tu sei il Messia, discendente dalla stirpe di David e sei venuto ad annunciare la fine dei tempi". Gesù ascolta, si chiude in sé. Si ritira nel deserto passando dalle terre dove vive la comunità degli Esseni, rimane quaranta giorni solo con le sue tentazioni, ode la voce del Tentatore e ne respinge le impure proposte. Torna tra i suoi. Ora è convinto di essere il Figlio di Dio, il solo tramite attraverso il quale l'unico Dio manifesta il suo amore per gli uomini e la sua sconfinata misericordia.
Questi due racconti, pur svolgendosi nello stesso modo e configurando lo stesso percorso, sono però profondamente diversi, ma convergono nella stessa conclusione: quell'uomo dà inizio ad un'epoca che si ispira al principio dell'amore e della carità, del perdono e della misericordia. Il peccato è una caduta dalla quale ci si può rialzare. Il male è soltanto l'eccezionale assenza del bene. Il bene è il regno dei giusti che godono la beatitudine di poter contemplare Dio nelle sue tre consustanziali epifanie di Padre, di Figlio e di Spirito Santo.
In questa fine del viaggio e della storia il male avrà cessato di esistere, non ci sono né purgatorio né inferno, ma soltanto paradiso, senza tempo e senza luogo.
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Ma c'è un terzo racconto, quello che caratterizza l'epoca della modernità. In esso non esistono né il male né il bene, non esiste il peccato. Ogni essere vivente è dominato dalla natura dei suoi istinti e vive in perfetta innocenza. Ma noi, unica specie dotata di mente riflessiva e capace di pensiero, noi ci vediamo vivere, invecchiare e morire; noi siamo animati da due forme di amore: quello verso se stessi e quello verso gli altri. Nessuno di questi due amori riesce a cancellare l'altro e la nostra vita non è che la dialettica convivenza di essi che si confrontano nella caverna dove abitano i nostri istinti, le nostre più segrete pulsioni e la nostra energia vitale.
In questo terzo racconto non esiste metafisica, nulla è divino oppure tutto è divino, due modi per significare la stessa cosa: "Deus sive natura".
Il terzo amore che tutto sovrasta è quello verso la vita e il solo peccato pensabile è quello contro la vita, la sua dignità, la sua libertà. Non una vita idealizzata, ma una vita storicamente determinata dagli istinti che si misurano, si combattono, si trascendono, si trasfigurano, diventando passioni e sentimenti analizzati dalla lente della ragione, cioè del pensiero che pensa se stesso e che si vede vivere.
Questo pensiero è capace di inventarsi e di raccontarsi molti mondi, è una fabbrica di illusioni che ci aiutano durante il viaggio, di speranze che alimentano la nostra energia vitale, di architetture morali indispensabili a tutelare la nostra socievolezza.
Noi siamo una specie pensante e socievole, perciò costruiamo regole morali che consentono la convivenza in quel dato contesto storico. Ecco perché non esistono peccati ma esistono reati.
Quando finisce un'epoca, finisce anche una morale, si verifica una rivoluzione che smantella la vecchia architettura per costruirne un'altra affinché la vita possa proseguire alimentata e incanalata da nuovi limiti, da nuove correnti, da nuove sorgenti.
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Ognuno di questi racconti ha una sua Pasqua, ognuno raffigura un'epifania, una morte apparente e una resurrezione. Non c'è fine perché non c'è principio. Non c'è altro senso fuorché la vita che la nostra specie è in grado di raccontare, interpretare, trasfigurare, inventare. Abbiamo perfino inventato il tempo.
Il tempo morirà con noi. La morale morirà con noi. Purtroppo stanno già morendo e questo non è buon segno.
Quando si rifiuta di ricordare il passato non si può costruire il futuro, si vive schiacciati da un eterno presente come gli animali che vivono infatti fuori del tempo.
Quando si smonta un'architettura morale senza costruirne un'altra il fiume della vita cessa di scorrere diventando imputridita palude. A questa sorte dobbiamo ribellarci, questo pericolo dobbiamo scongiurare.
"Resurrexit" suoneranno oggi le campane. La Pasqua è di tutti ed è lo spirito di tutti che deve risorgere.
(24 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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