lunedì 29 settembre 2003

TASHI DELEK


Otto Simboli del Buon Auspicio


"Tashi delek!" è il saluto Tibetano consueto, che può essere tradotto


"Lieta benignità" (a te). Sono graditi suggerimenti e correzioni.)


TASHI è parola di augurio il cui significato è che "la buona sorte ricada su coloro a cui si rivolge il saluto".


DELEK vuol dire "pace, pace universale". Riguarda la persona e la famiglia. E' un augurio di liberazione dall'ignoranza e dall'attaccamento alle illusioni della realtà che sono alla base della rabbia e dell'odio.


Tashi Delek! 

sabato 27 settembre 2003

 La voce dei Tibetani in rete: tibet.net


tibet.net è un sito uffciale, presentato dal Dalai Lama, dove i Tibetani


possono scambiarsi parole, suggerimenti, pensieri, nella loro lingua, il tibetano.


E a salutare i suoi connazionali dispersi per il mondo è lo stesso Dalai Lama.


Un messaggio inviato a tutto il mondo, nella sua lingua, ma anche in cinese


e in inglese. L'iniziativa di avviare il sito è partita dal Tibetan Computer


Resource, il centro informatico del governo tibetano in esilio.


"Il servizio di e-mail chiamato Tibet Mail - scrive il Dalai Lama - potrà permettere


a tutte le persone disperse per il mondo di comunicare nel linguaggio tibetano".


"Con la continua proliferazione di siti Internet sul Tibet - scrive il Dalai Lama -


la mia speranza è che nel cyberspazio possa essere creata una comunità virtuale,


accessibile a chiunque sia interessato al buddhismo tibetano, alla cultura tibetana


e al presente e tragico destino del Tibet".



da LA REPUBBLICA


Il suo è quasi un sigillo di garanzia. Ma ciò che il Dalai Lama apprezza di più di


questa iniziativa è che il sito "parla" cinese. "Noi - scrive il Dalai Lama - abbiamo


fatto un grande sforzo affinché i giovani cinesi conoscessero la versione tibetana


della nostra storia, quella che gli è stata negata nella loro patria.


Spero che i nostri fratelli e sorelle cinesi visitino in futuro il sito e cerchino di


comprendere la nostra storia, dal nostro punto di vista".


La comunità virtuale è nata. Ed è nata sotto un sigillo autorevole. Ora dovrà


crescere. E i preasupposti ci sono. Non c'è solo l'elenco di tutto quanto il governo


tibetano in esilio ha costruito in questi anni, dal 1959. Una costituzione che lo


legittimi, i vari ministeri, un parlamento e una corte di giustizia, ma anche le varie istituzioni


create per un popolo in esilio, a cominciare dal "villaggio dei bambini esuli".


C'è, anche, quanto fa la storia dei tibetani, un popolo che lotta per non scomparire:


l'accesso, virtuale, alla grande biblioteca, fondata dal Dalai Lama in India nel 1970,


che raccoglie manoscritti, documenti e libri e il Centro delle arti, che conserva


dipinti e sculture. L'immane sforzo di una popolo per rimanere se stesso.

'THE BLUES'



David Katzenstein/Sony Music, from PBS


"The Blues," a seven-part PBS series masterminded by Martin Scorsese, traces the genre's long path from Africa to the suburbs.


A History, an Homage
By ELVIS MITCHELL
New York Times - 27 Settembre 2003


*


Le trombe hanno bisogno di mani


Le trombe hanno bisogno di mani.
La lussuria ha bisogno di mani.
Anche i morbidi vasi di Tiffany, gli iridescenti,
hanno bisogno di mani.

La cera, i detriti, i decreti, le chiavi
hanno bisogno di mani.
I cartelli che voi inalberate
contro noi, contro tutto, hanno bisogno di mani.
La vecchiezza ha bisogno di un groppo di mani,
e i congedi, congegni squamosi di lacrime,
esigono sempre stantuffi di mani,
piccoli scialli di diafane dita.




Mani che smaniano, mani irriducibili,
mani offese da guanti, mani flaccide:
infrenabili trottole, nibbi,
e un giorno teatralmente ghiacce.


Angelo Maria Ripellino - da Notizie dal diluvio



venerdì 26 settembre 2003

Dichiarazione di Sua Santità il Dalai Lama 10 marzo 2003


In occasione del 44° anniversario del giorno dell'insurrezione nazionale tibetana.


