AHIMSA. Parola sanscrita che ho imparato da Gandhi. Vuol dire "innocenza" e "non violenza","impegno a non nuocere ad alcun essere vivente". AHIMSA. I miei obiettivi sono la ricerca, la conoscenza, la comunicazione e la condivisione di emozioni, idee, informazioni con altre "persone che cercano". L'altro mio blog è CONVIVIUM, il posto del banchetto.
venerdì 16 ottobre 2015
vita e morte dei nostri fratelli e sorelle animali
Margherita Hack, vegetariana dalla nascita, senza radicalismi e con simpatia, parla in favore degli animali non umani che noi mangiamo e, ammettendo la difficoltà di un nostro cambiamento in breve tempo, chiede che almeno siano risparmiate loro inutili atroci sofferenze e la terribile paura finale della morte.
https://www.facebook.com/dolcesangue/videos/1013739465336932/
dissenso in Senato per la riforma [1]
Nome documento:
|
st522.pdf
|
Tipo documento:
|
Resoconto stenografico assemblea
|
N.° seduta:
|
522
|
Tipo seduta:
|
Unica
|
Data:
|
13/10/2015
|
Sen.
Elena Cattaneo – Voto in dissenso alla riforma del Senato
Signor
Presidente, colleghi, speravo che la Camera dei deputati
migliorasse un testo
che
in molti ritenevano inadeguato; è successo l’opposto. Nelle
scorse settimane si è lavorato in quest’Aula almeno per
ripristinare alcuni funzioni del Senato: i risultati vanno
riconosciuti e dobbiamo ringraziare quanti si sono spesi in questa
sede, anche se ci sono limiti e contraddizioni che permangono, tanto
da aver disegnato, anche a mio avviso, un ircocervo istituzionale.
Soprattutto
in questi mesi e settimane mi ha deluso constatare che invece di
essere terreno di confronto e di unione, la riforma è stata
proposta
e
vissuta come una disputa su chi avrebbe vinto, cioè se qualcuno
avesse i
numeri
peraltro risicati per modificarla a prescindere, proprio mentre si
stava
discutendo come migliorarla, il tutto immerso in un pesante clima
di
anti-intellettualismo. Non sono un’esperta di storia politica, ma
ne so
quanto
basta per ricordare quanto l’insofferenza per le competenze è
stata
la cartina al tornasole di stagioni politiche tragiche del passato
anche recente. Continua ad essere per me incomprensibile che si sia
accettato che
una
riforma costituzionale di questa portata potesse essere da subito
dettata fuori da quest’Aula. Non ho capito nemmeno la
contraddizione di
quanti
di voi, nell’arco di pochi mesi, hanno votato dapprima in un
modo
e poi nell’altro il medesimo testo. Inoltre, mi risulta difficile
individuare nelle scissioni e nelle ricomposizioni dei Gruppi
presenti in quest’Assemblea in prossimità delle votazioni
decisive l’interesse del Paese ad avere una buona riforma.
Colleghi,
in questa riforma i vostri commenti e le vostre dichiarazioni
private e pubbliche sono state la mia bussola. Alla domanda sul
perché avremmo dovuto votarla, la maggior parte di voi ha addotto
ragioni per gran parte estranee all’assetto costituzionale da
realizzare e basate piuttosto sull’opportunità e sulla
contingenza politica che stiamo vivendo.
Forse
perché poco avvezza agli equilibrismi politici, nell’ascoltarvi e
nel
vedere alcuni comportamenti, posso affermare con sicurezza che
questo testo mi è estraneo. Tuttavia, ove i cittadini approvassero
il testo, preannuncio fin da ora il mio impegno affinché, aldilà
di ogni considerazione critica, il Senato riformato sia in grado di
corrispondere al meglio ai propri compiti: lo faccio in nome
dell’autorevolezza delle istituzioni democratiche che ritengo
siano da preservare in ogni circostanza nella loro dignità.
Ma
oggi la mia decisione e` di astenermi nuovamente (astensione che so
essere voto contrario in quest’Aula). La mia astensione è dettata
da un senso di profondo smarrimento e dal rammarico per l’occasione
perduta di acquisire elementi migliorativi più volte ribaditi in
quest’Aula, per dotare il Paese di un assetto costituzionale in
grado di fronteggiare le sfide del presente e del futuro.
Senato
della Repubblica
XVII
LEGISLATURA
–
51
–
522ª
Seduta 13 ottobre 2015
Assemblea
- Resoconto stenografico
(Applausi
dai Gruppi Misto e CoR).
PRESIDENTE.
Prima di passare alla votazione finale,
martedì 13 ottobre 2015
La legge costituzionale che il senato voterà oggi dissolve l’identità della Repubblica nata dalla Resistenza. È inaccettabile per il metodo e i contenuti; lo è ancor di più in rapporto alla legge elettorale già approvata. Nel metodo: è costruita per la sopravvivenza di un governo e di una maggioranza privi di qualsiasi legittimazione sostanziale dopo la sentenza con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del «Porcellum»
martedì 6 ottobre 2015
POVEGLIA PER TUTTI
venerdì 18 settembre 2015
Settant'anni e non sentirli
di Marco Travaglio 18 Settembre 2015
Ignoranza o menzogna? probabilmente il saldo intreccio tra l'una e l'altra. Ma la questione è sempre la stessa, tragica per chi è nato qui: agli italiani piace cosí. Il Fatto quotidiano, 18 settembre 2015
Lo sapevate? “Questa riforma è attesa da 70 anni”. L’ha detto Matteo
Renzi, che non sembra ma è il presidente del Consiglio e il segretario
del Pd, parlando della legge costituzionale in conferenza stampa con il
premier lussemburghese Xavier Bettel, che immaginiamo interessatissimo
al tema. E l’aveva già detto sempre ieri Maria Elena Boschi, che non
sembra ma è il ministro delle Riforme istituzionali, in una spassosa
intervista al Corriere: “Sono 70 anni che stiamo aspettando la fine del
bicameralismo paritario”.
Chissà quali libri hanno letto o quali sostanze hanno assunto i due somari che tengono in ostaggio la Costituzione, per farsi l’idea che 70 anni fa, cioè nel 1945, subito dopo la Liberazione dal nazifascismo e dalla guerra civile, gli italiani scendessero in strada scandendo slogan contro il bicameralismo paritario e contro il resto della Costituzione due anni prima che questa fosse scritta. Forse non guasterebbe la lettura di un manuale di storia, anche in formato Bignami, o qualche seduta in una comunità di recupero, per insegnare ai due padri ricostituenti qualche rudimento di cultura generale, utilissimo per colmare le loro lacune e risparmiare loro altre scemenze.
Il bicameralismo paritario – Camera e Senato con regole elettorali diverse, ma con funzioni analoghe – fu introdotto dalla Carta approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947, promulgata cinque giorni dopo dal capo dello Stato ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Cioè 67 anni e mezzo fa. E si può serenamente escludere che negli anni successivi qualcuno invocasse una riforma della Costituzione appena varata.
Fu negli anni 70-80 che i partiti cominciarono a scaricare sul Parlamento le colpe della loro inconcludenza, corruzione e rissosità, spacciando alla gente l’illusione che eliminando il Senato o privandolo del voto di fiducia l’Italia sarebbe diventata una democrazia efficiente. Ma nessuno abboccò: l’opinione pubblica seguitò a fregarsene bellamente e nessuno versò una sola lacrima dinanzi al naufragio delle orribili riforme costituzionali tentate dalle varie commissioni bicamerali (Bozzi, De Mita-Iotti, D’Alema-Berlusconi). Anche perché i dati parlano chiaro: se certe leggi impiegano tanto a uscire approvate dal Parlamento non è perché ci siano due Camere anziché una e mezza, ma perché da sempre i partiti litigano fra loro, o più spesso al proprio interno.
Quando invece le maggioranze vanno d’accordo, i tempi sono rapidissimi. In media, fra Camera e Senato, 53 giorni per le leggi ordinarie, 46 per i decreti e 88 per le Finanziarie. Solo la loro misera penuria di argomenti può portare Renzi & Boschi a gabellare la loro schiforma per un evento epocale “atteso da 70 anni”. Ma atteso da chi? Secondo l’ul timo sondaggio Ipsos per il Corriere, solo il 3% degli italiani conosce la riforma del Senato “nel dettaglio”, un altro 28% “a grandi linee” e tutti gli altri – la stragrande maggioranza – non ne sanno nulla, per dire con quanta ansia la attendono da 70 anni.
L’unica cosa che tutti hanno capito è che il Senato non sarà più eletto, infatti il 73% vuole continuare a eleggerlo, in piena sintonia con la minoranza Pd e i partiti d’opposizione. Evidentemente Renzi & Boschi frequentano gli unici due o tre squilibrati che non vedono l’ora di non eleggere più i senatori per farli nominare da quelle associazioni per delinquere che sono quasi tutti i consigli regionali, con l’aggiunta dell’immunità parlamentare.
Eppure la bella addormentata nei Boschi delira, sempre sul Corriere, di un non meglio precisato “impegno da mantenere con i cittadini”: e quando mai ha preso quell’impegno, e con quali cittadini, visto che il suo partito arrivò primo alle ultime elezioni del 2013 promettendo di far eleggere direttamente tutti i parlamentari dopo dieci anni di Porcellum? Poi vaneggia di una fantomatica “esigenza di rispettare la data del 15 ottobre” (fissata da chi? e perché non il 15 novembre, o dicembre, o gennaio?) dinanzi all’“Europa” che “ci riconosce spazi finanziari di flessibilità se in cambio facciamo le riforme”: come se la flessibilità sul rapporto deficit-Pil c’entrasse qualcosa col Senato.
Alla fine però la Boschi confessa: “Faccio sogni molto più belli che quello di fare il premier”. Ecco svelato l’arcano. Le boiate che dice e purtroppo scrive nella nuova Costituzione deve avergliele dettate in sogno qualcuno che a noi pare di conoscere: crapa pelata, mascella volitiva, mento e labbro inferiore sporgenti. La trovata delle riforme attese da 70 anni può venire soltanto da lui. Fu proprio 70 anni fa che l’Italia abolì il bicameralismo imperfetto creato da Mussolini: cioè la Camera dei Fasci e delle Corporazioni (membri non eletti, ma nominati dal Gran Consiglio del Fascismo presieduto dal Duce, dal Consiglio nazionale del Partito fascista presieduto dal Duce e dal Consiglio nazionale delle Corporazioni presieduto dal Duce) e il Senato del Regno (membri non eletti, ma nominati a vita dal Re su input del governo). Due Camere di nominati con funzioni diverse, ma relegate a un ruolo ancillare del governo.
Mutatis mutandis, è quello che ci aspetta con la Camera dei nominati (i capilista bloccati dell’Italicum) e il Senato dei nominati (i senatori paracadutati dalle Regioni). Manca solo l’articolo 2 della legge fascistissima 19.1.1939 n. 129: “Il Senato del Regno e la Camera dei Fasci e delle Corporazioni collaborano col governo alla formazione delle leggi”. Ma questo, oggi, è sottinteso.
Chissà quali libri hanno letto o quali sostanze hanno assunto i due somari che tengono in ostaggio la Costituzione, per farsi l’idea che 70 anni fa, cioè nel 1945, subito dopo la Liberazione dal nazifascismo e dalla guerra civile, gli italiani scendessero in strada scandendo slogan contro il bicameralismo paritario e contro il resto della Costituzione due anni prima che questa fosse scritta. Forse non guasterebbe la lettura di un manuale di storia, anche in formato Bignami, o qualche seduta in una comunità di recupero, per insegnare ai due padri ricostituenti qualche rudimento di cultura generale, utilissimo per colmare le loro lacune e risparmiare loro altre scemenze.
Il bicameralismo paritario – Camera e Senato con regole elettorali diverse, ma con funzioni analoghe – fu introdotto dalla Carta approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947, promulgata cinque giorni dopo dal capo dello Stato ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Cioè 67 anni e mezzo fa. E si può serenamente escludere che negli anni successivi qualcuno invocasse una riforma della Costituzione appena varata.
Fu negli anni 70-80 che i partiti cominciarono a scaricare sul Parlamento le colpe della loro inconcludenza, corruzione e rissosità, spacciando alla gente l’illusione che eliminando il Senato o privandolo del voto di fiducia l’Italia sarebbe diventata una democrazia efficiente. Ma nessuno abboccò: l’opinione pubblica seguitò a fregarsene bellamente e nessuno versò una sola lacrima dinanzi al naufragio delle orribili riforme costituzionali tentate dalle varie commissioni bicamerali (Bozzi, De Mita-Iotti, D’Alema-Berlusconi). Anche perché i dati parlano chiaro: se certe leggi impiegano tanto a uscire approvate dal Parlamento non è perché ci siano due Camere anziché una e mezza, ma perché da sempre i partiti litigano fra loro, o più spesso al proprio interno.
Quando invece le maggioranze vanno d’accordo, i tempi sono rapidissimi. In media, fra Camera e Senato, 53 giorni per le leggi ordinarie, 46 per i decreti e 88 per le Finanziarie. Solo la loro misera penuria di argomenti può portare Renzi & Boschi a gabellare la loro schiforma per un evento epocale “atteso da 70 anni”. Ma atteso da chi? Secondo l’ul timo sondaggio Ipsos per il Corriere, solo il 3% degli italiani conosce la riforma del Senato “nel dettaglio”, un altro 28% “a grandi linee” e tutti gli altri – la stragrande maggioranza – non ne sanno nulla, per dire con quanta ansia la attendono da 70 anni.
L’unica cosa che tutti hanno capito è che il Senato non sarà più eletto, infatti il 73% vuole continuare a eleggerlo, in piena sintonia con la minoranza Pd e i partiti d’opposizione. Evidentemente Renzi & Boschi frequentano gli unici due o tre squilibrati che non vedono l’ora di non eleggere più i senatori per farli nominare da quelle associazioni per delinquere che sono quasi tutti i consigli regionali, con l’aggiunta dell’immunità parlamentare.
Eppure la bella addormentata nei Boschi delira, sempre sul Corriere, di un non meglio precisato “impegno da mantenere con i cittadini”: e quando mai ha preso quell’impegno, e con quali cittadini, visto che il suo partito arrivò primo alle ultime elezioni del 2013 promettendo di far eleggere direttamente tutti i parlamentari dopo dieci anni di Porcellum? Poi vaneggia di una fantomatica “esigenza di rispettare la data del 15 ottobre” (fissata da chi? e perché non il 15 novembre, o dicembre, o gennaio?) dinanzi all’“Europa” che “ci riconosce spazi finanziari di flessibilità se in cambio facciamo le riforme”: come se la flessibilità sul rapporto deficit-Pil c’entrasse qualcosa col Senato.
Alla fine però la Boschi confessa: “Faccio sogni molto più belli che quello di fare il premier”. Ecco svelato l’arcano. Le boiate che dice e purtroppo scrive nella nuova Costituzione deve avergliele dettate in sogno qualcuno che a noi pare di conoscere: crapa pelata, mascella volitiva, mento e labbro inferiore sporgenti. La trovata delle riforme attese da 70 anni può venire soltanto da lui. Fu proprio 70 anni fa che l’Italia abolì il bicameralismo imperfetto creato da Mussolini: cioè la Camera dei Fasci e delle Corporazioni (membri non eletti, ma nominati dal Gran Consiglio del Fascismo presieduto dal Duce, dal Consiglio nazionale del Partito fascista presieduto dal Duce e dal Consiglio nazionale delle Corporazioni presieduto dal Duce) e il Senato del Regno (membri non eletti, ma nominati a vita dal Re su input del governo). Due Camere di nominati con funzioni diverse, ma relegate a un ruolo ancillare del governo.
Mutatis mutandis, è quello che ci aspetta con la Camera dei nominati (i capilista bloccati dell’Italicum) e il Senato dei nominati (i senatori paracadutati dalle Regioni). Manca solo l’articolo 2 della legge fascistissima 19.1.1939 n. 129: “Il Senato del Regno e la Camera dei Fasci e delle Corporazioni collaborano col governo alla formazione delle leggi”. Ma questo, oggi, è sottinteso.
venerdì 11 settembre 2015
Senatus servandus est
Intorno al Senato elettivo
Riforme, Alessandro Pace:
“Dalla Boschi solo sofismi. Il Senato rimanga elettivo”
Diciamo che Alessandro Pace – professore emerito di Diritto costituzionale a La Sapienza di
Roma– non ha molti dubbi: “L’attuale Parlamento, mentre doveva
approvare le leggi elettorali secondo le indicazioni della Consulta
(sentenza n. 1 del 2014), non avrebbe dovuto porre mano alla revisione
costituzionale”.
Questo governo si comporta come un esecutivo di legislatura e ha tutta l’intenzione di concludere l’iter di riforma. È vero. Ma le Camere elette nel 2013 in forza di una legge elettorale poi dichiarata incostituzionale (perché non garantiva la rappresentatività) non possiedono la legittimità necessaria per modificare la Costituzione. Inoltre dalle battute finali della sentenza numero 1 si evince chiaramente che il “principio di continuità degli organi costituzionali” (che, per la Consulta, era ciò che consentiva alle Camere di continuare a operare) poteva essere invocato solo per un breve periodo di tempo, non per un’intera legislatura, come subito preteso da Renzi. Con la conseguenza (voluta?) di poter condizionare la volontà dei parlamentari “nominati”, mediante il costante “ricatto” del possibile scioglimento delle Camere.
Ormai è cosa fatta. O no?
Vedremo. Tenga però presente che, al momento, abbiamo, quanto alla forma di governo, un testo che solleva forti perplessità, in quanto, anche grazie all’Italicum, persegue un obiettivo ben preciso: eliminare i contropoteri interni ed esterni alla Camera dei deputati al fine di assicurare la governabilità dell’esecutivo, e cioè al partito più votato, e quindi, in palese ulteriore contrasto con la sentenza n. 1. Che a proposito del Porcellum, aveva esplicitamente sottolineato come la governabilità non possa essere garantita a discapito della rappresentatività.
Ma il Senato potrebbe modificare l’articolo 2 del disegno già approvato in seconda lettura a Montecitorio?
Sì. Perché si tratta di una modifica della Costituzione e già nel 1993 la giunta del regolamento della Camera – presieduta da Giorgio Napolitano – ammise degli emendamenti ad articoli già approvati da entrambi i rami del Parlamento, e ciò proprio perché modificavano la Costituzione.
Che ci dice del nuovo Senato che uscirebbe dal testo della riforma?
Il testo attuale è contraddittorio. Pur dovendo rappresentare le istituzioni territoriali, il Senato viene privato del potere di legiferare su materie relative proprio alle autonomie territoriali, di verificare la corretta attuazione delle leggi statali e regionali concernenti le autonomie e di valutare l’impatto che tali autonomie territoriali subirebbero in conseguenza di decisioni del governo concernenti l’Unione europea. Per contro, il Senato conserva sia la funzione legislativa ordinaria, sia la funzione di revisione costituzionale, ancorché non sia elettivo. Il che costituisce un grave errore. L’articolo 1 della nostra Costituzione, proclamando la sovranità popolare “nella forme e nei limiti della Costituzione”, intende infatti garantire, per i due rami del Parlamento (e non solo), il suffragio popolare diretto, come sottolineato dalla Corte nella sentenza numero 1.
Ma quella in discussione è una legge costituzionale che perciò può modificare la Carta. Non è così?
No. Perché la Corte costituzionale, nella famosa sentenza numero 1146 del 1988, ha affermato di poter giudicare la legittimità costituzionale anche delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale quando queste violino “i valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”, tra cui, secondo la Corte, rientra il principio della sovranità popolare. Anche per questa ragione gli emendamenti dell’articolo 2 del disegno di legge dovrebbero ritenersi pienamente ammissibili.
Il ministro Boschi sostiene che se il Senato venisse eletto dal popolo, non gli si potrebbe negare il potere di votare la fiducia al governo, con la conseguenza che verrebbe meno il punto più qualificante della riforma: la spettanza alla sola Camera della titolarità del rapporto fiduciario col governo.
Quello del ministro Boschi è un sofisma. Mentre è l’articolo 1 della Costituzione a imporre che la funzione legislativa debba essere esercitata da rappresentanti del popolo direttamente eletti, il conferimento alla sola Camera della titolarità del rapporto fiduciario costituisce una scelta politica del tutto libera.
Se Palazzo Madama riconfermasse l’elettività del Senato, il testo attuale potrebbe passare?
Nemmeno per sogno. Ho già accennato alla grave carenza di contropoteri che caratterizza il ruolo della Camera dei deputati nel testo finora approvato. Una carenza che dovrebbe in qualche modo essere attenuata: penso alla previsione del potere della minoranza di richiedere l’istituzione delle commissioni parlamentari d’inchiesta e all’introduzione, in Costituzione, di un qualche principio direttivo per i regolamenti parlamentari che, secondo l’attuale testo, dovrebbero garantire i diritti delle minoranze. Quanto al Senato mi limito a osservare che prevedere che il Parlamento sia costituito da un Senato composto da 100 senatori e da una Camera che continuerebbe a essere composta da 630 deputati, implica che il Senato non svolgerebbe alcun ruolo rilevante, nel Parlamento in seduta comune: per le elezioni del presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali e dei componenti laici del Csm. È la cartina di tornasole del ruolo effettivo che svolgerebbe il Senato.
Il bicameralismo non verrebbe superato?
Gaetano Silvestri ha giustamente rilevato che il modello di Senato previsto dal testo attuale non è idoneo “a superare il bicameralismo paritario in direzione di un efficace contrappeso territoriale all’ interno del Parlamento nazionale”, ma configurerebbe un’assemblea politica con minori funzioni, competenze e numero di componenti rispetto alla Camera dei deputati, e quindi con “inferiore legittimazione democratica” ma con tutte le “beghe esistenti nei micro-sistemi politici regionali”. Senza dimenticare gli scandali che coinvolgono la politica locale, che costituirebbero una ragione più che sufficiente contro il Senato eletto dai consigli regionali. Meglio, allora, sarebbe passare decisamente al monocameralismo, a patto però che siano previsti forti contropoteri interni, configurando il Senato come mero organo consultivo privo di poteri legislativi.
Cosa pensa delle ultime dichiarazioni di Giorgio Napolitano, pubblicate ieri da Repubblica?
Rispetto sempre le tesi opposte alle mie, quale che sia l’autorevolezza di chi le abbia sostenute. Mi permetto però un rilievo secondario: Leopoldo Elia – le cui parole sono state correttamente riportate – avrebbe decisamente avversato l’abnorme concentrazione di potere di questa riforma, come già nel 2006 aveva duramente criticato il “premierato assoluto” della riforma Berlusconi.
da Il Fatto Quotidiano del 12 agosto 2015
Questo governo si comporta come un esecutivo di legislatura e ha tutta l’intenzione di concludere l’iter di riforma. È vero. Ma le Camere elette nel 2013 in forza di una legge elettorale poi dichiarata incostituzionale (perché non garantiva la rappresentatività) non possiedono la legittimità necessaria per modificare la Costituzione. Inoltre dalle battute finali della sentenza numero 1 si evince chiaramente che il “principio di continuità degli organi costituzionali” (che, per la Consulta, era ciò che consentiva alle Camere di continuare a operare) poteva essere invocato solo per un breve periodo di tempo, non per un’intera legislatura, come subito preteso da Renzi. Con la conseguenza (voluta?) di poter condizionare la volontà dei parlamentari “nominati”, mediante il costante “ricatto” del possibile scioglimento delle Camere.
