ROTTAMAZIONE,
dice il vocabolario, è l’azione che si compie quando si demoliscono oggetti
fuori uso: specie automobili. Vengono triturati, per riutilizzare le parti
metalliche. A volte, ottieni sconti sulla nuova vettura.
Applicata alle persone
e al ricambio di dirigenti politici, è una delle parole più maleducate e
violente che esistano oggi in Italia. I rottamatori sono fieri di chiamarsi
così, e quando l’operazione riesce esibiscono le spoglie del vinto: «La
rottamazione comincia a produrre i primi frutti», ripeteva Matteo Renzi,
domenica in un’intervista in tv.
La lotta per l’avvicendamento ai vertici della
politica ha sue ragioni, e lo stile brutale risponde a un’ansia, enorme e
autentica, di cambiamento: si vorrebbe azzerare l’esistente, e come nella
poesia di Rimbaud ci si professa «assolutamente moderni».
È un conflitto
legittimo, anche necessario: che va portato alla luce perché nell’ombra
degenera o ammutolisce. È il grande merito del sindaco di Firenze, come di
Grillo. Impressionante è la campagna di quest’ultimo in Sicilia: lunga,
martellante, è rifiuto del mutismo. Da due settimane è nell’isola; nessuno
s’era messo per tanto tempo in ascolto delle sue collere. Ma la parola
rottamazione, anche se Renzi intende cambiamento, resta ustionante e parecchi
la prendono alla lettera. L’avversario – rivale è trattato alla stregua di
arnese metallico. Se l’idea della rottamazione non avesse alle spalle una
storia lunga, di degradazione della persona a oggetto servibile, non
susciterebbe tanto disagio. Non sveglierebbe fantasie di uomini «di troppo», di
rottami. Forse chi la usa (non solo il sindaco di Firenze) non se ne rende
conto, ma il termine alligna nelle terre della pubblicità ed è lessico della
generazione Berlusconi.
È nato con lui, con le sue disinvolture
verbali. Non ingentilisce ma corrompe il discorso pubblico. È figlio della
rivoluzione non solo politica ma linguistica, di stile, che Berlusconi inaugurò
nel ‘94. Fu una rivoluzione della noncuranza, del «tutto è permesso»: non
badava alle conseguenze di quel che veniva detto, ai tabù infranti.
È una parola del tutto anomala, inoltre. In
Europa o America, nessun politico che magnifichi il Nuovo oserebbe condurre una
campagna in cui gli anziani, i seniores, vengano definiti ferrivecchi.
Nell’aprile 2002, quando il socialista Jospin alluse all’età del rivale Chirac,
i sondaggi lo punirono, screditandolo. Aveva avuto l’impudenza e l’imprudenza
di dire che il Presidente era «affaticato, invecchiato, vittima dell’usura».
Gli elettori non amavano Chirac, ma la mancanza di gentile rispetto
dell’anzianità, in Jospin, fu ritenuta intollerabile.
Una cosa è attaccare la linea dell’avversario:
soffermandosi su di essa, senza censure. Altra cosa è assalire la persona.
Se rottamazione scomparisse dal vocabolario
giornalistico e politico non sarebbe male. Conterebbe più la sostanza: l’errore
di Veltroni, quando affondò l’ultimo governo Prodi annunciando che il Pd,
rompendo le catene della sinistra radicale, sarebbe «corso da solo» (come se
non fosse stato il centro a silurare Prodi). O si potrebbe raccontare D’Alema:
il suo rapporto sprezzante con giornalisti e magistrati, i piaceri che fece a
Berlusconi, i dispiaceri che procurò a Prodi, l’influenza eccessiva esercitata
su Bersani.
Ci dedicheremmo a quel che Renzi vuol dire, e alla fiducia che
riscuote in persone di prestigio come Pietro Ichino (nota mia personale: Ichino, infatti, quell'Ichino).
Rottamazione è un cartello
stradale che depista: non dice quel che promette, né sull’Europa né sulla
corruzione né sulla ‘ndrangheta che ci assilla.
Vale la pena ripercorrere la
storia di questo vocabolo, tanto più cruento in un paese fragile: dopo la
Germania, siamo il popolo che più invecchia in Europa. Vale la pena tener viva
la memoria, perché lo sgarbo non è episodico ma ha radici in una sistematica
denigrazione dei più anziani: nei luoghi di lavoro e nella politica.