XIV Dalai Lama


Voglio esprimere i miei più sinceri ringraziamenti ai miei compatrioti in Tibet e in esilio e a tutti i nostri amici nel mondo in occasione del quarantaquattresimo anniversario dell'insurrezzione del popolo tibetano del 1959. Mentre ci sono positivi sviluppi riguardo alla situazione del problema tibetano, continuiamo ad essere preoccupati per la continua marginalizzazione dei tibetani nel loro stesso Paese e dalle azioni cinesi per quanto riguarda i diritti umani e la libertà religiosa del popolo tibetano. [...]


E' necessario riconoscere che la battaglia per la libertà tibetana non riguarda la mia posizione personale e la mia condizione.


All'inizio del 1969 dissi chiaramente che deve essere il popolo tibetano a decidere se la centenaria istituzione del Dalai Lama debba continuare o no. Nel 1992, in una dichiarazione ufficiale, affermai chiaramente che se potremo tornare in Tibet con un certo grado di libertà io non svolgerò alcun ruolo in un futuro governo tibetano e non ricoprirò alcuna carica politca. Comunque, come ho affermato più volte, fino al termine dei miei giorni, rimarrò fedele alla promozione dei valori umani e dell'armonia religiosa. Ho anche detto che l'amministrazione tibetana in esilio sarà sciolta e che i tibetani in Tibet dovranno avere le maggiori responsabilità nel governo tibetano. Da sempre credo che il Tibet del futuro dovrà avere una forma di governo laica e democratica. Quindi non c'è alcun motivo per affermare che siamo animati dalla volontà di restaurare l'antico sistema sociale tibetano. Nessun tibetano, in esilio o in Tibet, vuole restaurare l'obsoleto sistema sociale del vecchio Tibet. Al contrario, abbiamo iniziato il processo di democratizzazione della nostra comunità tibetana non appena giunti in esilio. Processo che è culminato nel 2001 con la diretta elezione della nostra leadership politica. Siamo decisi a intraprendere con forza tutte le azioni necessarie per promuovere ulteriormente i valori democratici presso il popolo tibetano.


All'inizio degli anni settanta, dopo essermi consultato con alcuni miei esperiti funzionari, presi la decisione di risolvere il problema tibetano attraverso la "Via di Mezzo", via che non prevede l'indipendenza e la separazione del Tibet ma nello stesso tempo chiede l'effettiva autonomia per i sei milioni di donne e uomini che si considerano tibetani e la possibilità di preservare la loro distinta identità, di promuovere la loro tradizione religiosa e culturale basata su di una filosfia che, nonostante sia antica di secoli, può essere di grande beneficio ancora oggi, e di proteggere il delicato ecosistema dell'altopiano del Tibet. Questo approccio potrà contribuire alla stessa unità della Repubblica Popolare Cinese. Io rimango fedele a questo approccio realistico e pragmatico e continuerò a fare ogni possibile sforzo per raggiungere una soluzione accettabile per entrambe le parti.Oggi siamo tutti interdipendenti e dobbiamo coesistere su questo piccolo pianeta. Dunque l'unico modo sensibile e intelligente per risolvere le controversie, tra individui, popoli o nazioni, è attraverso una cultura del dialogo e della non violenza. Poiché la nostra lotta si basa sulla verità, la giustizia, la non violenza, e non è diretta contro la Cina, abbiamo potuto ricevere la crescente simpatia e l'aiuto della comunità internazionale compreso quello di alcuni cittadini cinesi. Voglio esprimere il mio apprezzamento e la mia gratitudine per questa importante solidarietà. Voglio anche esprimere ancora una volta, a nome di tutti i tibetani, il nostro apprezzamento e la nostra immensa gratitudine al popolo e al governo dell'India per la loro continua e costante generosità e per il loro appoggio.


Rendo infine omaggio a tutti quei coraggiosi tibetani, uomini e donne, che sono morti per la causa della nostra libertà e prego per una rapida fine delle sofferenze del nostro popolo.

mercoledì 24 settembre 2003

Oggi ho chiesto la cittadinanza Tibetana


Tibet's Location


CITTADINANZA TIBETANA


 


Per tutti gli amici e i sostenitori del TIBET



Sul sito del Partito Radicale Transnazionale c'è un'iniziativa del


gruppo France-Tibet che vi invitiamo a sottoscrivere e a


pubblicizzare tra i vostri amici e conoscenti per ottenere simbolicamente


il passaporto tibetano.