Ormai è cosa fatta. O no?
Vedremo. Tenga però presente che, al momento, abbiamo, quanto alla forma di governo, un testo che solleva forti perplessità, in quanto, anche grazie all’Italicum, persegue un obiettivo ben preciso: eliminare i contropoteri interni ed esterni alla Camera dei deputati al fine di assicurare la governabilità dell’esecutivo, e cioè al partito più votato, e quindi, in palese ulteriore contrasto con la sentenza n. 1. Che a proposito del Porcellum, aveva esplicitamente sottolineato come la governabilità non possa essere garantita a discapito della rappresentatività.
Ma il Senato potrebbe modificare l’articolo 2 del disegno già approvato in seconda lettura a Montecitorio?
Sì. Perché si tratta di una modifica della Costituzione e già nel 1993 la giunta del regolamento della Camera – presieduta da Giorgio Napolitano – ammise degli emendamenti ad articoli già approvati da entrambi i rami del Parlamento, e ciò proprio perché modificavano la Costituzione.
Che ci dice del nuovo Senato che uscirebbe dal testo della riforma?
Il testo attuale è contraddittorio. Pur dovendo rappresentare le istituzioni territoriali, il Senato viene privato del potere di legiferare su materie relative proprio alle autonomie territoriali, di verificare la corretta attuazione delle leggi statali e regionali concernenti le autonomie e di valutare l’impatto che tali autonomie territoriali subirebbero in conseguenza di decisioni del governo concernenti l’Unione europea. Per contro, il Senato conserva sia la funzione legislativa ordinaria, sia la funzione di revisione costituzionale, ancorché non sia elettivo. Il che costituisce un grave errore. L’articolo 1 della nostra Costituzione, proclamando la sovranità popolare “nella forme e nei limiti della Costituzione”, intende infatti garantire, per i due rami del Parlamento (e non solo), il suffragio popolare diretto, come sottolineato dalla Corte nella sentenza numero 1.
Ma quella in discussione è una legge costituzionale che perciò può modificare la Carta. Non è così?
No. Perché la Corte costituzionale, nella famosa sentenza numero 1146 del 1988, ha affermato di poter giudicare la legittimità costituzionale anche delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale quando queste violino “i valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”, tra cui, secondo la Corte, rientra il principio della sovranità popolare. Anche per questa ragione gli emendamenti dell’articolo 2 del disegno di legge dovrebbero ritenersi pienamente ammissibili.
Il ministro Boschi sostiene che se il Senato venisse eletto dal popolo, non gli si potrebbe negare il potere di votare la fiducia al governo, con la conseguenza che verrebbe meno il punto più qualificante della riforma: la spettanza alla sola Camera della titolarità del rapporto fiduciario col governo.
Quello del ministro Boschi è un sofisma. Mentre è l’articolo 1 della Costituzione a imporre che la funzione legislativa debba essere esercitata da rappresentanti del popolo direttamente eletti, il conferimento alla sola Camera della titolarità del rapporto fiduciario costituisce una scelta politica del tutto libera.
Se Palazzo Madama riconfermasse l’elettività del Senato, il testo attuale potrebbe passare?
Nemmeno per sogno. Ho già accennato alla grave carenza di contropoteri che caratterizza il ruolo della Camera dei deputati nel testo finora approvato. Una carenza che dovrebbe in qualche modo essere attenuata: penso alla previsione del potere della minoranza di richiedere l’istituzione delle commissioni parlamentari d’inchiesta e all’introduzione, in Costituzione, di un qualche principio direttivo per i regolamenti parlamentari che, secondo l’attuale testo, dovrebbero garantire i diritti delle minoranze. Quanto al Senato mi limito a osservare che prevedere che il Parlamento sia costituito da un Senato composto da 100 senatori e da una Camera che continuerebbe a essere composta da 630 deputati, implica che il Senato non svolgerebbe alcun ruolo rilevante, nel Parlamento in seduta comune: per le elezioni del presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali e dei componenti laici del Csm. È la cartina di tornasole del ruolo effettivo che svolgerebbe il Senato.
Il bicameralismo non verrebbe superato?
Gaetano Silvestri ha giustamente rilevato che il modello di Senato previsto dal testo attuale non è idoneo “a superare il bicameralismo paritario in direzione di un efficace contrappeso territoriale all’ interno del Parlamento nazionale”, ma configurerebbe un’assemblea politica con minori funzioni, competenze e numero di componenti rispetto alla Camera dei deputati, e quindi con “inferiore legittimazione democratica” ma con tutte le “beghe esistenti nei micro-sistemi politici regionali”. Senza dimenticare gli scandali che coinvolgono la politica locale, che costituirebbero una ragione più che sufficiente contro il Senato eletto dai consigli regionali. Meglio, allora, sarebbe passare decisamente al monocameralismo, a patto però che siano previsti forti contropoteri interni, configurando il Senato come mero organo consultivo privo di poteri legislativi.
Cosa pensa delle ultime dichiarazioni di Giorgio Napolitano, pubblicate ieri da Repubblica?
Rispetto sempre le tesi opposte alle mie, quale che sia l’autorevolezza di chi le abbia sostenute. Mi permetto però un rilievo secondario: Leopoldo Elia – le cui parole sono state correttamente riportate – avrebbe decisamente avversato l’abnorme concentrazione di potere di questa riforma, come già nel 2006 aveva duramente criticato il “premierato assoluto” della riforma Berlusconi.
da Il Fatto Quotidiano del 12 agosto 2015
domenica 16 agosto 2015
In difesa del diritto di voto diretto del popolo sovrano
Il vincolo dell’elezione diretta dei Senatori
di Lucio D'Ubaldo | 25 giugno 2014
"... Leopoldo Elia era convinto che occorresse superare il bicameralismo perfetto; ma nondimeno, senza modificare opinione nel tempo, aveva escluso l’ipotesi di una diversa e incongrua selezione dei membri della Camera e del Senato. Con la sua pregevole relazione in Aula a Palazzo Madama, il 16 maggio 1990, aveva fatto osservare come nei lavori della Costituente fosse possibile rinvenire le chiare e insuperabili motivazioni a favore della elezione diretta dei Senatori. Egli, dopo aver illustrato il dibattito che aveva principalmente impegnato comunisti (sostenitori del monocameralismo) e democristiani (sostenitori del bicameralismo) nella Sottocommissione dei 75, evidenziava che alla fine i Commissari avevano “optato decisamente a favore della elezione diretta della seconda a Camera”. Per questo, da politico e da giurista, dichiarava che il processo di riforma implicava lo sforzo di attenersi, anche secondo il richiamo dell’allora Presidente del Senato Giovanni Spadolini, “allo spirito della Costituente e dei suoi lineamenti di fondo”; sicché, concludeva, “alle scelte positive (…) bisogna ovviamente ricondursi. E con tali scelte contrasta ogni riforma che comporti una elezione di secondo grado del Senato”. ... "
"... Con la sua pregevole relazione in Aula a Palazzo Madama, il 16 maggio 1990, aveva fatto osservare come nei lavori della Costituente fosse possibile rinvenire le chiare e insuperabili motivazioni a favore della elezione diretta dei Senatori. Egli, dopo aver illustrato il dibattito che aveva principalmente impegnato comunisti (sostenitori del monocameralismo) e democristiani (sostenitori del bicameralismo) nella Sottocommissione dei 75, evidenziava che alla fine i Commissari avevano “optato decisamente a favore della elezione diretta della seconda a Camera”. Per questo, da politico e da giurista, dichiarava che il processo di riforma implicava lo sforzo di attenersi, anche secondo il richiamo dell’allora Presidente del Senato Giovanni Spadolini, “allo spirito della Costituente e dei suoi lineamenti di fondo”; sicché, concludeva, “alle scelte positive (…) bisogna ovviamente ricondursi. E con tali scelte contrasta ogni riforma che comporti una elezione di secondo grado del Senato”.
In sostanza il giudizio di Elia faceva argine alle peripezie di quanti non avvertivano il rischio di vulnerare, su questo punto assai delicato, l’impostazione originaria dei Padri costituenti. Sono passati ventiquattro anni e le peripezie sono diventate progetto di riforma. Ora si tratta di capire cosa sia cambiato, nel corso della seconda repubblica e all’inizio dell’esperienza renziana, per giustificare in via pratica la derubricazione di una meditata e armonica riflessione sul bicameralismo. Così, evidentemente, si finisce per cedere a impulsi di tipo giacobino con il pretesto, in verità troppo facile, della semplificazione del procedimento legislativo. È il modo, questo, per deturpare il volto di un nuovo bicameralismo. ..."
sabato 25 luglio 2015
Crisi europea
Luciano Gallino
2015 Giugno
Nome della Fonte: listatsipras.eu
URL della Fonte (link): http://condividi.listatsipras.eu/blog/item/3029-luciano-gallino-contributo-alla-discussione-per-affrontare-la-crisi.html
Cambiare governo per affrontare la crisi
A otto anni
di distanza dall’inizio della crisi economica in USA e in Europa, e a
sei della sua fittizia trasformazione, per mano delle istituzioni e dei
governi UE, da crisi del sistema finanziario privato a crisi del debito
pubblico, l’Italia si ritrova con un governo che da un lato è allineato
con le posizioni più regressive della Troika (la quale forma di fatto
una quadriglia con Berlino); dall’altro non ha evidentemente la minima
idea circa le cause reali della crisi, e meno che mai delle strade da
provare o da costruire per uscirne.
Il
gioco dei numeretti che i suoi ministri fanno circa la ripresa o
l’occupazione, con la risonanza che vi danno quasi tutti i media, senza
che questi tradiscano mai da parte loro un’ombra di spirito critico,
appare penoso. In realtà la situazione del paese è drammatica, e
l’inanità dilettantesca del governo non fa che peggiorarla. L’Italia ha
bisogno urgente – diciamo, realisticamente, entro il 2016 – di un altro
governo che abbia compreso le cause strutturali della crisi quale si
presenta in Italia, nel quadro della crisi europea, e possegga per conto
suo e sappia mobilitare nel paese le competenze per superarle. E’ una
missione impossibile, è vero, ma è meglio immaginare l’impossibile che
darsi alla disperazione.
La crisi ha tre facce. Proverò a delineare i loro tratti principali.
La crisi ha tre facce. Proverò a delineare i loro tratti principali.
La crisi della UE e dell’euro.
La UE è stata fondata sulla base di una serie di gravi errori.
Sbagliarono gli intellettuali e i politici che per primi concepirono
l’unione come un sorta di abbraccio tra popoli che secondo loro avevano
più cose in comune che differenze, a partire da una presunta “identità” o
“cultura europea”, nonché dal comune orrore per le due “guerre civili”
intervenute nel continente in poco più di trent’anni. Sbagliarono gli
economisti nel credere e far credere che le grandi differenze di
struttura industriale, produttività, composizione delle forze di lavoro,
relazioni sindacali, ricerca e sviluppo, scambi con l’estero ecc.
esistenti tra i vari stati membri sarebbero state colmate verso l’alto
grazie ai benefici effetti di una moneta unica, l’euro. Infine
sbagliarono i capi di stato e di governo nel credere che l’Unione, in
quanto fondata sul principio “uno stato (piccolo o grande che fosse)
uguale un voto”, sarebbe servita a contenere il predominio economico e
politico della Germania.Beninteso, non ci furono soltanto errori. In generale, a porre le basi del trattato di Maastricht sin dai primi anni del secondo dopoguerra fu il potere economico-finanziario europeo, tramite fior di associazioni neoliberali che rappresentavano e tuttora ne rappresentano la voce e il braccio politico. Tra di esse: la Società Mont Pelérin, la Trilaterale, la Bildeberg, la Tavola Rotonda degli Industriali, la Adam Smith Society, alle quali si è aggiunto più tardi il Forum Mondiale di Davos. Istituzioni internazionali come la Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), insediata a Parigi nel 1961, si sono impegnate senza tregua sin dall’inizio per far sì che il Trattato UE contenesse le più incisive norme possibili a favore della liberalizzazione dei movimenti di capitale. La componente monetaria dell’Unione, fondamentale per il suo funzionamento, è stata dettata sin nei particolari dalla Germania. Nei suoi colloqui con il presidente francese Mitterrand, il cancelliere Kohl fu irremovibile nel pretendere che l’euro fosse il più possibile simile al marco; che la BCE fosse dichiarata per statuto indipendente dai governi, una clausola mai vista negli statuti delle banche centrali di tutto il mondo: tant’è vero che essa si è presto rivelata essere un organo prettamente politico, che invia lettere durissime agli stati membri, Italia compresa, affinchè taglino sanità, pensioni e salari; che la BCE stessa avesse sede in una città tedesca (Francoforte). Su queste basi l’euro è stato giustamente definito il più efficace strumento mai inventato per tenere bassi i salari, demolire lo stato sociale e liquidare il diritto del lavoro.
A meno di venticinque anni dalla sua fondazione e meno di quindici dall’introduzione dell’euro, la UE sta andando verso il disastro. Tra il 2008 e il 2010 i governi UE hanno speso o impegnato 4.500 miliardi di euro per salvare le banche, ma non sono riusciti a trovarne 300 per salvare la Grecia, la cui uscita incontrollata dall’euro potrebbe far implodere l’intera UE. Gli squilibri tra gli stati membri sono aumentati anziché diminuire. Ad onta della normativa UE che impone di limitare l’eccedenza export-import, la Germania continua ad avere eccedenze dell’ordine di 160-170 miliardi l’anno, uno squilibrio che potrebbe contribuire al fallimento dell’Unione. La disoccupazione colpisce 25 milioni di persone. Le persone a rischio povertà sono oltre 100 milioni. In vari paesi – Grecia, Italia, Spagna – la inoccupazione giovanile oscilla tra il 40 e il 50 per cento, un tasso mai visto da quando essa viene censita. Le politiche di austerità imposte dai governi per conto delle istituzioni UE, nel mentre si sono rivelate fallimentari, hanno colpito con durezza i sistemi di protezione sociale e l’istruzione; bloccata pericolosamente la manutenzione delle infrastrutture di base (ponti, dighe, strade, trasporti locali, viadotti, corsi d’acqua: per risanarli ci vorranno migliaia di miliardi); spinto nella povertà altre masse di persone, anche in Germania che proprio dell’impoverimento dei vicini aveva fatto il perno della sua politica economica. Non basta: le politiche di austerità, secondo molti giuristi, hanno violato decine di articoli di tutte le leggi riguardanti i diritti umani e i crimini contro l’umanità, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 ad oggi: leggi, si noti bene, che i trattati UE hanno a suo tempo fatto proprie. La popolazione reagisce a quanto avviene in due modi: non andando a votare nella misura del 60 per cento per l’unico organo UE democraticamente eletto, il Parlamento europeo, con punte dell’80 per cento nei nuovi stati membri (dati 2014); e dando invece un largo e crescente consenso alle formazioni di estrema destra, in Francia, Italia, Polonia, Ungheria, ecc. Il che farebbe pensare che gli elettori non abbiano memoria del pericolo che esse rappresentano per la democrazia – se non fosse che nella UE la democrazia è stata già da tempo svuotata di senso dalla oligarchia politico-finanziaria di Bruxelles e dintorni.
Data la situazione attuale della UE, se non si fa nulla per affrontarla il futuro propone soltanto due scenari, al momento ugualmente probabili:
a) la UE crolla all’improvviso e in malo modo a causa di un incidente che trascina con sé tutta la barcollante struttura dell’Unione: ad esempio, un paese è costretto a uscire dall’euro perché a causa del suo bilancio pubblico strangolato dalle politiche di austerità non riesce a pagare i suoi creditori privati. I quali sono tanto stupidi da non rendersi conto che è sempre meglio un debitore che paga poco, in ritardo e a rate, di un debitore che non può pagare niente perché è stato imprigionato a causa del suo debito. (Lo scrittore Daniel Defoe, ch’era stato imprigionato per debito nel 1692, verso il 1705 riuscì a convincere con un suo scritto il governo inglese a introdurre una riforma che permetteva al debitore di continuare a lavorare e produrre reddito, in modo da poter rimborsare almeno in parte i suoi creditori piuttosto che marcire inoperoso in prigione. Al confronto, la Troika è in ritardo di tre secoli. Oppure potrebbe accadere che una grande banca europea fallisca, trascinandone altre con sé. Dall’inizio della crisi alcune delle maggiori banche europee, a cominciare dalla britannica HSBC, hanno pagato in complesso decine di miliardi di dollari a causa di varie penalità che hanno accettato di pagare alle autorità americane ed europee per non arrivare a un processo relativo a innumeri violazioni delle leggi finanziarie che esse hanno compiuto in mezzo mondo. Ma è possibile che a un certo punto un processo arrivi, e le sue conseguenze siano tali che la banca interessata fallisce perché né il suo governo né le istituzioni europee dispongono più dei mezzi per salvarla, da cui un effetto domino che travolge sia la UE che l’euro.
b) Il secondo scenario prevede che la UE e l’euro sopravvivano alla meglio per altri venti o trent’anni, cucendo rappezzo su rappezzo istituzionale per far fronte ai sempre più diffusi segni di malcontento di nove decimi della popolazione, impoverita e tartassata dal lavoro che manca, dalla distruzione dei sistemi di protezione sociale, dai continui diktat oligarchici della Commissione Europea e delle BCE che esautorano totalmente i governi nazionali senza dare nulla in cambio. Intanto il decimo al vertice della stratificazione sociale continua ad arricchirsi a spese degli altri nove: dopotutto, è per esso che i trattati UE sono stati confezionati.
Nel caso invece
che qualcosa si volesse fare, una soluzione potrebbe esserci. La UE
convoca una Conferenza sul Sistema Monetario Europeo, il cui punto
principale all’ordine del giorno dovrebbe essere la soppressione consensuale dell’euro,
ed il ritorno alle monete nazionali con parità iniziale di 1 rispetto
all’euro. Altri punti dovrebbero riguardare la preparazione tecnica
della transizione e una estesa campagna di informazione pubblica
prolungata per mesi. Si potrebbe anche prevedere che l’uscita dall’euro
sia decisa paese per paese, di modo che se qualche stato membro lo
volesse fare ne avrebbe facoltà, mentre altri potrebbero tenersi l’euro.
E’ innegabile che anche la soppressione consensuale dell’euro presenta dei rischi. Com’è vero che in ogni caso essi sarebbero inferiori a quelli che oggi corre la UE sia per i suoi difetti strutturali, sia per la possibilità che l’uscita improvvisa di un paese – si tratti della Grexit, della Brexit (sebbene la Gran Bretagna non abbia l’euro) o altro – rechi seri danni agli altri. Ma di certo i rischi sarebbero accentuati dai paesi – in primo luogo la Germania – che dall’euro hanno tratto i maggiori vantaggi. Una variante che ridurrebbe i rischi potrebbe consistere nel mantenere in vita l’euro, mentre ogni stato emette e fa circolare sul proprio territorio una moneta fiscale parallela. Da moneta unica l’euro diventerebbe così una moneta comune. Il predicato “fiscale” significa qui che il valore della nuova moneta sarebbe assicurato dal fatto che essa verrebbe accettata per il pagamento delle imposte – il maggior riconoscimento che una moneta possa ottenere dallo stato – e sarebbe comunque garantita dalle entrate fiscali. Si noti che progetti di una moneta parallela all’euro che ogni stato emette per conto proprio sono assai numerosi in Francia, nel Regno Unito, e soprattutto in Germania.
La richiesta di una Conferenza sull’Unione Monetaria dovrebbe essere presentata alla UE da alcuni paesi di primo piano, con il sottinteso che un rifiuto netto potrebbe indurre ognuno di essi o all’uscita dall’euro o al disconoscimento di numerose norme UE che violano i diritti umani o addirittura si configurano come foriere di crimini contro l’umanità. Non mancano nella UE i giuristi in grado di predisporre la documentazione necessaria. Al presente, i soli paesi disponibili a tal fine sono forse la Grecia, ammesso che “al presente” essa sia ancora nell’euro o il governo Tsipras non sia stato strangolato dalla Troika; e la Spagna, nel caso di una vittoria di Podemos alle elezioni dell’autunno 2015. Da parte del governo italiano in carica un atto simile è inimmaginabile, essendo il medesimo del tutto allineato sui rovinosi dogmi di Bruxelles. Per questo è necessario sostituirlo al più presto con un governo orientato diversamente, e dotato di competenze post-neoliberali di cui nel governo attuale non v’è la minima traccia.
E’ innegabile che anche la soppressione consensuale dell’euro presenta dei rischi. Com’è vero che in ogni caso essi sarebbero inferiori a quelli che oggi corre la UE sia per i suoi difetti strutturali, sia per la possibilità che l’uscita improvvisa di un paese – si tratti della Grexit, della Brexit (sebbene la Gran Bretagna non abbia l’euro) o altro – rechi seri danni agli altri. Ma di certo i rischi sarebbero accentuati dai paesi – in primo luogo la Germania – che dall’euro hanno tratto i maggiori vantaggi. Una variante che ridurrebbe i rischi potrebbe consistere nel mantenere in vita l’euro, mentre ogni stato emette e fa circolare sul proprio territorio una moneta fiscale parallela. Da moneta unica l’euro diventerebbe così una moneta comune. Il predicato “fiscale” significa qui che il valore della nuova moneta sarebbe assicurato dal fatto che essa verrebbe accettata per il pagamento delle imposte – il maggior riconoscimento che una moneta possa ottenere dallo stato – e sarebbe comunque garantita dalle entrate fiscali. Si noti che progetti di una moneta parallela all’euro che ogni stato emette per conto proprio sono assai numerosi in Francia, nel Regno Unito, e soprattutto in Germania.
La richiesta di una Conferenza sull’Unione Monetaria dovrebbe essere presentata alla UE da alcuni paesi di primo piano, con il sottinteso che un rifiuto netto potrebbe indurre ognuno di essi o all’uscita dall’euro o al disconoscimento di numerose norme UE che violano i diritti umani o addirittura si configurano come foriere di crimini contro l’umanità. Non mancano nella UE i giuristi in grado di predisporre la documentazione necessaria. Al presente, i soli paesi disponibili a tal fine sono forse la Grecia, ammesso che “al presente” essa sia ancora nell’euro o il governo Tsipras non sia stato strangolato dalla Troika; e la Spagna, nel caso di una vittoria di Podemos alle elezioni dell’autunno 2015. Da parte del governo italiano in carica un atto simile è inimmaginabile, essendo il medesimo del tutto allineato sui rovinosi dogmi di Bruxelles. Per questo è necessario sostituirlo al più presto con un governo orientato diversamente, e dotato di competenze post-neoliberali di cui nel governo attuale non v’è la minima traccia.
