Sputo il rospo
Marco Revelli
Constatare che quanto sta accadendo in questi giorni al vertice delle nostre istituzioni è quantomeno irrituale è dir poco. In realtà, in questa affrettata fine di legislatura un altro pezzo di quel che resta del nostro ordinamento costituzionale è andato in pezzi. Siamo – o meglio dovremmo essere – una «democrazia parlamentare»: una forma di governo, cioè, in cui il fulcro del sistema politico è il Parlamento. È in Parlamento che dovrebbero nascere e finire i governi. Con un voto di fiducia nel primo caso. E con un voto di sfiducia nel secondo, quando la legislatura non sia giunta alla propria fine naturale.
Qui, invece, è bastato che il presidente del consiglio in carica annunciasse le proprie dimissioni – in assenza di un voto di sfiducia, anzi, nonostante avesse appena incassato la fiducia sulla Legge di stabilità – perché il Presidente della Repubblica, dopo una fulminea consultazione di qualche ora, sciogliesse anticipatamente le camere. Correttezza avrebbe voluto che, di fronte alle dimissioni del capo del governo, il capo dello stato lo rinviasse alle camere perché, con un dibattito chiaro, in cui ogni parte politica assumesse in pubblico e nella sede naturale le proprie responsabilità, si misurasse con un voto l’esistenza o meno di una maggioranza.
Invece no. Per la seconda volta nel giro di un anno si è consumata una soluzione extra-parlamentare.
Il governo Monti finisce così come era incominciato: per un atto d’imperio del secondo ramo del potere esecutivo (quello costituzionalmente meno pregnante sul piano dell’indirizzo politico), nella marginalità del potere legislativo. E questa seconda volta senza neppure la possibile giustificazione dell’emergenza (il rischio di default, lo spread alle stelle, il crollo dell’Eurozona…) su cui motivare un qualche «stato d’eccezione». Come se l’eccezione fosse, in questi tredici mesi, diventata la regola.
In entrambi i casi al centro dello strappo ci sono i partiti (l’intero sistema dei partiti), con la loro crisi. La loro impotenza o fragilità. La loro impossibilità di trasparenza e verità. A novembre dello scorso anno perché si fecero precipitosamente di lato, anzi fuggirono mentre il paese era in caduta libera, ben felici di passare la patata bollente al Presidente. Ora perché, probabilmente, si sono fatti fin troppo avanti, per chiedere a quello stesso Presidente una chiusura al buio della legislatura.
E quindi un’apertura al buio della campagna elettorale, che evitasse loro di mettere fin da subito, nella sede istituzionale adeguata, le carte in tavola. Il proprio giudizio sull’anno passato e il proprio programma per il quinquennio futuro.
In un dibattito parlamentare sulla fiducia, ad esempio, e nel voto finale, il Pdl si sarebbe probabilmente spaccato in misura ben più evidente di quanto lo sia già, anticipando lo scenario che lo attende dopo le urne e accelerando i propri processi decompositivi. Ed il Pd avrebbe dovuto motivare, a sua volta in pubblico, la propria politica di quest’anno nei confronti di Monti, esponendosi anch’esso alla responsabilità della fiducia: l’avrebbe confermata anche ora, ipotecando il proprio atteggiamento in campagna elettorale? O l’avrebbe negata, mostrando in pubblico un’opzione diversa dall’Agenda Monti? O forse anch’esso si sarebbe diviso, lungo le linee che già si intuiscono, ma che si vorrebbe tenere nascoste fino all’esito elettorale.
E poi Monti. Abbiamo dovuto decifrare le ragioni del capo del governo dimissionario da una conferenza stampa, in un fulmineo passaggio in cui si affermava che non c’erano alternative alla fine del suo Gabinetto e della Legislatura. Non in un’aula parlamentare, ma in una sede mediatica.
E dobbiamo ora intuire i suoi progetti da un «cinguettio», anzi da due. Proprio così, per grottesco che possa apparire: su twitter! E anche, si dice, su una pagina di facebook. Altro che Grillo! E anti-politica. E democrazia telematica. Due messaggini di 77 e 59 caratteri. «Monti su twitter: ‘Saliamo in politica’» titola il Corriere, senza sarcasmo, come se fosse un modo normale di trattare la cosa pubblica.
La campagna elettorale che ci aspetta sarà dunque «sotto copertura». Forse non sarà convulsa come temuto, ma sicuramente opaca. Nel senso che la verità – il «sottostante», potremmo dire con linguaggio da broker finanziari – verrà fuori solo dopo. A babbo morto (cioè a elettore liquidato). E quella verità sarà quella adombrata in sala stampa di Palazzo Chigi: che l’agenda Monti, chiunque vinca, sarà al centro del tavolo. Che le linee guida europee sono invalicabili. Che il lavoro – eufemismo per dire i lavoratori e i loro salari e le loro garanzie – sarà, in misura crescente, il materasso su cui scaricare il peso dell’infinito Salva Italia, in un processo di redistribuzione dal basso verso l’alto e dall’economia reale al circuito finanziario che continua a restare il dogma infrangibile di questa Europa (e di questo Occidente).
Che probabilmente questo avverrà per via diretta – con il taglio delle ali dei due «poli» e la convergenza al centro delle rispettive componenti «moderate». O, in alternativa, con l’ascensione di Mario Monti sul colle più alto – forse per questo parla di «salita» in politica – trasformato in vero baricentro del sistema e la delega al rappresentante della rinnovata maggioranza parlamentare di farsene esecutore.