Durante una conversazione con il Primo Ministro in esilio, Ven.Samdhong Rimpoce, gli


amici francesi gli hanno proposto di valutare la possibilità di concedere la cittadinanza ai


sostenitori del Tibet che ne avessero fatto richiesta. La sua prima esigenza è stata di sapere


quanti avrebbero potuto intraprendere un' azione cosi forte a sostegno dei tibetani.


Il numero di richiedenti dovrà essere così significativo da indurre il Governo Tibetano a


dirsi favorevole e la comunità internazionale potrebbe non rimanere insensibile ad un'azione


di questo tipo ...neanche il governo di Pechino. E' evidente che con questa azione, per ora


simbolica, non si rinuncia alla propria nazionalità di origine. Se i tibetani decideranno che


questa ennesima campagna è di beneficio, tutti i richiedenti ne saranno informati- ad oggi


siamo circa 7800-



Sta a ciascuno di noi fare di questa iniziativa un successo, aderendo e girando questa mail


a più persone possibili.



Per aderire basta collegarsi al sito: www.tibetan-passport.fr.st/ ;
cliccando su "online form to fill now" comparirà un modulo da compilare e spedire,


immediatamnte sarete registrati.


Questa proposta, che ritengo molto forte e civile, l'ho trovata nel sito:


referente ai diritti umani per il Tibet.


martedì 23 settembre 2003

 

PROTEGGERE IL TIBET DAL GENOCIDIO

 




Protector of Tibet


Om Mani Padme Hung Hri
Mahabodhisattva Avalokiteshvara (Chenrizig)

domenica 14 settembre 2003

TARA BIANCA



 


L’energia positiva di Tara


Tara Bianca. Tara appare in molte forme e colori, ma più frequenti sono "Tara Verde" e "Tara Bianca". Tara Bianca si riconosce dal colore, gli occhi sulle palme delle sue mani, inoltre siede su un fuore di loto. Tara Verde siede con una gamba sporgente.


Nell'angolo in alto a sinistra c'è il Bodhisatva della compassione, Chenrezi. Nell'angolo in alto a destra c'è il Bodhisatva della saggezza, Manjusri. Nel mezzo c'è il Buddha di lunga vita, Amitayus. Nell'angolo in basso a sinistra c'è la Bodhisatva di lunga vita,Ushnishavijaya. Nall'angolo in basso a destra c'è il Bodhisatva della potenza, Vajrapani.




Tara, considerata la madre di tutti i Buddha, rappresenta l’energia femminile. Figura nata in ambito induista, fu inserita nella tradizione buddhista, come molti altri culti, solo molto tempo dopo la morte del Buddha storico. Questa divinità è molto importante non solo in Tibet ma anche in Cina e in Giappone, dove è diventata una delle più popolari.


Il culto di Tara, giunto in Tibet verso il 300 a.C., venne ripreso intorno al 1100, e a partire da questo momento ebbe grande rilievo, in quanto Tara è considerata un Bodhisattva trascendente.


Il nome Tara (in tibetano Dölma) significa in sanscrito ‘Stella’. La radice sanscrita tr significa ‘fare’, ‘attraversare’, quindi Tara è ‘colei che fa attraversare’, ‘colei che fa giungere all’altra riva’, ovvero la riva posta al di là dell’oceano delle esistenze. Tara è quindi colei che ci porta al di là del ciclo esistenziale, attraversando il percorso samsarico e superando tutti gli stati condizionati dell’esistenza.


Tara è la consorte di Avalokitesvara, il Bodhisattva della compassione. La leggenda vuole che sia nata da una lacrima di compassione di questo Bodhisattva: la lacrima cadde in un lago e ne uscì Tara, che aiuta tutti a vincere la sofferenza.


Il re del Tibet Songtsen Gampo, vissuto fra il 600 ed il 700 d. C., aveva sposato due mogli, rispettivamente di origine nepalese e cinese, che la tradizione considera due espressioni di Tara: la sposa nepalese è la Tara verde, quella cinese la Tara bianca.



sabato 13 settembre 2003

TARA VERDE



 


Tara Verde, la salvatrice incomparabile,


la "stella" che indica la via.