La crisi economica ed occupazionale.
Nei paesi più sviluppati del mondo, USA e UE, che da soli producono
circa la metà del Pil globale, l’economia capitalistica ha imboccato da
tempo un periodo di stagnazione che secondo molti esperti potrebbe
durare anche cinquant’anni. In Usa, nel decennio degli anni 50 i
trimestri in cui il Pil reale cresceva di almeno il 6 per cento l’anno
sono stati 40. Negli anni 70 erano scesi a 25. Nei ’90, a meno di dieci.
Infine nel periodo 2000-2013 sono stati in tutto tre. Sebbene sia
difficile fare una stima aggregata del Pil dei paesi oggi membri della
UE, visto che in settant’anni hanno avuto storie politiche ed economiche
diverse, si stima che l’andamento del Pil nella UE sia stato
all’incirca il medesimo. Al presente, un altro indicatore di stagnazione
è il forte e prolungato rallentamento degli investimenti nell’economia
reale. Essi rendono poco rispetto alle attività speculative svolte nel
sistema finanziario, il quale peraltro all’economia reale non reca alcun
beneficio (al punto che in realtà non ha nessun senso chiamarli
“investimenti”). Risultato numero uno: si stima che circa il 70 dei
capitali circolanti sia destinato alle seconde. Il capitalismo ha posto
così le premesse per una sorta di suicidio al rallentatore. Mediante l’automazione ha ridotto drasticamente il numero dei produttori nell’economia reale (servizi compresi). Con
la forsennata compressione dei salari reali, (in aggiunta alla
riduzione dei produttori) ha ridotto il potere d’acquisto dei
consumatori. Per investire l’impresa capitalistica deve poter
stimare quanti sono quelli a cui venderà i suoi beni o servizi, e più o
meno per quanto tempo. Nei nostri paesi si è messa in condizione di non
poterlo più fare.
La riduzione degli investimenti è anche dovuta al fatto che da decenni il capitalismo non inventa più nulla che possa diventare un consumo di massa. Al contrario di quanto asseriscono gli economisti neoclassici, il capitalismo non vive affatto di una continua innovazione endogena. Ha bisogno di robusti e ripetuti stimoli esterni. Negli anni 50 e 60 li hanno forniti, nei nostri paesi, i consumi di massa di auto, elettrodomestici, televisori. La diffusione in atto dei cellulari, dei tablets, dei PC – tutti fabbricati in Asia – non ha avuto né potrà mai avere effetti paragonabili sulla crescita e sull’occupazione di un paese europeo. Inoltre tanto la produzione quanto il consumo dei beni e dei servizi proprosti dall’attuale modello produttivo si fondano su energie tratte da risorse fossili, mentre gli scienziati del mondo intero avvertono che l’inversione dell’attacco all’ambiente, che presuppone una drastica riduzione di tali fonti energetiche, dovrebbe avvenire ormai entro breve tempo se si vuole evitare una catastrofe. In sintesi: l’idea di una ripresa paragonabile al passato – la famosa luce in fondo al tunnel – è una illusione priva di fondamento. E se mai dovesse verificarsi, sarebbe ancora peggio, perché avvicinerebbe il momento di un disastro ambientale irreversibile.
Non basta. Il termine “automazione” si riferisce da cinquant’anni alla sostituzione di lavoro fisico da parte di macchine. Ma la microinformatica ha anche enormemente esteso sia le capacità delle macchine operatrici, sia le capacità dei computer di svolgere attività intellettuali che fino a pochi anni fa si sosteneva non fossero automatizzabili. Risultato numero tre: in Usa si stima che il 47 per cento degli attuali posti di lavoro, finora occupati da esseri umani a causa del loro contenuto intellettuale e professionale medio-alto, possano venire svolte entro pochi anni da una qualche combinazione di macchine, computer e programmi intelligenti. In altre parole potrebbero scomparire più di 60 milioni di posti di lavoro. Un processo analogo di sostituzione di esseri umani da parte dei computer è in corso anche in Europa. Una politica che non si occupi primariamente di questo problema, come avviene nella UE e in modo ancor più marcato in Italia, non soltanto è da buttare per la sua inefficienza; è una minaccia per milioni di cittadini.
Da quanto precede se ne trae che l’Italia dovrebbe progettare al più presto un piano pluriennale di transizione a un diverso modello produttivo, che abbia come caratteristiche principali l’essere fondato su progetti o settori ad alta intensità di lavoro; elevata qualificazione; tecnologie avanzate; consumi ridotti di energie fossili; elevata utilità pubblica; massima attenzione ai beni comuni. Esso dovrebbe inoltre prevedere il passaggio regolato di milioni di lavoratori dai settori in declino ai nuovi settori. Non è il caso per ora di inoltrarsi in un elenco di questi ultimi: si rimanda alla ragguardevole letteratura esistente sulla trasformaziome industrial-ecologica dell’economia. Qui basti dire che il riassetto idrogeologico dell’intero territorio, il miglioramento del rendimento energetico delle abitazioni, gli interventi anti-sismici nelle zone più a rischio, la tutela dei beni culturali assorbirebbero da soli milioni di posti di lavoro. La complessità e l’ampiezza di un simile piano renderebbe necessario l’impiego delle migliori competenze tecniche ed economiche, pubbliche e private, di cui il paese disponga. E soltanto un governo totalmente rinnovato quanto a cultura politica e competenze professionali sarebbe capace di guidarne la realizzazione. Inutile aggiungere che un simile piano deve poter inziare entro pochi mesi, per essere via via sviluppato e rettificato.
La riduzione degli investimenti è anche dovuta al fatto che da decenni il capitalismo non inventa più nulla che possa diventare un consumo di massa. Al contrario di quanto asseriscono gli economisti neoclassici, il capitalismo non vive affatto di una continua innovazione endogena. Ha bisogno di robusti e ripetuti stimoli esterni. Negli anni 50 e 60 li hanno forniti, nei nostri paesi, i consumi di massa di auto, elettrodomestici, televisori. La diffusione in atto dei cellulari, dei tablets, dei PC – tutti fabbricati in Asia – non ha avuto né potrà mai avere effetti paragonabili sulla crescita e sull’occupazione di un paese europeo. Inoltre tanto la produzione quanto il consumo dei beni e dei servizi proprosti dall’attuale modello produttivo si fondano su energie tratte da risorse fossili, mentre gli scienziati del mondo intero avvertono che l’inversione dell’attacco all’ambiente, che presuppone una drastica riduzione di tali fonti energetiche, dovrebbe avvenire ormai entro breve tempo se si vuole evitare una catastrofe. In sintesi: l’idea di una ripresa paragonabile al passato – la famosa luce in fondo al tunnel – è una illusione priva di fondamento. E se mai dovesse verificarsi, sarebbe ancora peggio, perché avvicinerebbe il momento di un disastro ambientale irreversibile.
Non basta. Il termine “automazione” si riferisce da cinquant’anni alla sostituzione di lavoro fisico da parte di macchine. Ma la microinformatica ha anche enormemente esteso sia le capacità delle macchine operatrici, sia le capacità dei computer di svolgere attività intellettuali che fino a pochi anni fa si sosteneva non fossero automatizzabili. Risultato numero tre: in Usa si stima che il 47 per cento degli attuali posti di lavoro, finora occupati da esseri umani a causa del loro contenuto intellettuale e professionale medio-alto, possano venire svolte entro pochi anni da una qualche combinazione di macchine, computer e programmi intelligenti. In altre parole potrebbero scomparire più di 60 milioni di posti di lavoro. Un processo analogo di sostituzione di esseri umani da parte dei computer è in corso anche in Europa. Una politica che non si occupi primariamente di questo problema, come avviene nella UE e in modo ancor più marcato in Italia, non soltanto è da buttare per la sua inefficienza; è una minaccia per milioni di cittadini.
Da quanto precede se ne trae che l’Italia dovrebbe progettare al più presto un piano pluriennale di transizione a un diverso modello produttivo, che abbia come caratteristiche principali l’essere fondato su progetti o settori ad alta intensità di lavoro; elevata qualificazione; tecnologie avanzate; consumi ridotti di energie fossili; elevata utilità pubblica; massima attenzione ai beni comuni. Esso dovrebbe inoltre prevedere il passaggio regolato di milioni di lavoratori dai settori in declino ai nuovi settori. Non è il caso per ora di inoltrarsi in un elenco di questi ultimi: si rimanda alla ragguardevole letteratura esistente sulla trasformaziome industrial-ecologica dell’economia. Qui basti dire che il riassetto idrogeologico dell’intero territorio, il miglioramento del rendimento energetico delle abitazioni, gli interventi anti-sismici nelle zone più a rischio, la tutela dei beni culturali assorbirebbero da soli milioni di posti di lavoro. La complessità e l’ampiezza di un simile piano renderebbe necessario l’impiego delle migliori competenze tecniche ed economiche, pubbliche e private, di cui il paese disponga. E soltanto un governo totalmente rinnovato quanto a cultura politica e competenze professionali sarebbe capace di guidarne la realizzazione. Inutile aggiungere che un simile piano deve poter inziare entro pochi mesi, per essere via via sviluppato e rettificato.
Il caso italiano.
Una delle cause strutturali per cui la crisi europea ha colpito
l’Italia più di altri paesi sono le sue antiche carenze quanto a
istruzione e ricerca e sviluppo (R&S). In vista di una transizione a
un diverso modello produttivo e occupazionale sarebbe essenziale
aumentare in misura considerevole la spesa pubblica per la scuola
secondaria e l’università. Con il 22 per cento dei diplomati contro una
media del 36 per l’intera UE l’Italia occupa l’ultimo posto in tale
classifica. E’ una percentuale scandalosamente bassa; e ancora più
scandaloso è il fatto che dinanzi all’obbiettivo proposto dalla
Commissione Europea di raggiungere il 40 per cento entro il 2020 come
media UE, uno dei nostri recenti governi abbia risposto chel’Italia
punta nientemeno che al 27 per cento. Dati analoghi valgono per i
laureati. L’obiezione per cui diplomare o laureare un maggior numero di
giovani non serve allo sviluppo, o è addirittura un danno, perché tanto
non trovano lavoro, è priva di senso. I giovani non trovano lavoro
perché non esistono politiche economiche capaci di creare nuovo lavoro
nel momento in cui il lavoro tradizionale scompare.
Anche in tema di R&S siamo messi male. Tra i 32 paesi Ocse l’Italia occupa il penultimo posto quanto a spesa in R&S, con un misero 1,25 per cento tra pubblico e privato. Le statistiche delle richieste di brevetto depositate presso l’Ufficio Brevetti europeo, che vedono l’Italia in coda ai maggiori paesi UE sia quanto a numero sia quanto a contenuto tecnologico, riflettono tale povertà di spesa. Come minimo occorrerebbe raddoppiare quest’ultima nel più breve tempo possibile.
Anche in tema di R&S siamo messi male. Tra i 32 paesi Ocse l’Italia occupa il penultimo posto quanto a spesa in R&S, con un misero 1,25 per cento tra pubblico e privato. Le statistiche delle richieste di brevetto depositate presso l’Ufficio Brevetti europeo, che vedono l’Italia in coda ai maggiori paesi UE sia quanto a numero sia quanto a contenuto tecnologico, riflettono tale povertà di spesa. Come minimo occorrerebbe raddoppiare quest’ultima nel più breve tempo possibile.
Di
fronte ai problemi sopra richiamati, alla pericolosità della crisi UE,
ed alla addizionale gravità di quella italiana, il governo Renzi non
esiste. Non che, per ora, le opposizioni offrano gran che di meglio.
Moltiplicare invettive contro il dominio della finanza, oggi ben
rappresentato dall’euro, non serve: anche il Mein Kampf ne era pieno
(dieci anni dopo, non a caso, il suo autore giunto al potere impiegò
poche settimane per accordarsi con la grande finanza). Il dominio
bisogna prima seriamente studiarlo, per poi smontarlo pezzo per pezzo
con strumenti politici e legislativi appropriati. Né serve a molto
inveire contro la casta. Una volta stabilito che si tratta di una intera
classe politica che ha fatto da decenni il suo tempo, nonché di buona
parte della classe imprenditoriale, si tratta di sostituirla con una
classe avente una concezione del mondo diversa e opposta, che sappia
amministrare il paese e ogni sua parte in nome dei diritti al lavoro e
del lavoro; dell’uguaglianza (in una economia dove gli amministratori
delegati guadagnino magari 50 volte i loro dipendenti e facciano bene il
loro mestiere invece di guadagnare 500 volte e farlo male); dei beni
comuni da sottrarre alle privatizzazioni; di una economia che non
distrugga l’ambiente nel quale dovrebbero vivere e prosperare i nostri
discendenti.
Allo scopo di far emergere dal paese, che da più di un segno appare in grado di farlo, una nuova classe dirigente all’altezza del compito, occorrono i voti. Per moltiplicare i voti necessari occorre che il maggior numero possibile di elettori comprenda qual è l’enormità della posta in gioco, in Italia come nella UE, e la relativa urgenza. E se è vero che l’opinione politica si forma per la massima parte sotto l’irradiazione dei media, è di lì che bisogna partire. Supponendo che la traccia proposta sopra sia qualcosa di assimilabile a uno schema di programma politico a largo raggio, bisognerebbe quindi avviare una campagna di comunicazione estesa, incessante, capillare, volta a mostrare che la rappresentazione che il governo e i media fanno di quanto avviene è una deformazione della realtà, e poco importa se non è intenzionale. Insistendo su pochi punti essenziali, siano essi quelli qui indicati o altri – purchè siano pochi e di peso analogo. Lo scopo è semplice: ottenere che alle elezioni del 2016 parecchi milioni di cittadini votino per una società migliore di quella verso cui stiamo rotolando, a causa dei nostri governi passati e presenti, non meno che della deriva programmata della UE verso una oligarchia ottusa quanto brutale.
Allo scopo di far emergere dal paese, che da più di un segno appare in grado di farlo, una nuova classe dirigente all’altezza del compito, occorrono i voti. Per moltiplicare i voti necessari occorre che il maggior numero possibile di elettori comprenda qual è l’enormità della posta in gioco, in Italia come nella UE, e la relativa urgenza. E se è vero che l’opinione politica si forma per la massima parte sotto l’irradiazione dei media, è di lì che bisogna partire. Supponendo che la traccia proposta sopra sia qualcosa di assimilabile a uno schema di programma politico a largo raggio, bisognerebbe quindi avviare una campagna di comunicazione estesa, incessante, capillare, volta a mostrare che la rappresentazione che il governo e i media fanno di quanto avviene è una deformazione della realtà, e poco importa se non è intenzionale. Insistendo su pochi punti essenziali, siano essi quelli qui indicati o altri – purchè siano pochi e di peso analogo. Lo scopo è semplice: ottenere che alle elezioni del 2016 parecchi milioni di cittadini votino per una società migliore di quella verso cui stiamo rotolando, a causa dei nostri governi passati e presenti, non meno che della deriva programmata della UE verso una oligarchia ottusa quanto brutale.
domenica 12 luglio 2015
La Germania in due libri
La politica tedesca letta attraverso due libri
www.sbilanciamoci.info.
11/07/2015
Gli sviluppi recenti del gigante europeo nel
volume del politologi britannico Hans Kundnani e in quello del deputato
Ue Jean Luc Mélenchon
Negli ultimi tempi abbiamo segnalato, in diversi
articoli pubblicati in questo stesso sito, una decina di studi sulla
Germania. E le librerie di tutta Europa si vanno riempiendo di ulteriori
volumi sul soggetto, tanto la necessità di capire il paese sembra farsi
pressante, in relazione al progressivo aumento del suo peso nei destini
del nostro continente. Ora i recenti avvenimenti greci acuiscono ancora
il desiderio di capire.
Oggi vogliamo aggiungere all’elenco due studi, uno francese e, per la prima volta, anche un testo scritto da uno studioso inglese. L’autore del primo libro è un ben noto politico della sinistra radicale transalpina, Jean Luc Mélenchon (Mélenchon, 2015); egli è stato ministro dal 2000 al 2002, è oggi deputato europeo, cofondatore nel 2008 del partito della sinistra; alle presidenziali del 2012 ha preso l’11% dei voti. Nel secondo caso si tratta invece di un politologo britannico, Hans Kundnani (Kundnani, 2014). Egli è direttore della ricerca presso il Consiglio Europeo per le Relazioni Estere, collabora con l’Università di Birmingham, scrive infine su alcuni noti giornali britannici. Il suo libro sta per essere pubblicato anche da noi.
Due caratteristiche che accumunano i volumi è da una parte il loro approccio fortemente politico, dall’altra le conclusioni sostanzialmente molto negative con cui essi guardano agli sviluppi recenti del paese. Ma molte cose li distinguono.
Il testo di Kundnani
Il libro di Kundnami, che sta suscitando un ampio dibattito nel mondo anglosassone e nella stessa Germania, è in sostanza una rassegna di 150 anni di politica economica tedesca, con l’attenzione comunque focalizzata sulle attuali strategie del paese.
Molti studiosi pensano che la Germania, dopo la catastrofe del 1945, abbia decisamente imboccato una strada totalmente nuova, abbracciando decisamente la democrazia e i valori occidentali, sposando in pieno il progetto europeo e contemporaneamente perseguendo una politica di stretta alleanza con gli Stati Uniti. Per tali studiosi “la questione tedesca”, lo spettro che si era aggirato per l’Europa così a lungo dopo la creazione dell’impero tedesco nel 1871 e la guerra franco-prussiana, è ormai stata seppellita.
Ma H. Kundnani non è dello stesso parere. Dopo la guerra, afferma l’autore, all’inizio la questione tedesca sembrava accantonata per la debolezza stessa del paese. La sua politica era vincolata dal suo passato nazista e dalla guerra fredda, fattori che spingevano al rispetto di tre principi di base, “mai di nuovo”, “mai da soli”, “la politica prima della forza”.
Ma la riunificazione e l’affermazione della piena sovranità del paese dopo la fine della guerra fredda hanno presto portato, per l’autore, a una riconsiderazione dell’identità nazionale e ad una rivisitazione delle opzioni politiche.
Così Kundnani pensa che almeno dal 1999 in poi, a partire dalla costituzione del governo rosso-verde di Schroeder, il paese abbia di nuovo cominciato a sviluppare delle preoccupanti tendenze nazionalistiche. D’altro canto, egli valuta anche che la Germania sta anche progressivamente allentando i legami con i paesi occidentali e con gli Stati Uniti.
Essa ha sempre più presente in particolare quanto le sue fortune economiche dipendano da una parte dell’importazione del gas russo, dall’altra dalle sue esportazioni verso la Cina, paese in particolare verso cui le attenzioni si fanno sempre più rilevanti.
I suoi atteggiamenti egoistici in materia economica hanno portato ad un nuovo e duro atteggiamento verso l’Europa, atteggiamento che minaccia ora di distruggere l’eurozona e l’intero progetto europeo. I politici tedeschi, ossessionati dalla questione del potere e della prosperità economica, sono in effetti concentrati in una visione di breve termine e non si curano del disastro verso il quale stanno portando il loro paese, l’Europa e forse l’intero occidente. In altri termini, la Germania è oggi un paese sempre più potente, ma nello stesso tempo esso appare incapace di guidare l’Europa; così, dopo la crisi, la situazione che emerge nel nostro continente non è tanto quella di un’egemonia tedesca, ma di caos. Il paese è diventato di nuovo come in passato una potente fonte di instabilità.
Sin qui l’analisi di Kundnani.
Le questioni trattate dall’autore appaiono certamente cruciali e a chi scrive le tesi esposte appaiono nella sostanza condivisibili. In particolare, l’ipotesi che le attuali politiche tedesche portino al possibile disastro nel nostro continente appare largamente accettabile e testimoniata da tanti recenti episodi. Il problema cruciale ci sembra quello che per portare avanti il progetto di un’unione politica ed economica europea ci vorrebbe una forte capacità di spinta e di guida che oggi solo la Germania potrebbe fornire; ma tale paese non è oggi in grado di farlo e quando peraltro riesce ad imporre le sue tesi esse vanno nella direzione sbagliata.
Su di un altro fronte, ci sembra invece non pienamente condivisibile la critica al fatto che il paese voglia sviluppare quanto più possibile gli affari, oltre che con la Russia, con la Cina. In realtà ci stanno provando quasi tutti, solo che la Germania ci riesce meglio per una certa complementarietà esistente tra le due economie. Che da questo possa poi nascere un allentamento dei legami con l’occidente è ipotesi forse plausibile, ma certamente soggetta a qualche dubbio; comunque il problema se lo deve essere posto anche Obama se, come sembra, egli ha portato avanti la questione Ucraina anche per tentare di bloccare a una nuova politica verso l’est del paese teutonico.
Un libro comunque da leggere.
Il libro di Mélenchon
Quanto il testo di Kundnani appare rigoroso e approfondito, tanto quello di Mélenchon è invece sostanzialmente sommario ed affrettato, quasi fosse stato preparato per qualche occasionale scadenza politica interna. In sintesi il volumetto si configura come un pamphlet violentemente antitedesco; esso appare condizionato dal vecchio demone antigermanico così presente ancora oggi in Francia. Le sue tesi sono anche presentate con un tono molto aspro.
Le riassumiamo sommariamente.
L’autore afferma nell’introduzione di essersi deciso a scrivere il libro dopo aver visto come la nomenclatura tedesca abbia trattato il nuovo governo greco e il popolo a nome del quale esso parla.
Mélenchon mette subito l’accento sull’affermazione che oltre Reno è nato un mostro, sottolineando l’idea che la Germania è diventata un pericolo per i suoi vicini e i suoi partner. Essa manifesta, per il politico transalpino, una crescente arroganza ed essa cerca di imporre il suo modello soltanto a suo profitto. Una nuove e crudele stagione della storia comincia in Europa, continente tedesco. L’imperialismo tedesco è di ritorno. L’abito europeo è la sua nuova uniforme, l’ordoliberismo il suo credo.
Il testo affronta molti temi specifici, da quelli economici a quelli sociali, a quelli politici. Così, sul fronte sociale il libro ricorda come il 20% dei lavoratori tedeschi siano oggi poveri, come 7 milioni di persone guadagnino meno di 450 euro al mese, come ormai ci siano ormai nel paese due volte di più contratti precari che in Francia. Al netto dell’inflazione un salariato medio guadagnava nel 2013 meno che nel 1999.