Il
Parlamento si era appena insediato, nel ‘94, e fu subito offensiva contro un
senior come Norberto Bobbio. Eletto alla Camera alta, Franco Zeffirelli
giubilò: la Seconda repubblica aveva spazzato via «la triste sfilata dei
senatori a vita, uno più cadaverico dell’altro, una vecchia Italia che non vogliamo
più e che si è seppellita da sola». Facendogli eco, Maurizio Gasparri diceva di
Indro Montanelli: «Quello è arrivato al tramonto della vita e anche delle
capacità intellettuali del suo cervello»
L’offensiva rottamatrice proseguì, più
feroce, nel 2006-2008. Ricordiamo gli improperi riversati su Rita Levi
Montalcini, e sulla sua tenace presenza in Senato per sostenere il governo di
centro sinistra. Sul Giornale del 14-7-07, Paolo Guzzanti parlò di vecchi
«scongelati, inchiavardati allo scranno e costretti a pigiare col ditino il
pulsante guidato da una senatrice badante». Storace promise «un bel paio di
stampelle da consegnare a domicilio. Si comincia dalla senatrice a vita Levi
Montalcini ». Su Libero, diretto da Vittorio Feltri, apparve il titolo d’apertura:
«La dittatura dei pannoloni».
Siamo dunque lontani dal vero, quando
scriviamo che Berlusconi è finito, e con lui il lessico d’insulti della Lega.
Il loro modo d’essere e di dire sgocciola come da una flebo nelle vene di
un’intera generazione. È il suo marchio, così come le parole del ’68 intrisero
due generazioni. I francesi faticano ancor oggi a uscire dalla generazione
Mitterrand.
Faticheremo anche noi, più di quel che si
dica.
Il cambiamento è altra cosa.
È la crisi non come decadenza ma trasformazione:
un desiderio che Renzi intuisce, e vuol incarnare. È un conflitto ineluttabile:
fra ieri, oggi, domani. È un progetto diverso di crescita, non nuovo tra
l’altro, se già nel 1987 il rapporto Brundtland scriveva: «Lo sviluppo
sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza
compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri
bisogni». È un orizzonte dato a giovani cui non si può dire, come il ministro
Fornero: «Siete troppo choosy! » («schizzinosi » è mal tradotto, cancella il
furto della scelta). E che volto devono avere le nostre città, i nostri
pubblici spazi e servizi? Come congegnare pensioni che non tramutino gli
anziani in gente bandita o – abbondano anche qui truci aggettivi – in esuberi o
esodati?
Dai tempi dei Viceré e del Gattopardo sappiamo
che cambiar facce non basta alle Grandi Trasformazioni.
Rottamazione oltre che
parola è diseducativa, non prepara alcunché. Alla sua insegna non può svolgersi
dibattito fra candidati alla guida del Paese. Eppure di discussioni dirette c’è
bisogno: per districarsi da soli, senza mediatori nei giornali o in Tv. Nelle
primarie americane e francesi è la norma, sebbene scabrosa.
Il rottamatore di
professione, presente ovunque nei partiti, ti fruga, alla ricerca degli istinti
più bassi, delle passioni più tristi. Viene in mente il Viaggio agli inferni
del secolo di Buzzati: nei sotterranei milanesi, sotto la metro, c’è un mondo
parallelo in cui i vecchi, inservibili, sono scaraventati dalle finestre nei
marciapiedi. Entrümpelung, parola che Buzzati prende dal lessico nazista,
significa repulisti, sgombero: è una variante dell’igienica rottamazione.
Anche
quel repulisti viene celebrato come «festa della giovinezza, della rinascita,
della speranza», del Mondo Nuovo.
Accade così che il diverso appaia come uomo
di troppo: povero o vecchio, esodato o immigrato. Sono i disastri del moderno,
non del barbarico.
Una volta che te la prendi con classi d’età, quindi con la
biologia, entri nella logica del capro espiatorio, dell’innocente che paga per
il collettivo. Il rito è la ripetizione di un primo linciaggio spontaneo,
secondo René Girard, che riporta ordine in seno alla comunità. Nel linciaggio,
la violenza di tutti contro tutti sfocia in violenza di tutti contro uno.
Sarebbe bello se a dirlo, con voce non bassa, fossero anche i giovani.