I Buddhisti la venerano come protettrice da tutti i pericoli.


Rappresenta l'energia attiva della compassione.


La mano destra aperta in basso è simbolo di garanzia,


la sinistra, aperta in alto, ha un gesto di incoraggiamento.

RAGAZZI PALESTINESI CORRONO


PER SOTTRARSI AI COLPI DEI SOLDATI ISRAELIANI



Palestinian youths run from shots fired by Israeli soldiers at a checkpoint


near the Jewish settlement of Kfar Darom. (Photo Credit:AFP)


WASHINGTON POST  -  13 SETTEMBRE 2003

venerdì 12 settembre 2003

ACME   e   SEPTIMIUS


Frederic leighton-Acme e Septimius


 


XLV. Acme


Settimio tenendo in braccio Acme
suo amore"Acme mia, dice,
se non ti amo perdutamente e non son pronto
poi ad amarti continuamente per tutti gli anni,
quanto è possibile addirittura morirne,
solo in Libia o nella bruciata India
andrò contro ad un azzurro leone"
Come disse così, Amore starnutì a sinistra
un'approvazione come prima a destra.
Ma Acme flettendo legermente la testa
e baciate le ebbrie pupille del dolce
fanciullo con quella bocca purpurea,
"Sì, dice, Settimiuccio mia vita,
a quest'unico padrone serviamo,
perché un molto maggiore e forte
fuoco mi brucia nelle tenere midolla"
Come disse così, Amore starnutì a sinistra
un'approvazione come prima a destra.
Ora partiti da un buon auspicio
con mutui affetti amano e son amati.
Settimio poveretto preferisce l'unica
Acme alle Sirie e Britannie:
fedele al solo Settimio Acme
offre delizia e piacere.
Chi vide qualche uomo più felice,
chi (vide) una Venere più beneaugurante?


Catullo

NELLE LONTANANZE ABISSALI DELLO SPAZIO



NASA/Associated Press


Da THE NEW YORK TIMES - 12 SETTEMBRE 2003

NELLE PROFONDITA' DEL MARE


FONTI RIBOLLENTI DI VITA STESSA


Boiling Founts of Life



Emory Kristoff/ National Geographic


Una bocca fumante nel Pacifico a poca distanza dalla costa del Messico, a circa un miglio e mezzo sotto la superficie. By WILLIAM J. BROAD


Ciò che è cominciato come un'intuizione ora sta illuminando le origini della vita. [...]




da THE NEW YORK TIMES - 12 SETTEMBRE 2003

giovedì 11 settembre 2003

11 SETTEMBRE 1973 - CILE -


11 SETTEMBRE 2001 - STATI UNITI


La lezione del Cile, la lezione delle Torri
di Ariel Dorfman


Qui non può succedere. Trent’anni fa, questo era ciò che gridavamo, che cantavamo per le strade di Santiago del Cile. [...] Nonostante tutto ciò, quello che nemmeno potevamo pensare, accadde. L’11 settembre 1973, i militari cileni fecero cadere il governo costituzionale di Salvador Allende che, per la prima volta, stava provando a costruire il socialismo con mezzi elettorali e pacifici. Quel giorno, il bombardamento del nostro Palazzo Presidenziale segnò l’inizio di una dittatura che sarebbe durata 17 anni e la cui eredità, ancora oggi, anche dopo aver recuperato la nostra democrazia, corrode il mio Paese. [...]


... come fu possibile che quel mio Paese così integro abbia partorito una delle peggiori tirannie dell’America Latina, tristemente celebre per i suoi regimi assassini? E, senza dubbio, la domanda più cruciale: perché tanti cileni, padroni di una democrazia vigorosa, permisero che in loro nome uno Stato portasse a compimento le più maligne vessazioni? Perché non protestarono per quello che succedeva nelle cantine e nelle mansarde senza misericordia della città? Perché finsero di non sapere delle torture, dei massacri e delle sparizioni? E, la questione finale, la più dolorosa: qualcosa di simile potrebbe ripetersi nelle nostre democrazie contemporanee, apparentemente stabili? [...]