L’autore sottolinea anche come il made in Germany oggi sia in gran parte dovuto ai lavoratori polacchi, cechi, ungheresi, slovacchi, con i loro paesi praticamente annessi alla Germania in un ruolo ampiamente subordinato. I piromani tedeschi hanno in effetti per Mélenchon guidato a loro vantaggio la spinta militare dell’occidente verso est, a partire dal Kossovo e dalla Serbia, per trarne poi ampi vantaggi economici.
Oggi quindi per l’autore cambiare il nostro modello sociale e cambiare la Germania sono diventati una sola cosa. Nella conclusione del testo Mélenchon, dopo aver distinto nettamente, con toni quasi razzisti, i due mondi che si collocano rispettivamente di qua e di la del Reno, incita la Francia a rompere l’accerchiamento dell’ordoliberismo, ad avviare un confronto franco e duro con la Germania e a cercare di avviare un progetto alternativo, mettendosi alla testa di una rifondazione dell’Europa dei popoli.
Alla fine, il libro di Melenchon ci sembra troppo affrettato, caratterizzato da un tono molto dogmatico, basato su dati molto parziali, fatto più di slogan che di analisi approfondite, anche se alcune della sue conclusioni, ma certamente non tutte, appaiono condivisibili.
Testi citati nell’articolo
-Kundnani H., The paradox of german power, Hurst, Londra, 2015
-Mélenchon J.-L., Le hareng de Bismark (le poison allemand), Plon, Parigi, 2015
La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info.
Oggi vogliamo aggiungere all’elenco due studi, uno francese e, per la prima volta, anche un testo scritto da uno studioso inglese. L’autore del primo libro è un ben noto politico della sinistra radicale transalpina, Jean Luc Mélenchon (Mélenchon, 2015); egli è stato ministro dal 2000 al 2002, è oggi deputato europeo, cofondatore nel 2008 del partito della sinistra; alle presidenziali del 2012 ha preso l’11% dei voti. Nel secondo caso si tratta invece di un politologo britannico, Hans Kundnani (Kundnani, 2014). Egli è direttore della ricerca presso il Consiglio Europeo per le Relazioni Estere, collabora con l’Università di Birmingham, scrive infine su alcuni noti giornali britannici. Il suo libro sta per essere pubblicato anche da noi.
Due caratteristiche che accumunano i volumi è da una parte il loro approccio fortemente politico, dall’altra le conclusioni sostanzialmente molto negative con cui essi guardano agli sviluppi recenti del paese. Ma molte cose li distinguono.
Il testo di Kundnani
Il libro di Kundnami, che sta suscitando un ampio dibattito nel mondo anglosassone e nella stessa Germania, è in sostanza una rassegna di 150 anni di politica economica tedesca, con l’attenzione comunque focalizzata sulle attuali strategie del paese.
Molti studiosi pensano che la Germania, dopo la catastrofe del 1945, abbia decisamente imboccato una strada totalmente nuova, abbracciando decisamente la democrazia e i valori occidentali, sposando in pieno il progetto europeo e contemporaneamente perseguendo una politica di stretta alleanza con gli Stati Uniti. Per tali studiosi “la questione tedesca”, lo spettro che si era aggirato per l’Europa così a lungo dopo la creazione dell’impero tedesco nel 1871 e la guerra franco-prussiana, è ormai stata seppellita.
Ma H. Kundnani non è dello stesso parere. Dopo la guerra, afferma l’autore, all’inizio la questione tedesca sembrava accantonata per la debolezza stessa del paese. La sua politica era vincolata dal suo passato nazista e dalla guerra fredda, fattori che spingevano al rispetto di tre principi di base, “mai di nuovo”, “mai da soli”, “la politica prima della forza”.
Ma la riunificazione e l’affermazione della piena sovranità del paese dopo la fine della guerra fredda hanno presto portato, per l’autore, a una riconsiderazione dell’identità nazionale e ad una rivisitazione delle opzioni politiche.
Così Kundnani pensa che almeno dal 1999 in poi, a partire dalla costituzione del governo rosso-verde di Schroeder, il paese abbia di nuovo cominciato a sviluppare delle preoccupanti tendenze nazionalistiche. D’altro canto, egli valuta anche che la Germania sta anche progressivamente allentando i legami con i paesi occidentali e con gli Stati Uniti.
Essa ha sempre più presente in particolare quanto le sue fortune economiche dipendano da una parte dell’importazione del gas russo, dall’altra dalle sue esportazioni verso la Cina, paese in particolare verso cui le attenzioni si fanno sempre più rilevanti.
I suoi atteggiamenti egoistici in materia economica hanno portato ad un nuovo e duro atteggiamento verso l’Europa, atteggiamento che minaccia ora di distruggere l’eurozona e l’intero progetto europeo. I politici tedeschi, ossessionati dalla questione del potere e della prosperità economica, sono in effetti concentrati in una visione di breve termine e non si curano del disastro verso il quale stanno portando il loro paese, l’Europa e forse l’intero occidente. In altri termini, la Germania è oggi un paese sempre più potente, ma nello stesso tempo esso appare incapace di guidare l’Europa; così, dopo la crisi, la situazione che emerge nel nostro continente non è tanto quella di un’egemonia tedesca, ma di caos. Il paese è diventato di nuovo come in passato una potente fonte di instabilità.
Sin qui l’analisi di Kundnani.
Le questioni trattate dall’autore appaiono certamente cruciali e a chi scrive le tesi esposte appaiono nella sostanza condivisibili. In particolare, l’ipotesi che le attuali politiche tedesche portino al possibile disastro nel nostro continente appare largamente accettabile e testimoniata da tanti recenti episodi. Il problema cruciale ci sembra quello che per portare avanti il progetto di un’unione politica ed economica europea ci vorrebbe una forte capacità di spinta e di guida che oggi solo la Germania potrebbe fornire; ma tale paese non è oggi in grado di farlo e quando peraltro riesce ad imporre le sue tesi esse vanno nella direzione sbagliata.
Su di un altro fronte, ci sembra invece non pienamente condivisibile la critica al fatto che il paese voglia sviluppare quanto più possibile gli affari, oltre che con la Russia, con la Cina. In realtà ci stanno provando quasi tutti, solo che la Germania ci riesce meglio per una certa complementarietà esistente tra le due economie. Che da questo possa poi nascere un allentamento dei legami con l’occidente è ipotesi forse plausibile, ma certamente soggetta a qualche dubbio; comunque il problema se lo deve essere posto anche Obama se, come sembra, egli ha portato avanti la questione Ucraina anche per tentare di bloccare a una nuova politica verso l’est del paese teutonico.
Un libro comunque da leggere.
Il libro di Mélenchon
Quanto il testo di Kundnani appare rigoroso e approfondito, tanto quello di Mélenchon è invece sostanzialmente sommario ed affrettato, quasi fosse stato preparato per qualche occasionale scadenza politica interna. In sintesi il volumetto si configura come un pamphlet violentemente antitedesco; esso appare condizionato dal vecchio demone antigermanico così presente ancora oggi in Francia. Le sue tesi sono anche presentate con un tono molto aspro.
Le riassumiamo sommariamente.
L’autore afferma nell’introduzione di essersi deciso a scrivere il libro dopo aver visto come la nomenclatura tedesca abbia trattato il nuovo governo greco e il popolo a nome del quale esso parla.
Mélenchon mette subito l’accento sull’affermazione che oltre Reno è nato un mostro, sottolineando l’idea che la Germania è diventata un pericolo per i suoi vicini e i suoi partner. Essa manifesta, per il politico transalpino, una crescente arroganza ed essa cerca di imporre il suo modello soltanto a suo profitto. Una nuove e crudele stagione della storia comincia in Europa, continente tedesco. L’imperialismo tedesco è di ritorno. L’abito europeo è la sua nuova uniforme, l’ordoliberismo il suo credo.
Il testo affronta molti temi specifici, da quelli economici a quelli sociali, a quelli politici. Così, sul fronte sociale il libro ricorda come il 20% dei lavoratori tedeschi siano oggi poveri, come 7 milioni di persone guadagnino meno di 450 euro al mese, come ormai ci siano ormai nel paese due volte di più contratti precari che in Francia. Al netto dell’inflazione un salariato medio guadagnava nel 2013 meno che nel 1999.
L’autore sottolinea anche come il made in Germany oggi sia in gran parte dovuto ai lavoratori polacchi, cechi, ungheresi, slovacchi, con i loro paesi praticamente annessi alla Germania in un ruolo ampiamente subordinato. I piromani tedeschi hanno in effetti per Mélenchon guidato a loro vantaggio la spinta militare dell’occidente verso est, a partire dal Kossovo e dalla Serbia, per trarne poi ampi vantaggi economici.
Oggi quindi per l’autore cambiare il nostro modello sociale e cambiare la Germania sono diventati una sola cosa. Nella conclusione del testo Mélenchon, dopo aver distinto nettamente, con toni quasi razzisti, i due mondi che si collocano rispettivamente di qua e di la del Reno, incita la Francia a rompere l’accerchiamento dell’ordoliberismo, ad avviare un confronto franco e duro con la Germania e a cercare di avviare un progetto alternativo, mettendosi alla testa di una rifondazione dell’Europa dei popoli.
Alla fine, il libro di Melenchon ci sembra troppo affrettato, caratterizzato da un tono molto dogmatico, basato su dati molto parziali, fatto più di slogan che di analisi approfondite, anche se alcune della sue conclusioni, ma certamente non tutte, appaiono condivisibili.
Testi citati nell’articolo
-Kundnani H., The paradox of german power, Hurst, Londra, 2015
-Mélenchon J.-L., Le hareng de Bismark (le poison allemand), Plon, Parigi, 2015
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui
giovedì 2 luglio 2015
Referendum in Grecia
Perché il referendum 'eccezionale' di Tsipras ha impresso una svolta nelle trattative
di Nadia Urbinati 01 Luglio 2015
8
«Il desiderio del governo greco, espresso fin dall'inizio, è stato
quello di alterare la politica di austerità, non di rinnegare l'Europa.
Forse questo desiderio era utopistico ma non illegittimo; forse ha
fallito nell'efficacia, ma la visione non era sbagliata». Huffington post, 30 giugno 2015
Ogni referendum ha una storia sua propria. Quello greco è politico nei
suoi fondamenti ed eccezionale. Non nasce dalla volontà del governo di
Atene di scaricare la responsabilità di una decisione ardua sui suoi
cittadini. Nasce da un coacervo di circostanze che hanno creato
un'oggettiva situazione di stallo nella trattativa tra il governo greco, i partner europei e i rappresentanti del FMI volta
ad approntare un iter realistico verso il ripiano del debito che non
uccida i debitori o non li renda così impotenti da annullare la loro
capacità di darsi una vita dignitosa. Si tratta di un referendum in
ultima istanza; per superare la situazione di stallo o uscire dal
binario morto nel quale le parti di questa lunga trattativa si sono
cacciate.
Per un governo rappresentativo si tratta di una decisione determinante, una di quelle gravide di conseguenze non rivedibili per questa generazione e quelle a venire. La consultazione dei diretti interessati sul Memorandum politico dell'austerità è per questo legittima. Ma è anche ragionevole in vista proprio della continuazione della trattativa. Segno di un governo che rischia e ha il senso della gravità del momento. Del resto, nonostante sia identificato come un governo di sinistra radicale, la maggioranza dei greci che lo hanno votato, ha scritto Stathis Gourgouris, non é composta di persone ideologiche, ma di cittadini stanchi delle impotenze dei governi precedenti, della mancanza di coraggio delle leadership tradizionali. Il voto a Syriza ha espresso una richiesta di coraggio, di mutamento di percorso. E la sua classe politica giovane e nuova ha anche per questo avuto il sostegno di persone politicamente distanti.
Un fatto va sottolineato, e che non appare nei resoconti catastrofisti di questi giorni: Syriza ha pensato che per uscire dallo stallo della trattativa a Bruxelles solo l'appello al popolo poteva rimettere in moto le cose. Gli scienziati politici hanno in varie occasioni messo in evidenza come la scelta radicale, per esempio il ricorso diretto alla voce del popolo, ha precisamente la funzione di imprimere una svolta che dia nuovo vigore e immaginazione alle forze in campo. Non è il referendum che le erode, del resto.
L'erosione deriva semmai dal far trascinare la trattativa troppo a lungo perché questo rischia di generare una crescente incomprensione nei partner in quanto mette in moto emozioni ostruttive, come la diffidenza e perfino il disprezzo personale tra i contraenti. Le trattative faccia-a-faccia sono cruciali quando vi é la volontà di risolvere il contenzioso in modo che tutti abbiano covenienza. Ma la lunghezza dei tempi gioca contro perché apre lo spazio alla guerra psicologia, che mira non a trovare una soluzione equa o non a somma zero, ma ad annientare l'avversario.
In questo senso, il referendum puó avere la funzione di stemperare gli umori psicologici spostando il problema sul terreno della procedura e dell'aspettativa assolutamente impersonale, quale é l'esito di un voto segreto. Sappiamo del resto che in molti casi, forme di democrazia diretta hanno il merito di stabilizzare le relazioni pubbliche perché orientano chi deve subire le conseguenza di una decisione all'accettazione delle scelte, anche le più ostiche (il caso esemplare é quello della Svizzera, che si é consolidata con i referendum). A giudicare dai movimenti della diplomazia mai interrotta a Bruxelles, è probabile che il referendum greco abbia il merito di rianimare la scena e mettere in campo proposte nuove e intenzioni meno macchinose e fatali. Sia che Syriza perda o vinca, il referendum potrà forse stabilizzare anziché destabilizzare le relazioni tra Grecia e Europa, poiché il popolo greco si fa direttamente responsabile.
Sarebbe desiderabile valutare positivamente l'onestà e il coraggio di questo governo, virtù determinanti in una fase di grande difficoltà come l'attuale. Virtù politiche che hanno il potere di tenere insieme una situazione difficilissima e aprire vie d'uscita.
Il desiderio del governo greco, espresso fin dall'inizio, è stato quello di alterare la politica di austerità, non di rinnegare l'Europa. Forse questo desiderio era utopistico ma non illegittimo; forse ha fallito nell'efficacia, ma la visione non era sbagliata come ha commentato Paul Krugman. Il referendum é a ben guardare il gesto di una politica europeista non anti-europeista. Solleva direttamente una questione che vale per tutti gli europei: che Europa é questa che tratta il debito secondo una logica contrattualistica privata e non sa comprendere la legittimità democratica che un popolo ha di tentare strade meno dolorose e ingiuste? Su quali basi e con quale logica la dirigenza europea pensa di poter evadere una richiesta democratica di mutare rotta per avviare una diversa strategia di risoluzione del debito che faccia perno sulla crescita e non sui tagli?
Il referendum greco ha posto un problema all'Europa, un problema che deve essere risolto in e con l'Europa: quello di un modo diverso di affrontare le politiche del debito - cioé come politiche di risanamento e di crescita, non di punizione. Così è stato in Europa dopo la distruzione lasciata dalla guerra, così dovrebbe essere oggi dopo la distruzione lasciata da questa crisi economica. E la scossa del referendum, nella sua tragicità può aiutare a intraprendere questo percorso.
Per un governo rappresentativo si tratta di una decisione determinante, una di quelle gravide di conseguenze non rivedibili per questa generazione e quelle a venire. La consultazione dei diretti interessati sul Memorandum politico dell'austerità è per questo legittima. Ma è anche ragionevole in vista proprio della continuazione della trattativa. Segno di un governo che rischia e ha il senso della gravità del momento. Del resto, nonostante sia identificato come un governo di sinistra radicale, la maggioranza dei greci che lo hanno votato, ha scritto Stathis Gourgouris, non é composta di persone ideologiche, ma di cittadini stanchi delle impotenze dei governi precedenti, della mancanza di coraggio delle leadership tradizionali. Il voto a Syriza ha espresso una richiesta di coraggio, di mutamento di percorso. E la sua classe politica giovane e nuova ha anche per questo avuto il sostegno di persone politicamente distanti.
Un fatto va sottolineato, e che non appare nei resoconti catastrofisti di questi giorni: Syriza ha pensato che per uscire dallo stallo della trattativa a Bruxelles solo l'appello al popolo poteva rimettere in moto le cose. Gli scienziati politici hanno in varie occasioni messo in evidenza come la scelta radicale, per esempio il ricorso diretto alla voce del popolo, ha precisamente la funzione di imprimere una svolta che dia nuovo vigore e immaginazione alle forze in campo. Non è il referendum che le erode, del resto.
L'erosione deriva semmai dal far trascinare la trattativa troppo a lungo perché questo rischia di generare una crescente incomprensione nei partner in quanto mette in moto emozioni ostruttive, come la diffidenza e perfino il disprezzo personale tra i contraenti. Le trattative faccia-a-faccia sono cruciali quando vi é la volontà di risolvere il contenzioso in modo che tutti abbiano covenienza. Ma la lunghezza dei tempi gioca contro perché apre lo spazio alla guerra psicologia, che mira non a trovare una soluzione equa o non a somma zero, ma ad annientare l'avversario.
In questo senso, il referendum puó avere la funzione di stemperare gli umori psicologici spostando il problema sul terreno della procedura e dell'aspettativa assolutamente impersonale, quale é l'esito di un voto segreto. Sappiamo del resto che in molti casi, forme di democrazia diretta hanno il merito di stabilizzare le relazioni pubbliche perché orientano chi deve subire le conseguenza di una decisione all'accettazione delle scelte, anche le più ostiche (il caso esemplare é quello della Svizzera, che si é consolidata con i referendum). A giudicare dai movimenti della diplomazia mai interrotta a Bruxelles, è probabile che il referendum greco abbia il merito di rianimare la scena e mettere in campo proposte nuove e intenzioni meno macchinose e fatali. Sia che Syriza perda o vinca, il referendum potrà forse stabilizzare anziché destabilizzare le relazioni tra Grecia e Europa, poiché il popolo greco si fa direttamente responsabile.
Sarebbe desiderabile valutare positivamente l'onestà e il coraggio di questo governo, virtù determinanti in una fase di grande difficoltà come l'attuale. Virtù politiche che hanno il potere di tenere insieme una situazione difficilissima e aprire vie d'uscita.
Il desiderio del governo greco, espresso fin dall'inizio, è stato quello di alterare la politica di austerità, non di rinnegare l'Europa. Forse questo desiderio era utopistico ma non illegittimo; forse ha fallito nell'efficacia, ma la visione non era sbagliata come ha commentato Paul Krugman. Il referendum é a ben guardare il gesto di una politica europeista non anti-europeista. Solleva direttamente una questione che vale per tutti gli europei: che Europa é questa che tratta il debito secondo una logica contrattualistica privata e non sa comprendere la legittimità democratica che un popolo ha di tentare strade meno dolorose e ingiuste? Su quali basi e con quale logica la dirigenza europea pensa di poter evadere una richiesta democratica di mutare rotta per avviare una diversa strategia di risoluzione del debito che faccia perno sulla crescita e non sui tagli?
Il referendum greco ha posto un problema all'Europa, un problema che deve essere risolto in e con l'Europa: quello di un modo diverso di affrontare le politiche del debito - cioé come politiche di risanamento e di crescita, non di punizione. Così è stato in Europa dopo la distruzione lasciata dalla guerra, così dovrebbe essere oggi dopo la distruzione lasciata da questa crisi economica. E la scossa del referendum, nella sua tragicità può aiutare a intraprendere questo percorso.
Del resto la democrazia è un governo del rischio e della crisi. Da
onorare sia quando la fortuna arride sia in tempi duri che richiedono un
surplus di saggezza e di coraggio. Nel linguaggio di Aristotele, ai cui
scritti la scienza e la pratica politica europee sono debitrici, la
democrazia é modo politico di vivere insieme nel quale tutti hanno un
egual condivisione di potere. Senza di che ci sono relazioni di dominio;
senza di che non c'è posto per alcuna trattativa, ma solo per la
non-scelta del prendere o lasciare.
lunedì 29 giugno 2015
EUROPA 1
29 GIUGNO 2015 - TSIPRAS REFERENDUM PER IL POPOLO GRECO SULLE PROPOSTE DELLA TROJKA
i Roberto Brunelli, da Repubblica, 29 giugno 2015
29 GIUGNO 2015 - TSIPRAS REFERENDUM PER IL POPOLO GRECO SULLE PROPOSTE DELLA TROJKA
Piketty: “Europa in agonia sono i conservatori ad averla devastata”
i Roberto Brunelli, da Repubblica, 29 giugno 2015
L’Europa
sta per essere distrutta. Ma non dai greci e dall’ostinazione di
Tsipras e Varoufakis, ma dai “conservatori” del Vecchio Continente, in
particolare quelli tedeschi. E’ un Thomas Piketty furente a dire la sua,
in un’intervista alla Zeit che il settimanale tedesco pubblica non a
caso con grandissimo rilievo. Perché è un j’accuse — quello
dell’economista divenuto una star internazionale con il suo “Il capitale
del XXI secolo” — che cade come un meteorite in fiamme sulla cronaca
greca di questi giorni.
“I conservatori stanno ad un passo dal
devastare definitivamente l’idea europea, e lo fanno per colpa di uno
spaventoso deficit di memoria storica. In particolare per quello che
riguarda i debiti. Proprio la Germania di oggi dovrebbe capire il
significato di quello che sta accadendo: dopo la guerra Gran Bretagna,
Germania e Francia soffrirono di una situazione debitoria peggiore di
quella della Grecia di oggi. La prima lezione che dovremmo trarne è che
ci sono molti modi per saldare dei debiti: e non uno solo, come Berlino
vorrebbe far intendere ai greci”.
Sul banco degli imputati, non è
difficile immaginarlo, soprattutto Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble.
“Quando sento i tedeschi dire che sono mossi solo dall’etica e che sono
fermamente convinti che i debiti debbano essere pagati, penso: ma questa
è una barzelletta! La Germania è esattamente il paese che non ha mai
onorato i suoi debiti, né dopo la prima né dopo la seconda guerra
mondiale”. Niente a che vedere con “l’accezione comune di ordine e
giustizia: perché se la Germania nel secondo dopoguerra realizzò il
boom, fu proprio grazie del fatto che i suoi debiti furono abbattuti,
cosa che oggi neghiamo con ferocia ai greci”.
Quello che propone
Piketty è chiaro: una grande conferenza europea sul tema dei debiti.
Qualcosa di paragonabile, come dimensione strategica, al Piano Marshall.
Ma niente del genere è all’orizzonte, anzi. “La verità è che una
ristrutturazione dei debiti è inevitabile in molti paesi europei, non
soltanto in Grecia. E invece abbiamo appena perso inutilmente sei mesi
di tempo a causa di trattative tutt’altro che trasparenti con Atene”.
