La prigionia di San Suu Ky, farfalla d'acciaio della Birmania
[...]. Aung San Suu Kyi, leader del movimento birmano per la democrazia, dal 30 maggio scorso è agli arresti in un luogo segreto. Secondo il Dipartimento di Stato americano avrebbe intrapreso uno sciopero della fame, una decisione che di cui Washington imputa alla giunta militare la responsabilità, mettendola anticipatamente in guardia. I generali smentiscono e nessuno, né la Lega nazionale per la democrazia, il partito di San Suu Kyi, né la Croce rossa internazionale sono in grado di confermare. Ma il monito americano suona come un avvertimento a Rangoon, che abbia o meno fondamento. Due giorni dopo l’annuncio di una prossima revisione della Costituzione, da fare in casa, senza lo scomodo contributo dell’opposizione democratica, i generali si trovano tra le mani un’arma spuntata, le misure annunciate non convincono e non basteranno ad allentare le sanzioni: quelle americane sono entrate in vigore il 28 agosto e colpiscono pesantemente l’industria tessile, molte fabbriche saranno costrette a chiudere. «È un modo per tagliargli l’erba sotto i piedi», è questo il messaggio tra le righe che arriva da Washington, secondo un diplomatico occidentale.
Ufficialmente Aung San Suu Kyi non deve rispondere di nessun crimine, non sta pagando per nessun reato, fosse pure d’opinione. La sua detenzione viene definita dai generali di Rangoon un «modo per proteggerla» e la legge non richiede nessuna accusa, nessun tribunale, nessun appello, solo un generico marchio di pericolosità per «la sicurezza e la sovranità dello Stato» applicabile a piacere. È una vecchia legge, ritoccata nel ‘91 su misura per San Suu Kyi e i suoi: autorizza la detenzione fino a cinque anni, rinnovabili di anno in anno, senza che sia mai previsto l’intervento di un giudice.
Sono centinaia in Birmania, Myanmar, i prigionieri di coscienza gettati in una cella, l’ultima infornata nel giugno scorso, dopo quelli che il regime ha definito scontri provocati dai sostenitori della Lega Nazionale della democrazia e che avevano piuttosto l’aria di una campagna repressiva, costata secondo Amnesty un centinaio di morti. Da allora un silenzio avvolgente e vischioso è calato su Aung San Suu Kyi, solo il 29 luglio scorso inviati dell’Onu e della Croce rossa internazionale hanno potuto incontrarla, senza poter rivelare dove si trovi. Sta bene, ecco tutto. [...]
Non è la prima volta che Aung San Suu Kyi viene inghiottita dal buio della detenzione. Quando i militari la misero agli arresti domiciliari nel luglio dell’89 - poco più di un anno dopo il suo ritorno in Birmania, dove era stata richiamata dalla malattia della madre morente - la figlia del generale Aung San, l’uomo che trattò con gli inglesi l’indipendenza del paese, era già tanto popolare che a dispetto dei bavagli imposti dalla giunta il suo partito riuscì a incassare l’82% dei voti alle elezioni del ‘90. Il Consiglio di Stato per lo sviluppo e la pace - così si definiscono gli uomini al potere a Rangoon - non riconobbe quel risultato. San Suu Kyi rimase rinchiusa dentro casa, i suoi figli Kim e Alexander accettarono per lei ad Oslo il Premio Nobel per la pace nel ‘91, che riconosceva la sua «lotta non violenta per la democrazia e i diritti umani».
Sei anni di arresti domiciliari, con il suo nome divenuto scomodo per la giunta, che cerca accordi segreti per cavarsi d’impaccio. Un dialogo pubblico, chiede invece San Suu Kyi, convinta che in Birmania il cambiamento è possibile sulla strada della nonviolenza. «Siamo sempre pronti a lavorare insieme alle autorità per ottenere la riconciliazione nazionale», sostiene, senza perdersi mai d’animo. Nemmeno quando nel ‘99 la giunta vieta al marito, il britannico Michael Aris, malato di cancro, di poterla incontrare. Morirà lontano da San Suu Kyi, alla quale prima di sposarsi aveva promesso di non diventare mai un ostacolo tra lei e il suo paese. Farle lasciare Rangoon sarebbe stato la stessa cosa che condannarla all’esilio.
Quando nel luglio del ‘95 torna libera - per essere arrestata di nuovo nel 2000 per 19 mesi - il paese non è cambiato, la sua libertà personale non è molto di più che la fine della restrizione fisica tra le pareti di casa. «I cambiamenti verranno perché i militari hanno le armi e nient’altro», continua però a ripetere San Suu Kyi. Per lei, che ha perso suo padre ucciso quando aveva solo due anni ed è stata educata dalla madre, un’ex infermiera divenuta ambasciatrice tra New Delhi, Oxford e New York, la democrazia non è un piatto buono solo per l’Occidente. È questa la radice della sua forza, evidente sotto un fisico apparentemente fragile. La «farfalla d’acciaio», la chiamano i suoi.
«Noi pensiamo che la forza del nostro movimento è veramente il paese stesso - ha detto una volta, tante volte, Aung San Suu Kyi -. È nella volontà della gente, la grande maggioranza della gente in Birmania vuole la democrazia».
Alla solidarietà internazionale chiede coerenza. Invita a non visitare il paese come turisti, finanziando così indirettamente la giunta.
Se la prende con la Pepsi che smercia i suoi prodotti in Birmania, a dispetto dei proclami americani a sostegno della democrazia per il suo popolo.
E invita la sua gente ad alzare la testa, sempre.
«Non è il potere che corrompe, ma la paura - dice San Suu Kyi -.
La paura di perdere il potere corrompe quelli che lo detengono.
La paura della frusta, quelli che lo subiscono».
Marina Mastroluca, L'UNITA' - 2 SETTEMBRE 2003
5.40!? Il mio buongiorno è quasi un buona sera, Nobile Signora. Con l'accresciuto apprezzamento di un dormiglione.
RispondiEliminaIn modo molto più blando e molto più leggero -e per una situazione certamente più 'risibile'- anch'io ho 'rammentato' la paura delle persone al potere...Già! spaventa la libertà di pensiero, più che la violenza, e chi detiene il potere non ha altro potere da opporgli se non la menzogna, la mistificazione e la repressione....(OT: ti aspetto su Pitagora)...Lucilla
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