A trent’anni dal golpe, questa è la lezione che il Cile ci spinge a imparare, soprattutto se prendiamo in esame la sequenza dell’altro 11 settembre, quel giorno del 2001, quando la morte, ancora una volta, è caduta dal cielo e, ancora una volta, migliaia di civili innocenti sono stati annichiliti, ferendo - quella volta- non un Paese lontano i cui dolori ed errori l’umanità poteva scordare, ma la potenza più forte del pianeta.


Non può rallegrarci quel che è successo nei due anni trascorsi dagli attacchi contro New York e Washington.


Nel sacro nome della sicurezza e come parte di una guerra contro il terrorismo incessantemente monopolizzata e usata dal governo di Bush, molti vantaggi di cui godevano i cittadini nordamericani (senza parlare di quelli che, in Usa, non sono nemmeno cittadini) si sono nei fatti ristretti. La situazione, fuori dagli Stati Uniti, è peggiorata visto che questa battaglia sempiterna contro i fanatici fondamentalisti è servita come scusa per limitare, in tutto il mondo, i diritti di molte società, tanto democratiche come autoritarie.


Anche in Afghanistan e in Iraq - i due Paesi «salvati» dagli Stati Uniti e adesso liberi dalle mostruose autocrazie che li malgovernavano, ci sono segnali allarmanti sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dalle forze d’occupazione: tornano i vecchi posti di blocco, civili innocenti sono morti, le donne vedono i loro uomini sparire senza lasciar traccia come nei peggiori momenti della dittatura.


Non sto suggerendo che gli Stati Uniti e i suoi alleati si stiano trasformando in un gigantesco Stato poliziesco simile a quello che strangolò il Cile per tanti anni. Ma il nostro dolore sarebbe stato vano se oggi, in altre zone del mondo, non notassimo il profondo significato di quella stessa catastrofe che il popolo cileno iniziò a soffrire trent’anni fa.
Anche noi pensavamo, anche noi gridavamo, anche noi lanciavamo le nostre certezze a tutto il pianeta. Qui, una cosa del genere, non può succedere.


Anche noi pensavamo, in quelle strade non troppo lontane di Santiago, che potessimo chiudere gli occhi per non vedere il terrore che ci attendeva nelle interminabili notti del futuro.


da L'UNITA'  -  traduzione di Leonardo Sacchetti

Ariel Dorfman è uno scrittore cileno.

mercoledì 10 settembre 2003

Serenità di cristallo per la notte


13 images =  L-o-n-g  download, but worth the wait !!




"Crystal Sanctuary" di Gilbert Williams

IO NON SONO D' ACCORDO CON IL PRIMO MINISTRO



Il premier: "La gente è con me. Non faccio caso alle critiche" (La Repubblica - 10.09.2003)















Berlusconi e Rasmussen
 

ROMA - E' sicuro di interpretare quello che pensa "la gente". Anche se così facendo, spesso, incappa in gaffe e frasi infelici. Ma, giura, "io non sono un politico". E di quel mondo e dei suoi rituali sa di essere un corpo "estraneo". Silvio Berlusconi lo spiega così il suo agire quotidiano. Le critiche davanti alle sue uscite e le sue irritualità non lo toccano. Quel che conta, assicura il premier è il giudizio della "gente". E lui, sostiene, dice "le stesse cose che dice la gente". In pratica le per giustificare l'uscita del premier sui "giudici matti". Parole che provocarono le secca reazione del Colle. "Sono così sicuro di me stesso, di quel che ho fatto, che non ho certo stesse parole usate dal portavoce forzista, Sandro Bondi cadute di umore a seguito di critiche infondate...". Il premier replica così a chi gli chiede se non si senta in difficoltà per le critiche nei suoi confronti anche a livello europeo. Durante la conferenza stampa congiunta con il premier danese Rasmussen (quello della battuta sulla presunta relazione tra la moglie del premier e Massimo Cacciari ndr), ripete un concetto a lui caro"Sono così sicuro di me stesso, di quel che ho fatto, che non ho certo cadute di umore a seguito di critiche infondate...". Il premier replica così a chi gli chiede se non si senta in difficoltà per le critiche nei suoi confronti anche a livello europeo. Durante la conferenza stampa congiunta con il premier danese Rasmussen (quello della battuta sulla presunta relazione tra la moglie del premier e Massimo Cacciari ndr), ripete un concetto a lui caro: "Io sono estraneo alla politica anche se questo non significa essere anti-politico". "Significa piuttosto che ho dei comportamenti che sono estranei alla politica, come, per esempio, quando dico certe verità, dico le cose che pensa la gente. Mi diverto a suscitare delle reazioni e non ho motivo alcuno per cambiare. Continuo ad essere me stesso".