Non
solo. A Schaeuble, che sostiene che una eventuale Grexit addirittura
favorirebbe una rinnovata compattazione europea, Piketty risponde con
uno scenario opposto: se non cambia passo, l’Unione europea affronterà
una crisi di fiducia ancora più grave. “Sarà l’inizio di una lenta
agonia, nella quale sacrificheremo all’altare di una politica debitoria
irrazionale il modello sociale europeo, persino in termini di democrazia
e civilizzazione”. L’ultimo pensiero, e non poteva essere altrimenti, è
per la cancellera tedesca Angela Merkel: “Se vuole assicurarsi un posto
nella storia, come Kohl con la riunificazione tedesca, deve avere il
coraggio di un nuovo inizio. Chi invece oggi insiste nel voler cacciare
la Grecia dall’eurozona finirà nella pattumiera della storia”.
(29 giugno 2015)
martedì 23 giugno 2015
“Basta con le banche il destino dell’Unione lo scelgano i popoli”
di Jürgen Habermas 23 Giugno 2015
«Il filosofo tedesco: i politici non possono nascondersi dietro le
lacune dovute a chiare incapacità istituzionali». Ancora una voce dal
mondo della saggezza a favore delle ragioni di Alexis Tsipras. La Repubblica, 23 giugno 2015
La recente sentenza della Corte di Giustizia europea getta una luce impietosa su un errore di fondo della costruzione europea: quello di aver costituito un’unione monetaria senza un’unione politica. Tutti i cittadini dovrebbero essere grati a Mario Draghi, che nell’estate 2012 scongiurò con un’unica frase le conseguenze disastrose dell’incombente collasso della valuta europea. Aveva tolto la patata bollente dalle mani dell’Eurogruppo annunciando la disponibilità all’acquisto di titoli di stato senza limiti quantitativi in caso di necessità: un salto in avanti cui l’aveva costretto l’inerzia dei capi di governo, paralizzati dallo shock e incapaci di agire nell’interesse comune dell’Europa, aggrappati com’erano ai loro interessi nazionali. I mercati finanziari reagirono positivamente a quell’unica frase, benché il capo della Bce avesse simulato una sovranità fiscale che non possedeva, dato che oggi come ieri, sono le banche centrali degli Stati membri a dover garantire i crediti in ultima istanza.
GLI SPAZI DELLA BCE
Di fatto, la Corte di Giustizia europea non poteva confermare questa competenza, in contraddizione col testo dei Trattati europei; ma dalla sua decisione consegue la possibilità per la Banca centrale europea di disporre – tranne poche limitazioni - dei margini di manovra di un erogatore di crediti di ultima istanza. La Corte di Giustizia ha dunque ratificato quell’azione di salvataggio, benché non del tutto conforme alla Costituzione. Verrebbe voglia di dire che il diritto europeo dev’essere in qualche modo piegato, anche se non proprio forzato, dai suoi stessi custodi, per appianare di volta in volta le conseguenze negative del difetto strutturale dell’unione monetaria. L’unione monetaria resterà instabile finché non sarà integrata da un’unione bancaria, economica e fiscale. In altri termini, se non vogliamo che la democrazia sia palesemente ridotta a puro elemento decorativo, dobbiamo arrivare ad un’unione politica.
Fin dal maggio 2010 la cancelliera tedesca ha anteposto gli interessi degli investitori al risanamento dell’economia greca. Il risultato è che siamo di nuovo nel mezzo di una crisi che pone in luce, in tutta la sua nuda realtà, un altro deficit istituzionale. L’esito elettorale greco è quello di una nazione la cui netta maggioranza insorge contro l’opprimente e avvilente miseria sociale imposta al paese dall’austerità. In quel voto non c’è nulla da interpretare: la popolazione rifiuta la prosecuzione di una politica di cui subisce il fallimento sulla propria pelle. Sorretto da questa legittimazione democratica, il governo greco sta tentando di ottenere un cambio di politica nell’Eurozona; ma a Bruxelles si scontra coi rappresentanti di altri 18 paesi che giustificano il loro rifiuto adducendo con freddezza il proprio mandato democratico.
Il velo su questo deficit istituzionale non è ancora del tutto strappato. Le elezioni greche hanno gettato sabbia negli ingranaggi di Bruxelles, dato che in questo caso gli stessi cittadini hanno deciso su un’alternativa di politica europea subita dolorosamente sulla propria pelle. Altrove i rappresentanti dei governi prendono le decisioni in separata sede, a livelli tecnocratici, al riparo dell’opinione pubblica, tenuta a bada con inquietanti diversivi. Le trattative per la ricerca di un compromesso a Bruxelles sono in stallo, soprattutto perché da entrambi i lati si tende a incolpare gli interlocutori del mancato esito nei negoziati, piuttosto che imputarlo ai difetti strutturali delle istituzioni e delle procedure. Certo, nel caso di specie siamo di fronte all’attaccamento cieco ostinato a una politica di austerità giudicata negativamente dalla maggior parte degli studiosi a livello internazionale. Ma il conflitto di fondo è un altro: mentre una delle parti chiede un cambiamento di rotta, quella contrapposta rifiuta ostinatamente persino l’apertura di una trattativa a livello politico: ed è qui che si rivela una più profonda asimmetria.
SCELTE SCANDALOSE
Occorre avere ben chiaro il carattere scandaloso di un tale rifiuto: se il compromesso fallisce, non è per qualche miliardo in più o in meno, e neppure per la mancata accettazione di una qualche condizione, ma unicamente per via della richiesta greca di dare la possibilità di un nuovo inizio all’economia della Grecia, e alla sua popolazione sfruttata dalle élite corrotte, attraverso un taglio del debito o una misura analoga, quale ad esempio una moratoria collegata alla crescita. I creditori insistono invece sul riconoscimento di una montagna di debiti che l’economia greca non riuscirà mai a smaltire. Si noti che presto o tardi un taglio del debito sarà inevitabile. Eppure, contro ogni buon senso, i creditori non cessano di esigere il riconoscimento formale di un onere debitorio realmente insostenibile. Fino a poco tempo fa ribadivano anzi una pretesa surreale: quella di un avanzo primario superiore al 4%, ridotto poi a un 1% comunque non realistico. Così è fallito finora ogni tentativo di arrivare un accordo da cui dipende il futuro dell’Ue, soltanto in nome della pretesa dei creditori di mantenere in piedi una finzione.
Per parte mia, non sono in grado di giudicare se i procedimenti tattici del governo greco siano fondati su una strategia ragionata, o in qualche misura determinati da condizionamenti politici, incompetenza o inesperienza dei suoi esponenti. Ma le carenze del governo greco non tolgono nulla allo scandalo dell’atteggiamento dei politici di Bruxelles e Berlino, che rifiutano di incontrare i loro colleghi di Atene in quanto politici. Anche se si presentano come tali, sono presi in considerazione esclusivamente sul piano economico, nel loro ruolo di creditori. Questa trasformazione in zombie ha il significato di conferire alle annose insolvenze di uno Stato la parvenza di una questione di diritto privato, da deferire a un tribunale. In tal modo risulta anche più facile negare qualsiasi responsabilità politica.
L’ADDIO DELLA TROIKA
La nostra stampa ironizza sul cambio di nome della troika, che effettivamente assomiglia a un’operazione di magia. Ma è anche espressione del desiderio legittimo di far uscire allo scoperto, dietro la maschera dei finanziatori, il volto dei politici. Perché è solo in quanto tali che i responsabili possono essere chiamati a rispondere di un fallimento che porta alla distruzione di massa delle opportunità di vita, alla disoccupazione, alle malattie, alla miseria sociale, alla disperazione.
Per le sue opinabili misure di salvataggio Angela Merkel ha coinvolto fin dall’inizio l’Fmi. Questa dissoluzione della politica nel conformismo di mercato spiega tra l’altro l’arroganza con cui i rappresentanti del governo federale tedesco – persone moralmente ineccepibili, senza eccezione alcuna - rifiutano di ammettere la propria corresponsabilità politica per le devastanti conseguenze sociali che pure hanno messo in conto nell’attuazione del programma neoliberista. Lo scandalo nello scandalo è l’ingenerosità con cui il governo tedesco interpreta il proprio ruolo di guida.
IL RUOLO TEDESCO
La Germania deve lo slancio della sua ascesa economica, di cui si alimenta tuttora, alla saggezza delle nazioni creditrici, che nell’accordo di Londra del 1954 le condonarono la metà circa dei suoi debiti.Ma non si tratta qui di scrupoli moralistici, bensì di un punto politico essenziale: le élite della politica europea non possono più nascondersi ai loro elettori, eludendo le decisioni da prendere a fronte dei problemi creati dalle lacune politiche dell’unità monetaria. Devono essere i cittadini, e non i banchieri, a dire l’ultima parola sulle questioni essenziali per il destino dell’Europa. E davanti all’intorpidimento post-democratico di un’opinione pubblica tenuta ove possibile lontano dai conflitti, ovviamente anche la stampa dovrà fare la sua parte. I giornalisti non possono continuare a inseguire come un gregge quegli arieti della classe politici che già li avevano ridotti a fare da giardinieri.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
Etichette:
banche,
europa,
Habermas,
unione europea
giovedì 4 giugno 2015
http://www.eddyburg.it/2015/06/il-giocattolo-si-e-rotto.htmlhttp://www.eddyburg.it/2015/06/il-giocattolo-si-e-rotto.html
mercoledì 27 maggio 2015
Mar 2015
16.43
Perché uno dovrebbe leggere Dante?
Qualche tempo fa ho scritto questo saggio e l’ho pubblicato su
una rivista accademica che si chiama Nuova rivista di letteratura
italiana. Ma dato che la Commedia a scuola finiscono per
leggerla (a pezzettini) quasi tutti, forse la domanda a cui tentavo di
rispondere è di quelle che possono interessare anche un pubblico più
largo – un pubblico di studenti, soprattutto (era agli studenti di
scuola che pensavo, quando l’ho scritto: è molto lungo per la rete,
45.000 caratteri, tanti da scoraggiare molti lettori, ma è abbastanza
semplice, direi, e non richiede tante, come si dice, pre-cognizioni).
Così provo a ripubblicarlo qui, con qualche taglio e semplificazione.
S’intende che la risposta è del tutto personale, non ha niente di
scientifico (la scienza non c’entra molto, in queste cose): ma ho
cercato di argomentarla (e, lo dico per invogliare alla lettura, alla
perseveranza, ho anche cercato di citare alcuni dei versi più belli
della Commedia,versi forse non tanto noti).
Prima di dire quali sono le ragioni per cui ha ancora senso leggere, oggi, la Commedia, diamo un’occhiata alle ragioni che sembrerebbero suggerire la conclusione opposta, e cioè che la Commedia
ha fatto il suo tempo ed è ormai – se appena riusciamo a liberarci da
tutta la retorica che abbiamo assorbito a scuola – una lettura per
eruditi alla stregua, poniamo, dell’illeggibile Roman de la Rose o di tanti altri vecchi libri che fingiamo di amare perché ci hanno detto che è indispensabile amarli.
I.
Prima ragione che può scoraggiare la lettura. La Commedia è in versi, è un racconto in versi: e noi oggi tendiamo a pensare che i versi vadano bene per la poesia lirica (che del resto leggiamo sempre meno) o per le canzoni ma certamente non per i racconti lunghi. Per i racconti lunghi c’è la prosa. Esistono anche poeti contemporanei che hanno provato a raccontare una storia in versi, centinaia o migliaia di versi, ma sono eccezioni, e quasi mai eccezioni felici. Ci sono poche idee sulla letteratura più veritiere di quella di Poe secondo cui le poesie dovrebbero essere abbastanza brevi da stare su una sola pagina, così da poter essere lette tutte in una volta, senza interruzioni: a distanza di un secolo e mezzo questo è ancora il nostro punto di vista, e tutto lascia credere che le cose non cambieranno, che nessun brillante futuro attende il genere “poema”. Insomma, la Commedia è scritta in un modo artificiale, e questo artificio – anzi, questa somma di artifici: non soltanto il verso ma anche la rima, la disposizione “innaturale” delle parole, e insomma tutto ciò che rende poesia la poesia – è ormai irrimediabilmente lontano dalle nostre abitudini e dai nostri gusti.
II.
Seconda ragione. La Commedia è stata scritta sette secoli fa. Com’è cambiata la vita da allora! E soprattutto: com’è cambiata la vita in quest’ultimo secolo! Non è forse vero che tra il mondo di Dante e quello dei nostri bisavoli o trisavoli, all’inizio del Novecento, c’è meno differenza di quanta ce ne sia tra questo mondo di “appena ieri” e il nostro mondo, oggi? Non hanno forse, la scienza e la tecnica, trasformato così radicalmente il paesaggio da rendere quasi imparagonabili questi orizzonti d’esperienza?
Molte delle cose che Dante descrive non sono più le cose che noi abbiamo davanti agli occhi. L’idea dell’esistenza che aveva non è più la nostra. Dante ha vissuto in un mondo i cui confini coincidevano praticamente con quelli dell’Europa centro-meridionale, un mondo nel quale le forze politiche più importanti erano l’impero tedesco e il papato. Al centro del cosmo stava, per lui, il pianeta Terra, con gli altri pianeti e col sole a girarle intorno. Non c’è cosa che sia rimasta intatta, da allora. E non si tratta soltanto dei massimi sistemi, ma anche della quotidiana esperienza della vita. Quando leggiamo i primi versi della Commedia, “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura”, dobbiamo fare un grosso sforzo per immaginare la paura che poteva avere un viandante che, nell’anno 1300, si fosse perduto in una di quelle foreste che cominciavano appena fuori dalle mura delle città e che erano davvero aspre, selvagge, e popolate da animali feroci. Molti dei lettori odierni della Commedia hanno a malapena visto un bosco, e lo hanno visto di giorno, camminando lungo un sentiero segnato. Smarrirsi ha, per loro, un significato molto diverso, molto meno sinistro, di quello che poteva avere per un lettore del tempo di Dante (ma mi è capitato di leggere questi versi dell’Inferno in Islanda, un pomeriggio d’inverno, col buio e il freddo fuori, e il deserto di lava a qualche centinaio di metri dal campus dell’università: li leggevo ad alta voce davanti ad alcuni studenti e posso assicurare che l’effetto era diverso rispetto a quello che si ottiene leggendoli in una scuola del centro di Roma o di Milano in una placida mattina di primavera: laggiù non ci sono selve, ma l’oscurità e la desolazione sì, e smarrirsi può ancora voler dire morire).
Si potrebbe dire che, durante i sette secoli che ci separano da Dante, sono rimaste intatte alcune fondamentali istanze umane: l’amore, l’odio, il dolore, la paura della morte… Questo è senz’altro vero, e ne parleremo più avanti. Ma consideriamo per esempio una delle più importanti fra queste istanze: la fede, la religione. Possiamo forse dire che, sotto questo aspetto, il nostro universo corrisponde ancora, almeno nelle sue linee essenziali, a quello di Dante? Dante credeva alla verità storica della Bibbia. Noi, o almeno la gran parte di noi, non ci crediamo. La fede di Dante non ha incertezze né incrinature: egli non è soltanto sicuro dell’esistenza di Dio ma è convinto di avere, con la sfera del divino, un rapporto privilegiato: è il tema che emerge a ogni passo della Vita nova e della Commedia. In linea di massima, le donne e gli uomini di oggi vivono la fede con molto più distacco: anche se sono religiosi, il peso che la religione ha nelle loro vite e nelle loro idee, opinioni, sentimenti, è molto inferiore al peso che la religione poteva avere per un cristiano del tempo di Dante. Non è dunque eccessivo dire che per questi lettori, per noi lettori di oggi, la Commedia ha cessato di essere vera. Non nel senso che noi non crediamo più alla verità del viaggio che Dante avrebbe fatto nell’aldilà: è chiaro, era già chiaro per i lettori del suo tempo che si tratta di un’invenzione, così come sono invenzioni quelle di Omero, di Shakespeare, di Cervantes. Non è più vera nel senso che la visione del mondo che si esprime nella Commedia – la dottrina, i dogmi, l’idea della Provvidenza che pervade ogni azione di Dante-personaggio e ogni affermazione di Dante-poeta – ci è diventata estranea. Si pone insomma – e si è posto in realtà a partire dal Rinascimento, e poi più decisamente da due secoli a questa parte – il problema della lettura di un’opera fortemente ideologica come la Commedia all’interno di una società come la nostra, che ha in buona misura superato quell’ideologia, che si è secolarizzata.
Ma, si potrebbe obiettare, qualcosa del genere non si può dire di tutti i libri scritti nell’antichità, o nel medioevo, o… A che punto fermarsi? Da quando la letteratura comincia davvero a parlare di noi? È del tutto normale che un lettore di oggi trovi estranee alle sue idee e ai suoi gusti le opere del passato. Sono state concepite secondo canoni estetici diversi dai nostri, rispecchiano una visione del mondo che non può corrispondere alla nostra: per capirle, per farle parlare, dobbiamo cercare di avvicinarci a quella visione del mondo e a quelle consuetudini estetiche, e accettare per esempio che un racconto lungo possa essere scritto in versi e non in prosa, o che i suoi personaggi possano essere figure fantastiche come mostri, fate, dei, oppure che i cieli dei dipinti – perché naturalmente c’è una storia della pittura così come c’è una storia della letteratura – possano essere, anziché celesti, dorati.
Ma oltre a questa difficoltà, che condivide con tutte le opere d’arte del passato, la Commedia ne presenta una specifica. Gli autori di opere come il Roman de la Rose o l’Orlando furioso o il Don Chisciotte hanno un modo di vedere la realtà ovviamente molto diverso dal nostro. Ma ciò che ci sta a cuore e che stimola il nostro interesse, quando li leggiamo, è il racconto, la trama, il corso degli eventi, e questo – la curiosità di sapere se il protagonista del racconto conquisterà la rosa, che cosa faranno Orlando e Rinaldo, come se la caverà Don Chisciotte nella prossima avventura – ci aiuta a superare la distanza che separa la nostra visione del mondo dalla visione del mondo di quegli scrittori, e a disinteressarci dell’implausibilità delle cose che ci stanno raccontando: sono storie, un po’ più strane di quelle che racconteranno i romanzieri realisti a partire dal Settecento, ma storie che ci possono divertire, interessare, commuovere, e nelle quali ci possiamo rispecchiare, anche se con uno sforzo molto maggiore di quello che ci verrà richiesto più tardi da Balzac o da Proust.
Ma ecco la differenza. Nella Commedia, la prospettiva sulle cose è importante almeno quanto le cose stesse. Dante-autore è sempre in campo, la sua visione del mondo, che è così diversa dalla nostra, viene sempre sollecitata. Non veniamo lasciati soli neanche per un attimo, non possiamo mai abbandonarci all’ascolto della storia: ogni rappresentazione cela un concetto. In altre parole, nella Commedia c’è una dimensione dottrinale, teoretica che nelle altre grandi opere della narrativa premoderna non c’è, e questa dottrina non è qualcosa che si possa separare facilmente dal racconto: perché il racconto non è fine a se stesso come nel Roman de la Rose o nel Furioso o nel Don Chisciotte ma è funzionale a una dimostrazione, mira a istruire e a persuadere piuttosto che a intrattenere, ed è pieno di faticosi passaggi nei quali i vari commi della dimostrazione vengono illustrati, come in un trattato filosofico o, per l’appunto, teologico.
Esiste una storia della ricezione delle opere: ogni età vede nell’arte del passato qualcosa di un po’ diverso rispetto a ciò che vi vedeva l’età precedente. Ciò risulta chiarissimo se si riflette sulla fortuna e sulla sfortuna, attraverso i secoli, di autori oggi considerati sommi come Dante o Shakespeare o Caravaggio. Nella lettera a Cangrande della Scala leggiamo che il soggetto della Commedia è “lo stato delle anime dopo la morte” (§ 24). Un’opinione simile appare a noi oggi troppo riduttiva. La Commedia è ben altro che questo. Ha scritto uno dei maggiori studiosi di Dante, Bruno Nardi:
In realtà il senso letterale di tutto il poema è un altro, e cioè il viaggio, il “fatale andare” di Dante, smarrito, attraverso l’Inferno e il Purgatorio fino alla selva antica del Paradiso terrestre […], e quindi l’ascesa attraverso le sfere celesti […]. E in questo viaggio e in questa ascesa Dante porta con sé il suo ‘stato civile’ con tutta la sua ricca umanità, con tutte le sue aspirazioni personali, letterarie, politiche, morali e religiose, sì che il pronome personale io risuona dal secondo al terz’ultimo verso della Commedia. […] Questo, sì, è il senso letterale del poema ed è il solo che veramente ci commuova sino a farci trasalire. Ed è proprio questo che sta sullo stomaco al teologo [cioè all’estensore della lettera, che non sarebbe Dante] che sub lectoris officio s’è proposto di svalutarlo, riducendolo a semplice finzione poetica.
Oggi non facciamo fatica a condividere l’opinione di Nardi secondo cui il soggetto della Commedia non è tanto l’aldilà, la teologia volgarizzata da Dante, quanto l’esistenza di Dante, l’esistenza umana in generale, osservata dalla specola dell’eterno. Tuttavia, sia stata o non sia stata scritta da Dante, la lettera a Cangrande ci mostra in che modo la Commedia poteva essere letta nel quattordicesimo secolo e ci dice come allora fosse cruciale proprio quella dimensione dottrinale – lo stato delle anime dopo la morte – che il lettore odierno considera secondaria (secondo questa prospettiva, ha scritto sempre Nardi, la Commedia non sarebbe che “un barboso trattato teologico sull’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso”). Del resto è soprattutto sulla dottrina, e non tanto sul puro racconto o sulla dimensione autobiografica, che si concentrarono le attenzioni e le critiche dei contemporanei: sulle profezie, sul problema della visione, sulle libertà che Dante si prende nell’immaginare la durata e i modi delle pene. E non mancava tra i primi commentatori chi, come Guido da Pisa, difendeva apertamente l’idea di Dante profeta, visitato dallo Spirito Santo, mentre oggi pochi credono davvero che Dante si sia messo all’opera perché ispirato dal cielo.
Quali conseguenze ha un simile mutamento di prospettiva? Charles Singleton ha sostenuto che proprio “l’indifferenza alla salvezza” che è caratteristica di noi moderni c’impedisce ormai di avere una comprensione adeguata dell’opera di Dante. “Il fatto è”, scrive, “che siamo arrivati al limite cui era possibile arrivare nella tendenza a minimizzare o a escludere dall’attenzione i più profondi significati cristiani della Commedia”. In altre parole, così come la Bibbia o il Corano significano qualcosa per un lettore cristiano o un per lettore musulmano e qualcos’altro – qualcosa di meno – per un lettore che non creda alla verità né dell’una né dell’altro, allo stesso modo si potrebbe dire che, dal momento che non siamo più in grado di dare alla Commedia il valore teologico e profetico che la Commedia aveva in origine, anche il nostro apprezzamento dell’opera risulta almeno in parte compromesso.
È così? O si può pensare che questo mutamento di mentalità (che riguarda, ripeto, ogni opera d’arte antica ma in particolare quelle che, come la Commedia, hanno un preponderante contenuto di pensiero), anziché essere dannoso per il nostro gradimento e la nostra comprensione dell’opera, ci apra nuove vie, nuove possibilità di lettura?