Meglio saperlo fin d’ora. Perché solo una straordinaria impennata d’orgoglio dell’elettorato, oggi difficile da misurare, potrà smentire questa forse troppo facile profezia.
Qui, invece, è bastato che il presidente del consiglio in carica annunciasse le proprie dimissioni – in assenza di un voto di sfiducia, anzi, nonostante avesse appena incassato la fiducia sulla Legge di stabilità – perché il Presidente della Repubblica, dopo una fulminea consultazione di qualche ora, sciogliesse anticipatamente le camere. Correttezza avrebbe voluto che, di fronte alle dimissioni del capo del governo, il capo dello stato lo rinviasse alle camere perché, con un dibattito chiaro, in cui ogni parte politica assumesse in pubblico e nella sede naturale le proprie responsabilità, si misurasse con un voto l’esistenza o meno di una maggioranza.
Invece no. Per la seconda volta nel giro di un anno si è consumata una soluzione extra-parlamentare.
Il governo Monti finisce così come era incominciato: per un atto d’imperio del secondo ramo del potere esecutivo (quello costituzionalmente meno pregnante sul piano dell’indirizzo politico), nella marginalità del potere legislativo. E questa seconda volta senza neppure la possibile giustificazione dell’emergenza (il rischio di default, lo spread alle stelle, il crollo dell’Eurozona…) su cui motivare un qualche «stato d’eccezione». Come se l’eccezione fosse, in questi tredici mesi, diventata la regola.
In entrambi i casi al centro dello strappo ci sono i partiti (l’intero sistema dei partiti), con la loro crisi. La loro impotenza o fragilità. La loro impossibilità di trasparenza e verità. A novembre dello scorso anno perché si fecero precipitosamente di lato, anzi fuggirono mentre il paese era in caduta libera, ben felici di passare la patata bollente al Presidente. Ora perché, probabilmente, si sono fatti fin troppo avanti, per chiedere a quello stesso Presidente una chiusura al buio della legislatura.
E quindi un’apertura al buio della campagna elettorale, che evitasse loro di mettere fin da subito, nella sede istituzionale adeguata, le carte in tavola. Il proprio giudizio sull’anno passato e il proprio programma per il quinquennio futuro.
In un dibattito parlamentare sulla fiducia, ad esempio, e nel voto finale, il Pdl si sarebbe probabilmente spaccato in misura ben più evidente di quanto lo sia già, anticipando lo scenario che lo attende dopo le urne e accelerando i propri processi decompositivi. Ed il Pd avrebbe dovuto motivare, a sua volta in pubblico, la propria politica di quest’anno nei confronti di Monti, esponendosi anch’esso alla responsabilità della fiducia: l’avrebbe confermata anche ora, ipotecando il proprio atteggiamento in campagna elettorale? O l’avrebbe negata, mostrando in pubblico un’opzione diversa dall’Agenda Monti? O forse anch’esso si sarebbe diviso, lungo le linee che già si intuiscono, ma che si vorrebbe tenere nascoste fino all’esito elettorale.
E poi Monti. Abbiamo dovuto decifrare le ragioni del capo del governo dimissionario da una conferenza stampa, in un fulmineo passaggio in cui si affermava che non c’erano alternative alla fine del suo Gabinetto e della Legislatura. Non in un’aula parlamentare, ma in una sede mediatica.
E dobbiamo ora intuire i suoi progetti da un «cinguettio», anzi da due. Proprio così, per grottesco che possa apparire: su twitter! E anche, si dice, su una pagina di facebook. Altro che Grillo! E anti-politica. E democrazia telematica. Due messaggini di 77 e 59 caratteri. «Monti su twitter: ‘Saliamo in politica’» titola il Corriere, senza sarcasmo, come se fosse un modo normale di trattare la cosa pubblica.
La campagna elettorale che ci aspetta sarà dunque «sotto copertura». Forse non sarà convulsa come temuto, ma sicuramente opaca. Nel senso che la verità – il «sottostante», potremmo dire con linguaggio da broker finanziari – verrà fuori solo dopo. A babbo morto (cioè a elettore liquidato). E quella verità sarà quella adombrata in sala stampa di Palazzo Chigi: che l’agenda Monti, chiunque vinca, sarà al centro del tavolo. Che le linee guida europee sono invalicabili. Che il lavoro – eufemismo per dire i lavoratori e i loro salari e le loro garanzie – sarà, in misura crescente, il materasso su cui scaricare il peso dell’infinito Salva Italia, in un processo di redistribuzione dal basso verso l’alto e dall’economia reale al circuito finanziario che continua a restare il dogma infrangibile di questa Europa (e di questo Occidente).
Che probabilmente questo avverrà per via diretta – con il taglio delle ali dei due «poli» e la convergenza al centro delle rispettive componenti «moderate». O, in alternativa, con l’ascensione di Mario Monti sul colle più alto – forse per questo parla di «salita» in politica – trasformato in vero baricentro del sistema e la delega al rappresentante della rinnovata maggioranza parlamentare di farsene esecutore.
Meglio saperlo fin d’ora. Perché solo una straordinaria impennata d’orgoglio dell’elettorato, oggi difficile da misurare, potrà smentire questa forse troppo facile profezia.
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