E' in vena di battute il premier. Facendo un chiaro riferimento alle recenti dichiarazioni dell'ex Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro (che lo aveva accostato a Mussolini), il premier scherza: "Attenti, sono il duce...". E poco prima che un giornalista italiano formulasse una domanda, sempre sorridendo, il presidente del Consiglio aveva aggiunto: "E' già tanto se ti rimane la cittadinanza italiana...".



LA GENTE: nell'accezione usata da Berlusconi, "gente" indica un generico gruppo di persone in numero imprecisato. Il popolo Italiano non è "la gente". Inoltre "gente" non significa "totalità o maggioranza", quindi chi parla di "gente" per supportare le proprie idee bara al gioco. "Quando dice certe verità" il primo ministro dice quello che pensa lui e un imprecisato numero di persone non identificabili.


"SONO COSI' SICURO DI ME STESSO ...": stendo un velo pietoso su questa affermazione così perentoria e implacabile, preferisco non rischiare.


MI DIVERTO A SUSCITARE DELLE REAZIONI ... : Il compito di Silvio Berlusconi non è divertirsi in vario modo, ma governare e governare in nome di tutti i cittadini e le cittadine Italiane, non solo di coloro che hanno votato per lui. Quasi ogni volta, dopo aver detto quello che pensa, è costretto a dire che non è stato capito o che intendeva scherzare. Dimentica chenella battuta scherzosa c'è sempre una rivelazione del vero pensiero dell'individuo/a, rivelazione che spesso emerge fuori controllo.


martedì 9 settembre 2003

SERENITA' PRIMA DI DORMIRE




"Music of the Spheres"
by   Bernard Xolotl

Nigeria: l’udienza di appello per il caso di


Amina Lawal si terrà il 25 Settembre


Il verdetto del processo d'appello per Amina Lawal, condannata alla lapidazione per avere avuto un figlio fuori del matrimonio, è stato aggiornato al 25 settembre, ha deciso la corte d'appello di Katsina (nord della Nigeria). Il 25 settembre è la data in cui il precedente processo aveva fissato l'esecuzione della donna.


Amnesty International ritiene che il diritto di Amina Lawal ad una rappresentanza legale, ad un processo giusto e al diritto all’appello al momento siano garantiti. Amina Lawal non è in stato di detenzione e ha un’eccellente rappresentanza legale. È aiutata da una coalizione di gruppi di donne nigeriane e gruppi dei diritti umani, con cui Amnesty International è a stretto contatto.



Purtroppo questo caso è stato rinviato talmente tante volte che molti di coloro che si sono mobilitati per l’annullamento della sua condanna non possono comprendere perché una donna e la sua bambina possano essere trattati così duramente. Questo sta diventando un caso palese di giustizia posticipata, che è giustizia negata.


Il Caso


Amina Lawal – una donna musulmana – è stata giudicata colpevole nel marzo 2002 per aver avuto un figlio al di fuori del matrimonio. Secondo i "Codici penali della Sharia", introdotti in Nigeria nel 1999 e in vigore in alcuni Stati del nord del paese, questo è stato sufficiente a condannarla per adulterio e a chiamarla a comparire in giudizio di fronte ad un tribunale della Sharia per rispondere di un "crimine" che ora è punito con la pena di morte per lapidazione.


Scheda: la pena di morte in Nigeria


Il nuovo codice penale della sharia permette alle corti della sharia di imporre condanne a morte anche per quei casi per i quali in precedenza non erano previste pene gravi. Secondo i "vecchi codici penali" degli Stati della Nigeria settentrionale e anche per il Codice penale federale, applicabile negli Stati del sud del paese, i processi che possono portare alla pena capitale devono essere tenuti solo dall'Alta Corte dello Stato. Con il nuovo codice della sharia, la situazione è completamente mutata.