III.
Terza ragione di lontananza. La Commedia non soltanto parla di cose che sono molto lontane dalla nostra esperienza, così come molti capolavori del passato (la guerra sotto le mura della città di Troia, il viaggio di un eroe che è destinato a fondare Roma, le avventure di un pazzo che si crede un cavaliere errante), ma ne parla anche in maniera terribilmente complicata. La Commedia è forse l’unica grande opera letteraria occidentale che non può essere letta senza un commento o senza avere accanto una buona enciclopedia. Prendiamo la mitologia. Anche i poemi latini e greci erano pieni di strani e spesso oscuri riferimenti al mito, ma bisogna supporre che quei miti fossero moneta corrente per molti lettori del tempo: un codice condiviso, se non un credo condiviso. Nel momento in cui Dante scrive versi come questi (Pd VIII 1-8):
Solea creder lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
raggiasse, volta nel terzo epiciclo;
per che non pur a lei facieno onore
di sacrificio e di votivo grido
le genti antiche ne l’antico errore;
ma Dïone onoravano e Cupido,
quella per madre sua, questo per figlio
è passato quasi un millennio da quando il pantheon greco-romano è stato sostituito dalla Trinità cristiana: soltanto chi conosceva alla perfezione la mitologia classica, i poemi classici, aveva qualche speranza di orientarsi, da solo, tra questi nomi. Per questa ragione, e anche questo è un caso unico nella storia della letteratura occidentale, si pensò subito di non lasciare da soli i lettori, e pochi anni dopo la morte di Dante si cominciarono a scrivere eruditissimi commenti, simili a quelli che si erano scritti per opere molto lontane nello spazio e nel tempo, e appartenenti a generi molto diversi come i libri della Bibbia o i trattati di Aristotele.
Non basta: perché l’enciclopedia che serve per leggere Omero o le Metamorfosi di Ovidio rischia di non essere sufficiente per la Commedia. Prendiamo per esempio questi versi (If XXI 37-49):
Del nostro ponte disse: “O Malebranche,
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche
a quella terra, che n’è ben fornita:
ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita”.
Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.
Quel s’attuffò, e tornò su convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: “Qui non ha loco il Santo Volto!
Qui si nuota altrimenti che nel Serchio!”.
Questa è storia contemporanea, anzi è cronaca: vi si parla di una città che non è mai esplicitamente nominata (che si tratti di Lucca lo apprendiamo dai commenti) e si citano cose e personaggi (il Santo Volto, Bonturo) intorno ai quali molto difficilmente un lettore che non fosse lucchese poteva essere informato. Ora, anche scrittori latini come Lucano o come Stazio avevano raccontato la storia del loro tempo. Ma la loro era la grande storia degli imperi, non la cronaca di una minuscola cittadina. In più, nel momento in cui raccontano le loro storie Lucano e Stazio mettono il lettore nella condizione di capire bene quello che stanno dicendo, spiegano gli antefatti, le cause degli eventi, ci fanno conoscere da vicino i protagonisti (Pharsalia I 67-69): “Fert animus causas tantarum expromere rerum / immensumque aperitur opus, quid in arma furentem / impulerit populum, quid pacem excusserit orbi” (”L’animo mi porta a esporre le cause di avvenimenti tanto gravi: / viene così a spalancarsi un’opera smisurata per chiarire cosa abbia spinto alle armi / il popolo romano accecato, cosa abbia scrollato la pace via dal mondo”). E segue il racconto dei fatti che avevano portato alla guerra civile. Dante, al contrario, non spiega. Cita, allude, prende personaggi ed eventi del passato e li inserisce nel suo racconto ma – dato che ciò che gli sta a cuore non sono tanto le loro vicende personali quanto il loro valore esemplare – dà spesso al lettore informazioni scarse e lacunose circa la loro identità terrena. Chi, senza l’aiuto dei commenti, riuscirebbe a immaginare tutta la storia che sta dietro ai sei versi pronunciati da Pia dei Tolomei alla fine del quinto canto del Purgatorio?
Ma non c’è soltanto questo. La Commedia è anche piena di passi, alcuni memorabili, in cui Dante parla, semplicemente, della sua vita privata. E ne parla come se tutti fossero al corrente di ciò che sta dicendo, o meglio come se non gli importasse del fatto che nessuno può davvero afferrare ciò che sta dicendo. Anche in questo caso è utile un confronto. Nell’antica Roma esisteva un genere letterario nel quale era ammesso un simile codice ristretto: la satira. Quando leggiamo, nella satira XI di Giovenale (vv. 21-23): “È però necessario distinguere tra chi si prepara simili pranzi; se è Rutilio, è un lusso, ma se si tratta di Ventidio, la faccenda prende tutt’altro nome”; oppure (nella stessa, vv. 33-34): “Chiarisci bene a te stesso che cosa tu sia, se un oratore veemente o uno sbruffone come Curzio o Matone”, noi non potremmo mai capire di che cosa si sta parlando se non avessimo delle note esaurienti, note che però talvolta non riescono comunque a spiegare il passo in questione: “Potrebbe essere il Ventìdio Basso della satira VII, che dal nulla divenne console e accumulò grandi ricchezze […]. Di Curzio nulla sappiamo” (così Ettore Barelli nella sua edizione delle Satire di Giovenale, Milano, Rizzoli 2002, p. 237). Il passo resta oscuro: ma è pensabile che per i lettori antichi queste allusioni fossero trasparenti, che si trattasse di aneddoti che circolavano tra la gente, come ne circolano oggi un po’ in tutti gli ambienti. È solo il passaggio del tempo che rende oscuro quello che una volta doveva essere chiaro a molti. Ma il codice ristretto di Dante – le allusioni a una “pargoletta” che lo ha messo sulla cattiva strada (Pg XXI 59), ai “battezzatori” di San Giovanni (If XIX 16-24), ai suoi trascorsi con questo o quel personaggio del poema (Forese, Carlo Martello, Belacqua) – non è che memoria personale, perciò non condivisa, ed è probabile che esso non sia stato mai trasparente per nessuno salvo che per Dante.
Insomma, la terza ragione che allontana la Commedia da noi è questa: la Commedia è molto difficile da capire perché Dante parla di moltissime cose disparate senza però darsi la pena di offrire al lettore informazioni che gli facciano capire di chi o di che cosa si sta parlando. Dato che è difficile da capire, la Commedia è anche difficile da amare. A scuola accade spesso che queste difficoltà vengano un po’ nascoste per non spaventare gli studenti: e la bellezza e l’importanza della Commedia (come di altre opere del passato) vengono date come ovvie, auto-evidenti. Ma non è così. La Commedia è certamente piena di cose meravigliose, ma anche per apprezzare queste cose meravigliose bisogna fare un po’ di fatica. “La verità non si concede ai pigri”, ha scritto qualcuno: e lo stesso si può dire della bellezza.
IV.
E adesso, dopo aver detto perché un lettore di oggi potrebbe non avere voglia di leggere la Commedia, proviamo a spiegare perché questa sarebbe la scelta sbagliata, cioè perché vale invece la pena di provarci.
La questione della forma: i versi. Certo, i versi sono una forma artificiale, una costrizione. Ma non è detto che una costrizione debba rappresentare un ostacolo per l’immaginazione e per l’arte. Oggi abbiamo questa impressione, perché viviamo in un’epoca in cui gli artisti godono di una quasi totale libertà formale. Quale tipo di versi può adoperare un poeta, oggi? Tutti quelli che vuole, delle misure che vuole. Di che cosa può parlare una poesia? Di qualsiasi argomento. Quanto può essere lungo un racconto in prosa? Da una riga a tremila pagine. In passato i confini dei generi erano molto più rigidi: c’erano delle regole precise su come comporre una poesia, un dramma, un poema, e anche su ciò che una poesia, un dramma, un poema potevano dire. Ebbene, dopo un po’ che si studiano le opere del passato ci si accorge di come proprio il buon uso delle costrizioni – degli schemi fissi, delle regole – sia uno dei modi attraverso i quali l’arte può dare piacere.
Un esempio. Alla fine del canto XXII del Paradiso Dante fluttua nell’aria e dall’alto, mentre gira in tondo, vede tutti i pianeti del sistema solare uno in fila all’altro. Non c’è nulla di intrinsecamente “poetico” in un’idea come questa, anzi: la descrizione non della luna o di un bel cielo stellato ma dell’ordine cosmico sembra ancora adesso (e tanto più doveva sembrarlo allora) qualcosa da lasciare agli astronomi. Nei suoi Principi della filosofia (III 8), Cartesio immagina anche lui di osservare il sistema solare da fuori, e scrive: “È facile conoscere che la Luna e la Terra apparirebbero molto più piccole a chi le guardasse da Giove o da Saturno, di quanto appaia Giove o Saturno allo stesso spettatore che li guarda dalla Terra, e che, se si guardasse il Sole di sopra da qualche stella fissa, esso non apparirebbe forse maggiore di quanto appaiano le stelle a quelli che le guardano dal luogo dove siamo”. Questo è il modo in cui l’immagine viene articolata nella prosa scientifica: un linguaggio chiaro e distinto, ma che proprio per questo non si può davvero dire stimoli il volo della fantasia. Questo invece è il modo in cui l’articola Dante, che deve rispettare i confini del verso e della terzina (133-54):
Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;
e quel consiglio per migliore approbo
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo.
Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell’ ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa.
L’aspetto del tuo nato, Iperïone,
quivi sostenni, e vidi com si move
circa e vicino a lui Maia e Dïone.
Quindi m’apparve il temperar di Giove
tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove.
E tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi, e quanto son veloci,
e come sono in distante riparo.
L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’ io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci.
Poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.
Questo è uno dei passi più belli della Commedia. È impressionante che un uomo del medioevo possa immaginare di osservare l’intero universo conosciuto mentre lui, col suo corpo, gli ruota attorno. Non è importante il fatto che quella del cosmo visto dall’alto non sia un’invenzione di Dante ma gli derivi dal Somnium Scipionis di Cicerone; non è importante perché la cosa più straordinaria è il modo in cui Dante riesce a comprimere nello spazio di una ventina di versi tante informazioni: il nome di tutti i pianeti con una breve caratterizzazione di ciascuno, e poi una meravigliosa terzina riassuntiva che li riunisce tutti insieme: “e tutti e sette mi si dimostraro…”. E il più straordinario di tutti è il verso 151. Dato il problema “definire la terra e la vita umana in undici sillabe”, la soluzione di Dante è: “L’aiuola che ci fa tanto feroci”. È un verso bellissimo non solo per il suono (coi due accenti consecutivi sulla sesta e la settima sillaba, fà tànto) e per la ricchezza del suo significato: “a chi, come me, ha potuto vedere le cose con l’occhio di Dio, il nostro pianeta appare per quello che realmente è, un fazzoletto di terra (aiuola) minuscolo, irrilevante, e per il quale noi però ci facciamo continuamente la guerra”. Non solo per questo, ma anche perché in undici sillabe Dante riesce a combinare i due piani ben distinti della descrizione obiettiva e del giudizio morale. Non dice “un piccolo pezzo di terra che ha questa o quest’altra caratteristica e che mi appare, mentre gli volteggio intorno, in questo o quest’altro modo”; dice “un piccolo pezzo di terra (piano fisico) che ci rende tutti crudeli (piano morale)”. Ma questo prodigio di sintesi non si sarebbe compiuto se Dante non avesse dovuto superare, per l’appunto, le costrizioni, i vincoli che il genere del suo discorso gli imponeva.
Un altro esempio. Tra le cose che Dante deve fare c’è trovare un inizio originale per ognuno dei cento canti, non ripetere sempre le stesse parole, lo stesso schema, la stessa situazione narrativa. Ci si pensa di rado, ma questa in pratica è una cosa nuova nella letteratura europea perché i poemi, i romanzi in versi anteriori a Dante non sono divisi in canti: cento nuovi inizi sono un problema che nessuno aveva mai dovuto affrontare. Ma Dante trasforma il problema in un’occasione e trova delle soluzioni geniali. Comincia, senza nessuna spiegazione, citando le parole scritte su una porta all’ingresso dell’inferno (”Per me si va nella città dolente…”), comincia rivolgendo direttamente la parola al lettore (”Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe…”), comincia citando versacci incomprensibili (”Pape Satàn, pape Satàn aleppe!”), e lo può fare anche perché di versi in -eppe (o altrove in -occe, in –orpio, e via dicendo), essendo all’inizio del canto, deve trovarne soltanto due, non tre: non è facile, ma è meno difficile che se queste rime impossibili stessero nel corpo del canto, dato che lo schema della terza rima è ABABCBCDCDED…
Nel XIV del Purgatorio Dante fa qualcosa di meno vistoso ma di altrettanto se non più sorprendente, e cioè comincia il canto con un dialogo tra due personaggi che non conosciamo, che non abbiamo mai incontrato prima:
“Chi è costui che ’l nostro monte cerchia
prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia?”.
“Non so chi sia, ma so che non è solo:
domandal tu che più li t’avvicini,
e dolcemente, sì che parli, acco’lo”.
Questa tecnica è strana e interessante per varie ragioni. Perché nei manoscritti antichi non c’erano le virgolette, quindi non doveva essere immediatamente chiaro, leggendo, che a parlare qui non era l’autore (lo diventa al verso 7, dove Dante riprende la parola e spiega: “Così due spirti”). Perché Dante usa quella che si chiama “tecnica del ritardamento”, cioè introduce i personaggi e li fa parlare, ma aspetta qualche decina di versi prima di dirci chi sono e perché sono lì: lo sapremo soltanto dopo il verso 80, “sappi ch’io son Guido del Duca” e “Questi è Rinier”. E infine perché il lettore moderno è portato ad associare questa tecnica adoperata da Dante al teatro o al cinema piuttosto che alla narrativa: l’apertura della scena sul colloquio di due personaggi, senza bisogno di didascalie introduttive o di una voce fuori campo.
V.
Questo era il primo ostacolo alla lettura e all’apprezzamento della Commedia da parte nostra. È in versi, e i versi ci appaiono oggi come un mezzo poco adatto al racconto, perché sono artificiosi e spesso difficili da capire. È vero, ma abbiamo visto come proprio la risoluzione di problemi formali che nell’età della totale libertà espressiva non si danno più possa contribuire alla bellezza dell’opera e al nostro piacere di lettori.
La Commedia, abbiamo osservato in secondo luogo, è stata scritta molti secoli fa, e tra il mondo di Dante e il nostro le differenze sono molto più numerose delle analogie. E non solo il mondo che Dante descrive, ma anche e soprattutto il mondo come Dante lo pensa: le sue idee sulla religione, la politica, i rapporti tra i sessi e le classi sociali, ci sono ormai quasi del tutto estranee. Vale davvero la pena di ascoltarle?
Quanto a quest’ultimo problema, il problema della nostra distanza ideale da Dante, e soprattutto dalle sue idee intorno alla religione, che incidono così profondamente sulla sua opera, è molto ragionevole quello che ha osservato un grande scrittore del ventesimo secolo che era anche un credente, T.S. Eliot:
I.
Prima ragione che può scoraggiare la lettura. La Commedia è in versi, è un racconto in versi: e noi oggi tendiamo a pensare che i versi vadano bene per la poesia lirica (che del resto leggiamo sempre meno) o per le canzoni ma certamente non per i racconti lunghi. Per i racconti lunghi c’è la prosa. Esistono anche poeti contemporanei che hanno provato a raccontare una storia in versi, centinaia o migliaia di versi, ma sono eccezioni, e quasi mai eccezioni felici. Ci sono poche idee sulla letteratura più veritiere di quella di Poe secondo cui le poesie dovrebbero essere abbastanza brevi da stare su una sola pagina, così da poter essere lette tutte in una volta, senza interruzioni: a distanza di un secolo e mezzo questo è ancora il nostro punto di vista, e tutto lascia credere che le cose non cambieranno, che nessun brillante futuro attende il genere “poema”. Insomma, la Commedia è scritta in un modo artificiale, e questo artificio – anzi, questa somma di artifici: non soltanto il verso ma anche la rima, la disposizione “innaturale” delle parole, e insomma tutto ciò che rende poesia la poesia – è ormai irrimediabilmente lontano dalle nostre abitudini e dai nostri gusti.
II.
Seconda ragione. La Commedia è stata scritta sette secoli fa. Com’è cambiata la vita da allora! E soprattutto: com’è cambiata la vita in quest’ultimo secolo! Non è forse vero che tra il mondo di Dante e quello dei nostri bisavoli o trisavoli, all’inizio del Novecento, c’è meno differenza di quanta ce ne sia tra questo mondo di “appena ieri” e il nostro mondo, oggi? Non hanno forse, la scienza e la tecnica, trasformato così radicalmente il paesaggio da rendere quasi imparagonabili questi orizzonti d’esperienza?
Molte delle cose che Dante descrive non sono più le cose che noi abbiamo davanti agli occhi. L’idea dell’esistenza che aveva non è più la nostra. Dante ha vissuto in un mondo i cui confini coincidevano praticamente con quelli dell’Europa centro-meridionale, un mondo nel quale le forze politiche più importanti erano l’impero tedesco e il papato. Al centro del cosmo stava, per lui, il pianeta Terra, con gli altri pianeti e col sole a girarle intorno. Non c’è cosa che sia rimasta intatta, da allora. E non si tratta soltanto dei massimi sistemi, ma anche della quotidiana esperienza della vita. Quando leggiamo i primi versi della Commedia, “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura”, dobbiamo fare un grosso sforzo per immaginare la paura che poteva avere un viandante che, nell’anno 1300, si fosse perduto in una di quelle foreste che cominciavano appena fuori dalle mura delle città e che erano davvero aspre, selvagge, e popolate da animali feroci. Molti dei lettori odierni della Commedia hanno a malapena visto un bosco, e lo hanno visto di giorno, camminando lungo un sentiero segnato. Smarrirsi ha, per loro, un significato molto diverso, molto meno sinistro, di quello che poteva avere per un lettore del tempo di Dante (ma mi è capitato di leggere questi versi dell’Inferno in Islanda, un pomeriggio d’inverno, col buio e il freddo fuori, e il deserto di lava a qualche centinaio di metri dal campus dell’università: li leggevo ad alta voce davanti ad alcuni studenti e posso assicurare che l’effetto era diverso rispetto a quello che si ottiene leggendoli in una scuola del centro di Roma o di Milano in una placida mattina di primavera: laggiù non ci sono selve, ma l’oscurità e la desolazione sì, e smarrirsi può ancora voler dire morire).
Si potrebbe dire che, durante i sette secoli che ci separano da Dante, sono rimaste intatte alcune fondamentali istanze umane: l’amore, l’odio, il dolore, la paura della morte… Questo è senz’altro vero, e ne parleremo più avanti. Ma consideriamo per esempio una delle più importanti fra queste istanze: la fede, la religione. Possiamo forse dire che, sotto questo aspetto, il nostro universo corrisponde ancora, almeno nelle sue linee essenziali, a quello di Dante? Dante credeva alla verità storica della Bibbia. Noi, o almeno la gran parte di noi, non ci crediamo. La fede di Dante non ha incertezze né incrinature: egli non è soltanto sicuro dell’esistenza di Dio ma è convinto di avere, con la sfera del divino, un rapporto privilegiato: è il tema che emerge a ogni passo della Vita nova e della Commedia. In linea di massima, le donne e gli uomini di oggi vivono la fede con molto più distacco: anche se sono religiosi, il peso che la religione ha nelle loro vite e nelle loro idee, opinioni, sentimenti, è molto inferiore al peso che la religione poteva avere per un cristiano del tempo di Dante. Non è dunque eccessivo dire che per questi lettori, per noi lettori di oggi, la Commedia ha cessato di essere vera. Non nel senso che noi non crediamo più alla verità del viaggio che Dante avrebbe fatto nell’aldilà: è chiaro, era già chiaro per i lettori del suo tempo che si tratta di un’invenzione, così come sono invenzioni quelle di Omero, di Shakespeare, di Cervantes. Non è più vera nel senso che la visione del mondo che si esprime nella Commedia – la dottrina, i dogmi, l’idea della Provvidenza che pervade ogni azione di Dante-personaggio e ogni affermazione di Dante-poeta – ci è diventata estranea. Si pone insomma – e si è posto in realtà a partire dal Rinascimento, e poi più decisamente da due secoli a questa parte – il problema della lettura di un’opera fortemente ideologica come la Commedia all’interno di una società come la nostra, che ha in buona misura superato quell’ideologia, che si è secolarizzata.
Ma, si potrebbe obiettare, qualcosa del genere non si può dire di tutti i libri scritti nell’antichità, o nel medioevo, o… A che punto fermarsi? Da quando la letteratura comincia davvero a parlare di noi? È del tutto normale che un lettore di oggi trovi estranee alle sue idee e ai suoi gusti le opere del passato. Sono state concepite secondo canoni estetici diversi dai nostri, rispecchiano una visione del mondo che non può corrispondere alla nostra: per capirle, per farle parlare, dobbiamo cercare di avvicinarci a quella visione del mondo e a quelle consuetudini estetiche, e accettare per esempio che un racconto lungo possa essere scritto in versi e non in prosa, o che i suoi personaggi possano essere figure fantastiche come mostri, fate, dei, oppure che i cieli dei dipinti – perché naturalmente c’è una storia della pittura così come c’è una storia della letteratura – possano essere, anziché celesti, dorati.
Ma oltre a questa difficoltà, che condivide con tutte le opere d’arte del passato, la Commedia ne presenta una specifica. Gli autori di opere come il Roman de la Rose o l’Orlando furioso o il Don Chisciotte hanno un modo di vedere la realtà ovviamente molto diverso dal nostro. Ma ciò che ci sta a cuore e che stimola il nostro interesse, quando li leggiamo, è il racconto, la trama, il corso degli eventi, e questo – la curiosità di sapere se il protagonista del racconto conquisterà la rosa, che cosa faranno Orlando e Rinaldo, come se la caverà Don Chisciotte nella prossima avventura – ci aiuta a superare la distanza che separa la nostra visione del mondo dalla visione del mondo di quegli scrittori, e a disinteressarci dell’implausibilità delle cose che ci stanno raccontando: sono storie, un po’ più strane di quelle che racconteranno i romanzieri realisti a partire dal Settecento, ma storie che ci possono divertire, interessare, commuovere, e nelle quali ci possiamo rispecchiare, anche se con uno sforzo molto maggiore di quello che ci verrà richiesto più tardi da Balzac o da Proust.