Il nuovo codice penale della sharia e il Codice di procedura penale della sharia violano molti trattati internazionali ratificati dalla Nigeria, tra cui la Convenzione contro la tortura e altri trattamenti crudeli e degradanti delle Nazioni Unite e il Patto internazionale sui diritti civili e politici.


da AMNESTY INTERNATIONAL

lunedì 8 settembre 2003

EOS


De Morgan - Eos ... Image Loading



LO SPIRITO DELLA FORESTA


Colui che incatena a sé una gioia


Distrugge la vita alata


Ma colui che bacia la gioia in volo


Vive nell'alba dell' eternità



William Blake

domenica 7 settembre 2003

SGUARDI DI TENEREZZA TRA GENERAZIONI




Foto James L. Stanfield -  Timphu, Bhutan _ da National Geographic, 7 Sttembre 2003

venerdì 5 settembre 2003

L' IMPERATORE CALIGOLA



L'imperatore  Gaius Julius Caesar Germanicus, conosciuto come Caligula, 37–42;


 


 

mercoledì 3 settembre 2003

IL MONDO DELLE FATE NELLA MENTE



"The Faeries Queen" _ Gilbert Williams

IL MURO DI ISRAELE


Israeli tank infront of West Bank fence



Israel is building a protective wall

    



Foto da BBC NEWS



Quando sarà finito sarà lungo 370 miglia e alto 10 piedi, e circonderà quasi interamente la popolazionedi WEST BANK. Israele afferma che il recinto di sicurezza è necessario per proteggere i cittadini dagli attentatori suicidi. Ma per molte migliaia di Palestinesi taglia fuori i loro lavori, campi, affetti, è parte di un'illegale acquisizione di territorio per portarli fuori dalle loro case. Chris McGreal fa un viaggio lungo la sezione di 76 miglia già completate.


dal GUARDIAN 3 Settembre 2003


Israeli soldier walks past the security fence


Barricade or prison?
A journey along Israel's security fence. By Chris McGreal.

martedì 2 settembre 2003



Il Paese di Aung San Suu Kyi



Colpiscono le sue parole sul potere che corrompe:


Si fa corrompere chi lo detiene perché ha paura di perderlo


Si fa corrompere chi lo subisce perché ne teme la violenza.



Quali le cause della corruzione in Italia? Le condizioni mi sembrano diverse, ma molti comportamenti mi sembrano simili a quelli denunciati da Aung San Suu Kyi.


La corruzione non è solo nell'intascare tangenti, ma è anche nel confondere le coscienze, nella mistificazione della verità, nelle affermazioni buttate lì a caso, ma non casualmente.


Un esempio: il Presidente della Camera, Casini, equipara le testimonianze della signora Ariosto (già vagliate e provate in un processo regolare) a quelle del "conte" Igor Marini, le cui rivelazioni sono ancora tutte da considerare e provare.

lunedì 1 settembre 2003

La prigionia di San Suu Ky, farfalla d'acciaio della Birmania



[...]. Aung San Suu Kyi, leader del movimento birmano per la democrazia, dal 30 maggio scorso è agli arresti in un luogo segreto. Secondo il Dipartimento di Stato americano avrebbe intrapreso uno sciopero della fame, una decisione che di cui Washington imputa alla giunta militare la responsabilità, mettendola anticipatamente in guardia. I generali smentiscono e nessuno, né la Lega nazionale per la democrazia, il partito di San Suu Kyi, né la Croce rossa internazionale sono in grado di confermare. Ma il monito americano suona come un avvertimento a Rangoon, che abbia o meno fondamento. Due giorni dopo l’annuncio di una prossima revisione della Costituzione, da fare in casa, senza lo scomodo contributo dell’opposizione democratica, i generali si trovano tra le mani un’arma spuntata, le misure annunciate non convincono e non basteranno ad allentare le sanzioni: quelle americane sono entrate in vigore il 28 agosto e colpiscono pesantemente l’industria tessile, molte fabbriche saranno costrette a chiudere. «È un modo per tagliargli l’erba sotto i piedi», è questo il messaggio tra le righe che arriva da Washington, secondo un diplomatico occidentale.


Ufficialmente Aung San Suu Kyi non deve rispondere di nessun crimine, non sta pagando per nessun reato, fosse pure d’opinione. La sua detenzione viene definita dai generali di Rangoon un «modo per proteggerla» e la legge non richiede nessuna accusa, nessun tribunale, nessun appello, solo un generico marchio di pericolosità per «la sicurezza e la sovranità dello Stato» applicabile a piacere. È una vecchia legge, ritoccata nel ‘91 su misura per San Suu Kyi e i suoi: autorizza la detenzione fino a cinque anni, rinnovabili di anno in anno, senza che sia mai previsto l’intervento di un giudice.


Sono centinaia in Birmania, Myanmar, i prigionieri di coscienza gettati in una cella, l’ultima infornata nel giugno scorso, dopo quelli che il regime ha definito scontri provocati dai sostenitori della Lega Nazionale della democrazia e che avevano piuttosto l’aria di una campagna repressiva, costata secondo Amnesty un centinaio di morti. Da allora un silenzio avvolgente e vischioso è calato su Aung San Suu Kyi, solo il 29 luglio scorso inviati dell’Onu e della Croce rossa internazionale hanno potuto incontrarla, senza poter rivelare dove si trovi. Sta bene, ecco tutto. [...]



Non è la prima volta che Aung San Suu Kyi viene inghiottita dal buio della detenzione. Quando i militari la misero agli arresti domiciliari nel luglio dell’89 - poco più di un anno dopo il suo ritorno in Birmania, dove era stata richiamata dalla malattia della madre morente - la figlia del generale Aung San, l’uomo che trattò con gli inglesi l’indipendenza del paese, era già tanto popolare che a dispetto dei bavagli imposti dalla giunta il suo partito riuscì a incassare l’82% dei voti alle elezioni del ‘90. Il Consiglio di Stato per lo sviluppo e la pace - così si definiscono gli uomini al potere a Rangoon - non riconobbe quel risultato. San Suu Kyi rimase rinchiusa dentro casa, i suoi figli Kim e Alexander accettarono per lei ad Oslo il Premio Nobel per la pace nel ‘91, che riconosceva la sua «lotta non violenta per la democrazia e i diritti umani».


Sei anni di arresti domiciliari, con il suo nome divenuto scomodo per la giunta, che cerca accordi segreti per cavarsi d’impaccio. Un dialogo pubblico, chiede invece San Suu Kyi, convinta che in Birmania il cambiamento è possibile sulla strada della nonviolenza. «Siamo sempre pronti a lavorare insieme alle autorità per ottenere la riconciliazione nazionale», sostiene, senza perdersi mai d’animo. Nemmeno quando nel ‘99 la giunta vieta al marito, il britannico Michael Aris, malato di cancro, di poterla incontrare. Morirà lontano da San Suu Kyi, alla quale prima di sposarsi aveva promesso di non diventare mai un ostacolo tra lei e il suo paese. Farle lasciare Rangoon sarebbe stato la stessa cosa che condannarla all’esilio.


Quando nel luglio del ‘95 torna libera - per essere arrestata di nuovo nel 2000 per 19 mesi - il paese non è cambiato, la sua libertà personale non è molto di più che la fine della restrizione fisica tra le pareti di casa. «I cambiamenti verranno perché i militari hanno le armi e nient’altro», continua però a ripetere San Suu Kyi. Per lei, che ha perso suo padre ucciso quando aveva solo due anni ed è stata educata dalla madre, un’ex infermiera divenuta ambasciatrice tra New Delhi, Oxford e New York, la democrazia non è un piatto buono solo per l’Occidente. È questa la radice della sua forza, evidente sotto un fisico apparentemente fragile. La «farfalla d’acciaio», la chiamano i suoi.


«Noi pensiamo che la forza del nostro movimento è veramente il paese stesso - ha detto una volta, tante volte, Aung San Suu Kyi -. È nella volontà della gente, la grande maggioranza della gente in Birmania vuole la democrazia».


Alla solidarietà internazionale chiede coerenza. Invita a non visitare il paese come turisti, finanziando così indirettamente la giunta.


Se la prende con la Pepsi che smercia i suoi prodotti in Birmania, a dispetto dei proclami americani a sostegno della democrazia per il suo popolo.


E invita la sua gente ad alzare la testa, sempre.


«Non è il potere che corrompe, ma la paura - dice San Suu Kyi -.


La paura di perdere il potere corrompe quelli che lo detengono.


La paura della frusta, quelli che lo subiscono».



Marina Mastroluca,  L'UNITA' - 2 SETTEMBRE 2003