Ma ecco la differenza. Nella Commedia, la prospettiva sulle cose è importante almeno quanto le cose stesse. Dante-autore è sempre in campo, la sua visione del mondo, che è così diversa dalla nostra, viene sempre sollecitata. Non veniamo lasciati soli neanche per un attimo, non possiamo mai abbandonarci all’ascolto della storia: ogni rappresentazione cela un concetto. In altre parole, nella Commedia c’è una dimensione dottrinale, teoretica che nelle altre grandi opere della narrativa premoderna non c’è, e questa dottrina non è qualcosa che si possa separare facilmente dal racconto: perché il racconto non è fine a se stesso come nel Roman de la Rose o nel Furioso o nel Don Chisciotte ma è funzionale a una dimostrazione, mira a istruire e a persuadere piuttosto che a intrattenere, ed è pieno di faticosi passaggi nei quali i vari commi della dimostrazione vengono illustrati, come in un trattato filosofico o, per l’appunto, teologico.
Esiste una storia della ricezione delle opere: ogni età vede nell’arte del passato qualcosa di un po’ diverso rispetto a ciò che vi vedeva l’età precedente. Ciò risulta chiarissimo se si riflette sulla fortuna e sulla sfortuna, attraverso i secoli, di autori oggi considerati sommi come Dante o Shakespeare o Caravaggio. Nella lettera a Cangrande della Scala leggiamo che il soggetto della Commedia è “lo stato delle anime dopo la morte” (§ 24). Un’opinione simile appare a noi oggi troppo riduttiva. La Commedia è ben altro che questo. Ha scritto uno dei maggiori studiosi di Dante, Bruno Nardi:
In realtà il senso letterale di tutto il poema è un altro, e cioè il viaggio, il “fatale andare” di Dante, smarrito, attraverso l’Inferno e il Purgatorio fino alla selva antica del Paradiso terrestre […], e quindi l’ascesa attraverso le sfere celesti […]. E in questo viaggio e in questa ascesa Dante porta con sé il suo ‘stato civile’ con tutta la sua ricca umanità, con tutte le sue aspirazioni personali, letterarie, politiche, morali e religiose, sì che il pronome personale io risuona dal secondo al terz’ultimo verso della Commedia. […] Questo, sì, è il senso letterale del poema ed è il solo che veramente ci commuova sino a farci trasalire. Ed è proprio questo che sta sullo stomaco al teologo [cioè all’estensore della lettera, che non sarebbe Dante] che sub lectoris officio s’è proposto di svalutarlo, riducendolo a semplice finzione poetica.
Oggi non facciamo fatica a condividere l’opinione di Nardi secondo cui il soggetto della Commedia non è tanto l’aldilà, la teologia volgarizzata da Dante, quanto l’esistenza di Dante, l’esistenza umana in generale, osservata dalla specola dell’eterno. Tuttavia, sia stata o non sia stata scritta da Dante, la lettera a Cangrande ci mostra in che modo la Commedia poteva essere letta nel quattordicesimo secolo e ci dice come allora fosse cruciale proprio quella dimensione dottrinale – lo stato delle anime dopo la morte – che il lettore odierno considera secondaria (secondo questa prospettiva, ha scritto sempre Nardi, la Commedia non sarebbe che “un barboso trattato teologico sull’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso”). Del resto è soprattutto sulla dottrina, e non tanto sul puro racconto o sulla dimensione autobiografica, che si concentrarono le attenzioni e le critiche dei contemporanei: sulle profezie, sul problema della visione, sulle libertà che Dante si prende nell’immaginare la durata e i modi delle pene. E non mancava tra i primi commentatori chi, come Guido da Pisa, difendeva apertamente l’idea di Dante profeta, visitato dallo Spirito Santo, mentre oggi pochi credono davvero che Dante si sia messo all’opera perché ispirato dal cielo.
Quali conseguenze ha un simile mutamento di prospettiva? Charles Singleton ha sostenuto che proprio “l’indifferenza alla salvezza” che è caratteristica di noi moderni c’impedisce ormai di avere una comprensione adeguata dell’opera di Dante. “Il fatto è”, scrive, “che siamo arrivati al limite cui era possibile arrivare nella tendenza a minimizzare o a escludere dall’attenzione i più profondi significati cristiani della Commedia”. In altre parole, così come la Bibbia o il Corano significano qualcosa per un lettore cristiano o un per lettore musulmano e qualcos’altro – qualcosa di meno – per un lettore che non creda alla verità né dell’una né dell’altro, allo stesso modo si potrebbe dire che, dal momento che non siamo più in grado di dare alla Commedia il valore teologico e profetico che la Commedia aveva in origine, anche il nostro apprezzamento dell’opera risulta almeno in parte compromesso.
È così? O si può pensare che questo mutamento di mentalità (che riguarda, ripeto, ogni opera d’arte antica ma in particolare quelle che, come la Commedia, hanno un preponderante contenuto di pensiero), anziché essere dannoso per il nostro gradimento e la nostra comprensione dell’opera, ci apra nuove vie, nuove possibilità di lettura?
III.
Terza ragione di lontananza. La Commedia non soltanto parla di cose che sono molto lontane dalla nostra esperienza, così come molti capolavori del passato (la guerra sotto le mura della città di Troia, il viaggio di un eroe che è destinato a fondare Roma, le avventure di un pazzo che si crede un cavaliere errante), ma ne parla anche in maniera terribilmente complicata. La Commedia è forse l’unica grande opera letteraria occidentale che non può essere letta senza un commento o senza avere accanto una buona enciclopedia. Prendiamo la mitologia. Anche i poemi latini e greci erano pieni di strani e spesso oscuri riferimenti al mito, ma bisogna supporre che quei miti fossero moneta corrente per molti lettori del tempo: un codice condiviso, se non un credo condiviso. Nel momento in cui Dante scrive versi come questi (Pd VIII 1-8):
Solea creder lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
raggiasse, volta nel terzo epiciclo;
per che non pur a lei facieno onore
di sacrificio e di votivo grido
le genti antiche ne l’antico errore;
ma Dïone onoravano e Cupido,
quella per madre sua, questo per figlio
è passato quasi un millennio da quando il pantheon greco-romano è stato sostituito dalla Trinità cristiana: soltanto chi conosceva alla perfezione la mitologia classica, i poemi classici, aveva qualche speranza di orientarsi, da solo, tra questi nomi. Per questa ragione, e anche questo è un caso unico nella storia della letteratura occidentale, si pensò subito di non lasciare da soli i lettori, e pochi anni dopo la morte di Dante si cominciarono a scrivere eruditissimi commenti, simili a quelli che si erano scritti per opere molto lontane nello spazio e nel tempo, e appartenenti a generi molto diversi come i libri della Bibbia o i trattati di Aristotele.
Non basta: perché l’enciclopedia che serve per leggere Omero o le Metamorfosi di Ovidio rischia di non essere sufficiente per la Commedia. Prendiamo per esempio questi versi (If XXI 37-49):
Del nostro ponte disse: “O Malebranche,
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche
a quella terra, che n’è ben fornita:
ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita”.
Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.
Quel s’attuffò, e tornò su convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: “Qui non ha loco il Santo Volto!
Qui si nuota altrimenti che nel Serchio!”.
Questa è storia contemporanea, anzi è cronaca: vi si parla di una città che non è mai esplicitamente nominata (che si tratti di Lucca lo apprendiamo dai commenti) e si citano cose e personaggi (il Santo Volto, Bonturo) intorno ai quali molto difficilmente un lettore che non fosse lucchese poteva essere informato. Ora, anche scrittori latini come Lucano o come Stazio avevano raccontato la storia del loro tempo. Ma la loro era la grande storia degli imperi, non la cronaca di una minuscola cittadina. In più, nel momento in cui raccontano le loro storie Lucano e Stazio mettono il lettore nella condizione di capire bene quello che stanno dicendo, spiegano gli antefatti, le cause degli eventi, ci fanno conoscere da vicino i protagonisti (Pharsalia I 67-69): “Fert animus causas tantarum expromere rerum / immensumque aperitur opus, quid in arma furentem / impulerit populum, quid pacem excusserit orbi” (”L’animo mi porta a esporre le cause di avvenimenti tanto gravi: / viene così a spalancarsi un’opera smisurata per chiarire cosa abbia spinto alle armi / il popolo romano accecato, cosa abbia scrollato la pace via dal mondo”). E segue il racconto dei fatti che avevano portato alla guerra civile. Dante, al contrario, non spiega. Cita, allude, prende personaggi ed eventi del passato e li inserisce nel suo racconto ma – dato che ciò che gli sta a cuore non sono tanto le loro vicende personali quanto il loro valore esemplare – dà spesso al lettore informazioni scarse e lacunose circa la loro identità terrena. Chi, senza l’aiuto dei commenti, riuscirebbe a immaginare tutta la storia che sta dietro ai sei versi pronunciati da Pia dei Tolomei alla fine del quinto canto del Purgatorio?
Ma non c’è soltanto questo. La Commedia è anche piena di passi, alcuni memorabili, in cui Dante parla, semplicemente, della sua vita privata. E ne parla come se tutti fossero al corrente di ciò che sta dicendo, o meglio come se non gli importasse del fatto che nessuno può davvero afferrare ciò che sta dicendo. Anche in questo caso è utile un confronto. Nell’antica Roma esisteva un genere letterario nel quale era ammesso un simile codice ristretto: la satira. Quando leggiamo, nella satira XI di Giovenale (vv. 21-23): “È però necessario distinguere tra chi si prepara simili pranzi; se è Rutilio, è un lusso, ma se si tratta di Ventidio, la faccenda prende tutt’altro nome”; oppure (nella stessa, vv. 33-34): “Chiarisci bene a te stesso che cosa tu sia, se un oratore veemente o uno sbruffone come Curzio o Matone”, noi non potremmo mai capire di che cosa si sta parlando se non avessimo delle note esaurienti, note che però talvolta non riescono comunque a spiegare il passo in questione: “Potrebbe essere il Ventìdio Basso della satira VII, che dal nulla divenne console e accumulò grandi ricchezze […]. Di Curzio nulla sappiamo” (così Ettore Barelli nella sua edizione delle Satire di Giovenale, Milano, Rizzoli 2002, p. 237). Il passo resta oscuro: ma è pensabile che per i lettori antichi queste allusioni fossero trasparenti, che si trattasse di aneddoti che circolavano tra la gente, come ne circolano oggi un po’ in tutti gli ambienti. È solo il passaggio del tempo che rende oscuro quello che una volta doveva essere chiaro a molti. Ma il codice ristretto di Dante – le allusioni a una “pargoletta” che lo ha messo sulla cattiva strada (Pg XXI 59), ai “battezzatori” di San Giovanni (If XIX 16-24), ai suoi trascorsi con questo o quel personaggio del poema (Forese, Carlo Martello, Belacqua) – non è che memoria personale, perciò non condivisa, ed è probabile che esso non sia stato mai trasparente per nessuno salvo che per Dante.
Insomma, la terza ragione che allontana la Commedia da noi è questa: la Commedia è molto difficile da capire perché Dante parla di moltissime cose disparate senza però darsi la pena di offrire al lettore informazioni che gli facciano capire di chi o di che cosa si sta parlando. Dato che è difficile da capire, la Commedia è anche difficile da amare. A scuola accade spesso che queste difficoltà vengano un po’ nascoste per non spaventare gli studenti: e la bellezza e l’importanza della Commedia (come di altre opere del passato) vengono date come ovvie, auto-evidenti. Ma non è così. La Commedia è certamente piena di cose meravigliose, ma anche per apprezzare queste cose meravigliose bisogna fare un po’ di fatica. “La verità non si concede ai pigri”, ha scritto qualcuno: e lo stesso si può dire della bellezza.
IV.
E adesso, dopo aver detto perché un lettore di oggi potrebbe non avere voglia di leggere la Commedia, proviamo a spiegare perché questa sarebbe la scelta sbagliata, cioè perché vale invece la pena di provarci.
La questione della forma: i versi. Certo, i versi sono una forma artificiale, una costrizione. Ma non è detto che una costrizione debba rappresentare un ostacolo per l’immaginazione e per l’arte. Oggi abbiamo questa impressione, perché viviamo in un’epoca in cui gli artisti godono di una quasi totale libertà formale. Quale tipo di versi può adoperare un poeta, oggi? Tutti quelli che vuole, delle misure che vuole. Di che cosa può parlare una poesia? Di qualsiasi argomento. Quanto può essere lungo un racconto in prosa? Da una riga a tremila pagine. In passato i confini dei generi erano molto più rigidi: c’erano delle regole precise su come comporre una poesia, un dramma, un poema, e anche su ciò che una poesia, un dramma, un poema potevano dire. Ebbene, dopo un po’ che si studiano le opere del passato ci si accorge di come proprio il buon uso delle costrizioni – degli schemi fissi, delle regole – sia uno dei modi attraverso i quali l’arte può dare piacere.
Un esempio. Alla fine del canto XXII del Paradiso Dante fluttua nell’aria e dall’alto, mentre gira in tondo, vede tutti i pianeti del sistema solare uno in fila all’altro. Non c’è nulla di intrinsecamente “poetico” in un’idea come questa, anzi: la descrizione non della luna o di un bel cielo stellato ma dell’ordine cosmico sembra ancora adesso (e tanto più doveva sembrarlo allora) qualcosa da lasciare agli astronomi. Nei suoi Principi della filosofia (III 8), Cartesio immagina anche lui di osservare il sistema solare da fuori, e scrive: “È facile conoscere che la Luna e la Terra apparirebbero molto più piccole a chi le guardasse da Giove o da Saturno, di quanto appaia Giove o Saturno allo stesso spettatore che li guarda dalla Terra, e che, se si guardasse il Sole di sopra da qualche stella fissa, esso non apparirebbe forse maggiore di quanto appaiano le stelle a quelli che le guardano dal luogo dove siamo”. Questo è il modo in cui l’immagine viene articolata nella prosa scientifica: un linguaggio chiaro e distinto, ma che proprio per questo non si può davvero dire stimoli il volo della fantasia. Questo invece è il modo in cui l’articola Dante, che deve rispettare i confini del verso e della terzina (133-54):
Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;
e quel consiglio per migliore approbo
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo.
Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell’ ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa.
L’aspetto del tuo nato, Iperïone,
quivi sostenni, e vidi com si move
circa e vicino a lui Maia e Dïone.
Quindi m’apparve il temperar di Giove
tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove.
E tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi, e quanto son veloci,
e come sono in distante riparo.
L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’ io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci.
Poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.
Questo è uno dei passi più belli della Commedia. È impressionante che un uomo del medioevo possa immaginare di osservare l’intero universo conosciuto mentre lui, col suo corpo, gli ruota attorno. Non è importante il fatto che quella del cosmo visto dall’alto non sia un’invenzione di Dante ma gli derivi dal Somnium Scipionis di Cicerone; non è importante perché la cosa più straordinaria è il modo in cui Dante riesce a comprimere nello spazio di una ventina di versi tante informazioni: il nome di tutti i pianeti con una breve caratterizzazione di ciascuno, e poi una meravigliosa terzina riassuntiva che li riunisce tutti insieme: “e tutti e sette mi si dimostraro…”. E il più straordinario di tutti è il verso 151. Dato il problema “definire la terra e la vita umana in undici sillabe”, la soluzione di Dante è: “L’aiuola che ci fa tanto feroci”. È un verso bellissimo non solo per il suono (coi due accenti consecutivi sulla sesta e la settima sillaba, fà tànto) e per la ricchezza del suo significato: “a chi, come me, ha potuto vedere le cose con l’occhio di Dio, il nostro pianeta appare per quello che realmente è, un fazzoletto di terra (aiuola) minuscolo, irrilevante, e per il quale noi però ci facciamo continuamente la guerra”. Non solo per questo, ma anche perché in undici sillabe Dante riesce a combinare i due piani ben distinti della descrizione obiettiva e del giudizio morale. Non dice “un piccolo pezzo di terra che ha questa o quest’altra caratteristica e che mi appare, mentre gli volteggio intorno, in questo o quest’altro modo”; dice “un piccolo pezzo di terra (piano fisico) che ci rende tutti crudeli (piano morale)”. Ma questo prodigio di sintesi non si sarebbe compiuto se Dante non avesse dovuto superare, per l’appunto, le costrizioni, i vincoli che il genere del suo discorso gli imponeva.
Un altro esempio. Tra le cose che Dante deve fare c’è trovare un inizio originale per ognuno dei cento canti, non ripetere sempre le stesse parole, lo stesso schema, la stessa situazione narrativa. Ci si pensa di rado, ma questa in pratica è una cosa nuova nella letteratura europea perché i poemi, i romanzi in versi anteriori a Dante non sono divisi in canti: cento nuovi inizi sono un problema che nessuno aveva mai dovuto affrontare. Ma Dante trasforma il problema in un’occasione e trova delle soluzioni geniali. Comincia, senza nessuna spiegazione, citando le parole scritte su una porta all’ingresso dell’inferno (”Per me si va nella città dolente…”), comincia rivolgendo direttamente la parola al lettore (”Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe…”), comincia citando versacci incomprensibili (”Pape Satàn, pape Satàn aleppe!”), e lo può fare anche perché di versi in -eppe (o altrove in -occe, in –orpio, e via dicendo), essendo all’inizio del canto, deve trovarne soltanto due, non tre: non è facile, ma è meno difficile che se queste rime impossibili stessero nel corpo del canto, dato che lo schema della terza rima è ABABCBCDCDED…
Nel XIV del Purgatorio Dante fa qualcosa di meno vistoso ma di altrettanto se non più sorprendente, e cioè comincia il canto con un dialogo tra due personaggi che non conosciamo, che non abbiamo mai incontrato prima:
“Chi è costui che ’l nostro monte cerchia
prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia?”.
“Non so chi sia, ma so che non è solo:
domandal tu che più li t’avvicini,
e dolcemente, sì che parli, acco’lo”.
Questa tecnica è strana e interessante per varie ragioni. Perché nei manoscritti antichi non c’erano le virgolette, quindi non doveva essere immediatamente chiaro, leggendo, che a parlare qui non era l’autore (lo diventa al verso 7, dove Dante riprende la parola e spiega: “Così due spirti”). Perché Dante usa quella che si chiama “tecnica del ritardamento”, cioè introduce i personaggi e li fa parlare, ma aspetta qualche decina di versi prima di dirci chi sono e perché sono lì: lo sapremo soltanto dopo il verso 80, “sappi ch’io son Guido del Duca” e “Questi è Rinier”. E infine perché il lettore moderno è portato ad associare questa tecnica adoperata da Dante al teatro o al cinema piuttosto che alla narrativa: l’apertura della scena sul colloquio di due personaggi, senza bisogno di didascalie introduttive o di una voce fuori campo.
V.
Questo era il primo ostacolo alla lettura e all’apprezzamento della Commedia da parte nostra. È in versi, e i versi ci appaiono oggi come un mezzo poco adatto al racconto, perché sono artificiosi e spesso difficili da capire. È vero, ma abbiamo visto come proprio la risoluzione di problemi formali che nell’età della totale libertà espressiva non si danno più possa contribuire alla bellezza dell’opera e al nostro piacere di lettori.
La Commedia, abbiamo osservato in secondo luogo, è stata scritta molti secoli fa, e tra il mondo di Dante e il nostro le differenze sono molto più numerose delle analogie. E non solo il mondo che Dante descrive, ma anche e soprattutto il mondo come Dante lo pensa: le sue idee sulla religione, la politica, i rapporti tra i sessi e le classi sociali, ci sono ormai quasi del tutto estranee. Vale davvero la pena di ascoltarle?
Quanto a quest’ultimo problema, il problema della nostra distanza ideale da Dante, e soprattutto dalle sue idee intorno alla religione, che incidono così profondamente sulla sua opera, è molto ragionevole quello che ha osservato un grande scrittore del ventesimo secolo che era anche un credente, T.S. Eliot:
Sono convinto che non possiamo permetterci di ignorare le
credenze filosofiche e teologiche di Dante […]; ma penso anche che non
siamo obbligati a crederci […]. È errato pensare che esistano parti
della Commedia interessanti soltanto per i cattolici o i medievalisti. C’è infatti una differenza […] fra la credenza filosofica e l’assenso
poetico […]. Se riusciamo a leggere la poesia come tale, crederemo
nella teologia di Dante esattamente come crediamo nella realtà fisica
del suo viaggio, ovvero sospendiamo sia la credenza che l’incredulità.
Non posso negare che in realtà risulti più facile per un cattolico
cogliere più spesso il significato di quanto lo sia per un agnostico
qualsiasi; ma ciò avviene non perché il cattolico crede, bensì perché è
istruito […]. Non dobbiamo confondere Dante con san Tommaso o viceversa.
Sarebbe un grave errore psicologico. La disponibilità a credere di chi legge la Summa
presuppone un atteggiamento diverso da quella di un lettore di Dante,
anche se si tratta della stessa persona, e anche se questi è un
cattolico (pp. 827-28).
Così la questione è impostata correttamente. Per apprezzare la Commedia non è necessario, in realtà, come supponeva Singleton, condividere le idee di Dante sulla religione: è necessario conoscerle,
e la conoscenza non è un fatto di fede ma un fatto di studio, è il
traguardo a cui si arriva dopo una lunga consuetudine con la cultura
della quale anche Dante si è nutrito. Così, potremmo dire che
un’adeguata, reale comprensione della Commedia potrà essere
impedita, oggi, non dalla mancanza di fede dei suoi lettori, bensì dalla
loro insufficiente erudizione: non è il credere che può fare difetto,
ma il sapere.
D’altra parte, il fatto che Dante appartenga a un’età dell’arte così lontana dalla nostra, che descriva un mondo così lontano da quello che abbiamo sotto gli occhi, può non essere soltanto uno svantaggio. Certo, i personaggi raffigurati nella Commedia sembrano avere un rapporto molto labile con noi. Sono re, imperatori, guerrieri, personaggi della Bibbia, santi come Francesco d’Assisi, eroi presi dalla letteratura come Ulisse; e certo la situazione in cui si trovano, tuffati nell’inferno o illuminati dalla luce di Dio, non si può davvero definire ‘tipica’. Rispecchiarsi in loro non è facile come rispecchiarsi nei protagonisti dei grandi romanzi moderni come Madame Bovary o Raskolnikov o Leopold Bloom. E questo rispecchiamento è arduo soprattutto quando dall’Inferno e dal Purgatorio, che sono ancora così profondamente terrestri nel modo in cui il poeta li rappresenta, passiamo al Paradiso: dato anche che, come ha scritto sempre Eliot, “consapevoli o no, abbiamo un pregiudizio contro la beatitudine in quanto materia di poesia”.
Ma, da un lato, Dante possiede un’immaginazione e una sensibilità così ricche da poter esprimere anche idee ed emozioni che la letteratura del suo tempo non era ancora in grado di esprimere. Ci sono passi, episodi interi della Commedia che parlano a tutti, anche a chi non ha alcun interesse né per la poesia né tantomeno per un’età remota come il medioevo, per la semplice ragione che Dante ha saputo fissare in modo geniale sentimenti che sono realmente universali. Si può essere indifferenti alla letteratura, o cinici, ma è difficile esserlo abbastanza da restare inerti leggendo il discorso di Ulisse ai suoi compagni di viaggio o gli ultimi versi del Paradiso.
Dall’altro lato, ed è il punto più importante, il fatto che la Commedia appartenga a un passato remoto la mette, in un certo senso, al riparo dalle regole del buon gusto, cioè di quello che oggi consideriamo buon gusto. Dante parla di cose di cui la letteratura moderna non può parlare se non cadendo nella magniloquenza o nel kitsch. Chi potrebbe oggi, seriamente, raccontare di come, grazie all’intercessione di San Bernardo e della Vergine Maria, è arrivato a vedere Dio? E chi potrebbe, in un romanzo, mettersi a parlare seriamente del problema della resurrezione della carne, e affermare di poterlo risolvere? E tuttavia queste due chimere, la visione di Dio e la resurrezione, non solo ispirano a Dante alcuni dei versi più belli della Commedia ma, per quanto remote siano dalla nostra esperienza quotidiana, ci interessano e ci commuovono. Se, per scrupolo di realismo, la letteratura può aver superato queste immaginazioni e può averle messe nel repertorio delle cose di cui non è più possibile parlare, noi non le abbiamo superate affatto: sono ancora al centro della nostra fantasia e dei nostri desideri. Ecco il passo (Pd XIV 52-66) in cui Salomone spiega a Dante che rinasceremo col corpo. Per esserne turbati non è necessario crederci, basta pensare a qualcuno che si amava e che si è perduto:
“Ma sì come carbon che fiamma rende,
e per vivo candor quella soverchia,
sì che la sua parvenza si difende
così questo fulgór che già ne cerchia,
fia vinto in apparenza da la carne
che tutto dì la terra ricoperchia;
né potrà tanta luce affaticarne:
ché li organi del corpo saran forti
a tutto ciò che potrà dilettarne”.
Tanto mi parver sùbiti e accorti
e l’uno e l’altro coro a dicer “Amme!”,
che ben mostrar disio de’ corpi morti:
forse non pur per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
anzi che fosser sempiterne fiamme.
E quanto sarebbe ridicolo, oggi, trattare il tema della devozione e dell’amicizia facendo incontrare nell’aldilà due scrittori, uno preso come maestro e l’altro come allievo, che non si sono mai conosciuti, che hanno vissuto addirittura in secoli diversi? Ma la particolare situazione in cui Dante ha saputo calare i suoi personaggi gli permette di dare, di questa allegoria della devozione, una rappresentazione meravigliosamente credibile, cioè – ed è questo uno dei tratti più originali del procedimento di Dante – non di trasfigurare in simbolo un evento o un personaggio reale bensì di rendere realistico un simbolo (Pg XXI 121-36):
Ond’io: “Forse che tu ti maravigli,
antico spirto, del rider ch’io fei;
ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli.
Questi che guida in alto li occhi mei
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forza a cantar de li uomini e d’i dei.
Se cagion altra al mio rider credesti,
lasciala per non vera, ed esser credi
quelle parole che di lui dicesti”.
Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: “Frate,
non far, ché tu sè ombra e ombra vedi”.
Ed ei surgendo: “Or puoi la quanti tate
comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
quand’io dismento nostra vanitate,
trattando l’ombre come cosa salda”.
Insomma, così come per la questione dei versi, il vero passo avanti è capire che anche la distanza temporale, ideale e di gusto può, se colta in maniera adeguata, trasformarsi in un’occasione per ottenere dall’arte ciò che l’arte della nostra epoca non è più in grado di darci.
VI.
Resta il terzo problema, la terza distanza. È forse possibile trovare un “lato buono” nella incomprensibilità di molti passi della Commedia, nell’allusione a libri che non conosciamo, o a circostanze storiche che ci sfuggono? Se dobbiamo proprio leggere un poema antico, perché allora non scegliere l’Odissea, o l’Eneide o i romanzi arturiani, libri che sono anche e soprattutto delle grandi storie, che si possono leggere rilassandosi, ignorando le note, libri che non chiedono un’attenzione costante per decifrare la realtà che sta dietro alle parole? In effetti è così, la Commedia non è un libro come gli altri, un libro di cui si possa fare una lettura “disimpegnata”. Per questa ragione non è ben chiaro a che cosa possano servire le letture pubbliche, a voce alta, di passaggi come questo (Pd VIII 121-35):
Sì venne deducendo infino a quinci;
poscia conchiuse: “Dunque esser diverse
convien di vostri effetti le radici:
per ch’un nasce Solone e altro Serse,
altro Melchisedèch e altro quello
che, volando per l’aere, il figlio perse.
La circular natura, ch’è suggello
a la cera mortal, fa ben sua arte,
ma non distingue l’un da l’altro ostello.
Quinci addivien ch’Esaù si diparte
per seme da Iacòb; e vien Quirino
da sì vil padre, che si rende a Marte.
Cosa può capire il semplice ascoltatore? Ci vogliono tempo e concentrazione per venire a capo di questa decina di versi, cioè non soltanto per sapere chi sono i vari personaggi di cui parla Carlo Martello, personaggi che Dante preleva dalla storia greca, dalla storia romana e dalla Bibbia, ma anche per afferrare il senso del discorso, che riguarda le inclinazioni naturali dell’uomo e che non è per niente semplice. Qui dunque sta la difficoltà: ma, ancora una volta, qui sta anche l’occasione.
Noi siamo abituati a separare con un tratto molto netto il piacere estetico dal piacere che viene dal conoscere. A scuola è persino difficile accettare che quest’ultimo sia un piacere: ci appare piuttosto come un ostacolo, una prova che bisogna superare per poi dedicarsi a cose più utili o riposanti (come, per esempio, dire la nostra opinione su quello che abbiamo letto, o su “quello che davvero voleva dire Dante”). Naturalmente si può leggere la Commedia anche così, disinteressandosi di ciò che non si capisce e lasciandosi cullare dalla bellezza di certi versi, di certe similitudini, o dalla prodigiosa immaginazione di Dante, dalla sua inventiva nella sfera dell’orrido e in quella del sublime. Allo stesso modo, si può benissimo leggere l’Iliade senza sapere niente degli dei greci. Ma nel caso della Commedia il costo è più alto, perché la quantità di cose – nomi, libri, concetti – che Dante riesce a mettere nella storia che sta raccontando è davvero enorme: simile forse soltanto a quella che Joyce riuscirà a mettere nell’Ulisse ma, rispetto a questa, molto più necessaria perché molto più fusa con il racconto. Perdere tutte queste cose è un peccato. E impadronirsene è una meraviglia. Se si legge la Commedia con l’attenzione che richiede, ciò che si ottiene alla fine non sono soltanto l’emozione e il piacere dati dal racconto, un racconto che parla ancora di noi in molti modi inaspettati: lo smarrimento, il senso di colpa, il viaggio coi suoi scenari prodigiosi, il pentimento, la redenzione, la felicità raggiunta… Si ottengono anche l’emozione e il piacere dati dall’imparare: sono due millenni di storia e di libri filtrati dall’intelligenza di Dante – la storia che lui conosceva, i libri che aveva letto, e la sua interpretazione dell’una e degli altri.
Ripeto, questo è un tipo di piacere che non ci è familiare: c’è qualcosa di strano, per il medio lettore di romanzi odierno, in un piacere che implica uno sforzo. Eppure il piacere dell’apprendimento – conoscere cose disparatissime e remote dai nostri interessi attuali attraverso la mediazione di Dante – può essere tanto grande quanto il piacere dell’immaginazione. Spesso si parla della Commedia come di una enciclopedia, una definizione un po’ disgraziata che probabilmente ha l’effetto di respingere il lettore piuttosto che di attrarlo. Ciò che si vuole dire è che nella Commedia si trovano un’infinità di cose che non c’entrano col filo principale del racconto, e che ogni incontro o esperienza vissuta da Dante e raccontata in una manciata di versi ci apre un passaggio verso mondi strani e affascinanti. Naturalmente, le biblioteche sono piene di libri che parlano di altri mondi o di altri libri, e non per questo la loro lettura risulta particolarmente appagante. Per spiegare in che modo la Commedia si distingue da questi libri possiamo provare a leggere questi versi (If XXVIII 55-63):
“Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedra’ il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve”.
Poi che l’un piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola:
indi a partirsi in terra lo distese.
È un passo molto semplice, e non particolarmente notevole dal punto di vista poetico. È una di quelle predizioni che le anime fanno a Dante: le cose andranno in questo o quest’altro modo, qualcuno (qualcuno che mentre l’anima parla è ancora vivo, lo stesso Dante a volte) subirà questo o quest’altro destino… Naturalmente, Dante-scrittore, che ambienta il racconto della Commedia nell’anno 1300, va a colpo sicuro perché sa già come sono andate le cose: quando il suo avo Cacciaguida gli predice che andrà in esilio, Dante è già in esilio; quando Ugo Capeto profetizza a Dante-personaggio lo schiaffo di Anagni, quell’evento ha già avuto luogo quando Dante scrive, eccetera. Ora, nello spazio immaginario dell’aldilà non c’è distinzione di epoche o di luoghi: a parte Dante, quelli che parlano sono tutti morti, e così Dante-personaggio viaggia liberamente nella storia e nella geografia umana incontrando ora un eroe della Grecia antica, ora un poeta latino del primo secolo, ora il primo re di Francia.
Qui siamo nel girone degli scismatici, e Dante parla con Maometto (570-632). Perché mai Maometto, il profeta dell’Islam, sta tra gli scismatici? Perché le informazioni che Dante aveva su questo personaggio erano molto più scarse delle nostre, e perché Dante non aveva alcuna sensibilità o tolleranza nei confronti delle religioni che non erano il cristianesimo. In sostanza, Dante e i suoi contemporanei pensavano che l’Islam fosse semplicemente un’eresia nata in seno al cristianesimo, e che Maometto fosse stato, come scrive Brunetto Latini nel Tresor, un monaco che aveva voltato le spalle alla vera fede. Così, chi legge questi versi (con l’aiuto di un buon commento) non soltanto si ricorda di chi era Maometto ma impara anche che Maometto non è stato sempre lo stesso personaggio attraverso i secoli, e che epoche diverse possono avere idee diverse a proposito dei medesimi eventi storici, a seconda non solo delle informazioni che ne hanno ma anche e soprattutto dell’orizzonte d’idee e credenze nel quale queste informazioni vengono calate.
Dato che il tempo umano non conta nell’aldilà di Dante, a parlare della sorte di fra Dolcino (circa 1250-1307) può essere non un suo contemporaneo ma Maometto, cioè un uomo vissuto sette secoli prima di lui – la stessa distanza che separa noi da Dante – in tutt’altra parte del globo. Dolcino era un cristiano, come Dante. Predicava la povertà, la disobbedienza alle gerarchie ecclesiastiche, il ritorno alla vita semplice dei primi discepoli di Cristo. A considerarle oggi, le sue idee non sembrano tanto diverse dalle idee che Dante esprime spesso nella Commedia. Eppure Dante sta dalla parte dell’ortodossia, della Chiesa (e di quel Clemente V che, nella previsione e nell’augurio di Dante, finirà anche lui dannato); e destina Dolcino all’inferno: “Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi, / … / s’ello non vuol qui tosto seguitarmi”, dice Maometto. Si noti: Dolcino non è presente sulla scena, viene soltanto evocato da Maometto. Dante ha voluto citarlo, ha voluto dire che sarebbe finito all’inferno e, dato che non era ancora morto nel momento in cui si svolge l’azione del poema, si è inventato questa profezia.
Dante aveva ragione? Dolcino meritava il rogo in terra e la dannazione nell’aldilà? Oggi nessuno penserebbe una cosa del genere. Abbiamo imparato ad accettare, anzi quasi ad ammirare queste figure di settari un po’ folli, pronti a farsi uccidere in nome di una loro personale idea della vita e della religione. Anche in questo caso, come per Maometto, noi oggi la pensiamo diversamente da Dante: il tempo e il progresso delle ricerche ha modificato non soltanto le nostre conoscenze intorno a quei fatti ma anche il nostro modo di giudicarli.
Così è chiara la differenza tra la Commedia e l’enciclopedia. L’enciclopedia si sforza di darci un’informazione oggettiva sui fatti e sulle persone, e nei limiti del possibile non li giudica. Nella Commedia noi vediamo i fatti e i personaggi storici attraverso gli occhi di Dante: è molto difficile riuscire a separare “le cose così come sono andate” da ciò che Dante ne sapeva e da ciò che Dante ne pensava. E tutto questo – questa parzialità, questo giudizio spesso arbitrario, capriccioso che è implicato nel racconto, e che si scontra con la nostra parzialità, col nostro modo di vedere le cose – è molto interessante.
Mi rendo conto che come finale è un po’ moscio, specie per il web, che ama le interiezioni, ma questo in sostanza è quanto volevo dire. La Commediaè un libro molto difficile (e a volte noioso) perché è scritto in versi, perché parla di un mondo remoto dal nostro e perché lo fa usando un linguaggio spesso oscuro; ma se si affrontano e si superano queste difficoltà si riceve in premio la possibilità di entrare in una delle menti più affascinanti nella storia dell’umanità (che sarebbe meglio evitare di chiamare “Sommo Poeta”: sono etichette sciocche), di vedere il mondo coi suoi occhi e la sua intelligenza e di leggere alcuni dei versi più belli della nostra letteratura. È più di quel che meritiamo.
D’altra parte, il fatto che Dante appartenga a un’età dell’arte così lontana dalla nostra, che descriva un mondo così lontano da quello che abbiamo sotto gli occhi, può non essere soltanto uno svantaggio. Certo, i personaggi raffigurati nella Commedia sembrano avere un rapporto molto labile con noi. Sono re, imperatori, guerrieri, personaggi della Bibbia, santi come Francesco d’Assisi, eroi presi dalla letteratura come Ulisse; e certo la situazione in cui si trovano, tuffati nell’inferno o illuminati dalla luce di Dio, non si può davvero definire ‘tipica’. Rispecchiarsi in loro non è facile come rispecchiarsi nei protagonisti dei grandi romanzi moderni come Madame Bovary o Raskolnikov o Leopold Bloom. E questo rispecchiamento è arduo soprattutto quando dall’Inferno e dal Purgatorio, che sono ancora così profondamente terrestri nel modo in cui il poeta li rappresenta, passiamo al Paradiso: dato anche che, come ha scritto sempre Eliot, “consapevoli o no, abbiamo un pregiudizio contro la beatitudine in quanto materia di poesia”.
Ma, da un lato, Dante possiede un’immaginazione e una sensibilità così ricche da poter esprimere anche idee ed emozioni che la letteratura del suo tempo non era ancora in grado di esprimere. Ci sono passi, episodi interi della Commedia che parlano a tutti, anche a chi non ha alcun interesse né per la poesia né tantomeno per un’età remota come il medioevo, per la semplice ragione che Dante ha saputo fissare in modo geniale sentimenti che sono realmente universali. Si può essere indifferenti alla letteratura, o cinici, ma è difficile esserlo abbastanza da restare inerti leggendo il discorso di Ulisse ai suoi compagni di viaggio o gli ultimi versi del Paradiso.
Dall’altro lato, ed è il punto più importante, il fatto che la Commedia appartenga a un passato remoto la mette, in un certo senso, al riparo dalle regole del buon gusto, cioè di quello che oggi consideriamo buon gusto. Dante parla di cose di cui la letteratura moderna non può parlare se non cadendo nella magniloquenza o nel kitsch. Chi potrebbe oggi, seriamente, raccontare di come, grazie all’intercessione di San Bernardo e della Vergine Maria, è arrivato a vedere Dio? E chi potrebbe, in un romanzo, mettersi a parlare seriamente del problema della resurrezione della carne, e affermare di poterlo risolvere? E tuttavia queste due chimere, la visione di Dio e la resurrezione, non solo ispirano a Dante alcuni dei versi più belli della Commedia ma, per quanto remote siano dalla nostra esperienza quotidiana, ci interessano e ci commuovono. Se, per scrupolo di realismo, la letteratura può aver superato queste immaginazioni e può averle messe nel repertorio delle cose di cui non è più possibile parlare, noi non le abbiamo superate affatto: sono ancora al centro della nostra fantasia e dei nostri desideri. Ecco il passo (Pd XIV 52-66) in cui Salomone spiega a Dante che rinasceremo col corpo. Per esserne turbati non è necessario crederci, basta pensare a qualcuno che si amava e che si è perduto:
“Ma sì come carbon che fiamma rende,
e per vivo candor quella soverchia,
sì che la sua parvenza si difende
così questo fulgór che già ne cerchia,
fia vinto in apparenza da la carne
che tutto dì la terra ricoperchia;
né potrà tanta luce affaticarne:
ché li organi del corpo saran forti
a tutto ciò che potrà dilettarne”.
Tanto mi parver sùbiti e accorti
e l’uno e l’altro coro a dicer “Amme!”,
che ben mostrar disio de’ corpi morti:
forse non pur per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
anzi che fosser sempiterne fiamme.
E quanto sarebbe ridicolo, oggi, trattare il tema della devozione e dell’amicizia facendo incontrare nell’aldilà due scrittori, uno preso come maestro e l’altro come allievo, che non si sono mai conosciuti, che hanno vissuto addirittura in secoli diversi? Ma la particolare situazione in cui Dante ha saputo calare i suoi personaggi gli permette di dare, di questa allegoria della devozione, una rappresentazione meravigliosamente credibile, cioè – ed è questo uno dei tratti più originali del procedimento di Dante – non di trasfigurare in simbolo un evento o un personaggio reale bensì di rendere realistico un simbolo (Pg XXI 121-36):
Ond’io: “Forse che tu ti maravigli,
antico spirto, del rider ch’io fei;
ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli.
Questi che guida in alto li occhi mei
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forza a cantar de li uomini e d’i dei.
Se cagion altra al mio rider credesti,
lasciala per non vera, ed esser credi
quelle parole che di lui dicesti”.
Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: “Frate,
non far, ché tu sè ombra e ombra vedi”.
Ed ei surgendo: “Or puoi la quanti tate
comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
quand’io dismento nostra vanitate,
trattando l’ombre come cosa salda”.
Insomma, così come per la questione dei versi, il vero passo avanti è capire che anche la distanza temporale, ideale e di gusto può, se colta in maniera adeguata, trasformarsi in un’occasione per ottenere dall’arte ciò che l’arte della nostra epoca non è più in grado di darci.
VI.
Resta il terzo problema, la terza distanza. È forse possibile trovare un “lato buono” nella incomprensibilità di molti passi della Commedia, nell’allusione a libri che non conosciamo, o a circostanze storiche che ci sfuggono? Se dobbiamo proprio leggere un poema antico, perché allora non scegliere l’Odissea, o l’Eneide o i romanzi arturiani, libri che sono anche e soprattutto delle grandi storie, che si possono leggere rilassandosi, ignorando le note, libri che non chiedono un’attenzione costante per decifrare la realtà che sta dietro alle parole? In effetti è così, la Commedia non è un libro come gli altri, un libro di cui si possa fare una lettura “disimpegnata”. Per questa ragione non è ben chiaro a che cosa possano servire le letture pubbliche, a voce alta, di passaggi come questo (Pd VIII 121-35):
Sì venne deducendo infino a quinci;
poscia conchiuse: “Dunque esser diverse
convien di vostri effetti le radici:
per ch’un nasce Solone e altro Serse,
altro Melchisedèch e altro quello
che, volando per l’aere, il figlio perse.
La circular natura, ch’è suggello
a la cera mortal, fa ben sua arte,
ma non distingue l’un da l’altro ostello.
Quinci addivien ch’Esaù si diparte
per seme da Iacòb; e vien Quirino
da sì vil padre, che si rende a Marte.
Cosa può capire il semplice ascoltatore? Ci vogliono tempo e concentrazione per venire a capo di questa decina di versi, cioè non soltanto per sapere chi sono i vari personaggi di cui parla Carlo Martello, personaggi che Dante preleva dalla storia greca, dalla storia romana e dalla Bibbia, ma anche per afferrare il senso del discorso, che riguarda le inclinazioni naturali dell’uomo e che non è per niente semplice. Qui dunque sta la difficoltà: ma, ancora una volta, qui sta anche l’occasione.
Noi siamo abituati a separare con un tratto molto netto il piacere estetico dal piacere che viene dal conoscere. A scuola è persino difficile accettare che quest’ultimo sia un piacere: ci appare piuttosto come un ostacolo, una prova che bisogna superare per poi dedicarsi a cose più utili o riposanti (come, per esempio, dire la nostra opinione su quello che abbiamo letto, o su “quello che davvero voleva dire Dante”). Naturalmente si può leggere la Commedia anche così, disinteressandosi di ciò che non si capisce e lasciandosi cullare dalla bellezza di certi versi, di certe similitudini, o dalla prodigiosa immaginazione di Dante, dalla sua inventiva nella sfera dell’orrido e in quella del sublime. Allo stesso modo, si può benissimo leggere l’Iliade senza sapere niente degli dei greci. Ma nel caso della Commedia il costo è più alto, perché la quantità di cose – nomi, libri, concetti – che Dante riesce a mettere nella storia che sta raccontando è davvero enorme: simile forse soltanto a quella che Joyce riuscirà a mettere nell’Ulisse ma, rispetto a questa, molto più necessaria perché molto più fusa con il racconto. Perdere tutte queste cose è un peccato. E impadronirsene è una meraviglia. Se si legge la Commedia con l’attenzione che richiede, ciò che si ottiene alla fine non sono soltanto l’emozione e il piacere dati dal racconto, un racconto che parla ancora di noi in molti modi inaspettati: lo smarrimento, il senso di colpa, il viaggio coi suoi scenari prodigiosi, il pentimento, la redenzione, la felicità raggiunta… Si ottengono anche l’emozione e il piacere dati dall’imparare: sono due millenni di storia e di libri filtrati dall’intelligenza di Dante – la storia che lui conosceva, i libri che aveva letto, e la sua interpretazione dell’una e degli altri.
Ripeto, questo è un tipo di piacere che non ci è familiare: c’è qualcosa di strano, per il medio lettore di romanzi odierno, in un piacere che implica uno sforzo. Eppure il piacere dell’apprendimento – conoscere cose disparatissime e remote dai nostri interessi attuali attraverso la mediazione di Dante – può essere tanto grande quanto il piacere dell’immaginazione. Spesso si parla della Commedia come di una enciclopedia, una definizione un po’ disgraziata che probabilmente ha l’effetto di respingere il lettore piuttosto che di attrarlo. Ciò che si vuole dire è che nella Commedia si trovano un’infinità di cose che non c’entrano col filo principale del racconto, e che ogni incontro o esperienza vissuta da Dante e raccontata in una manciata di versi ci apre un passaggio verso mondi strani e affascinanti. Naturalmente, le biblioteche sono piene di libri che parlano di altri mondi o di altri libri, e non per questo la loro lettura risulta particolarmente appagante. Per spiegare in che modo la Commedia si distingue da questi libri possiamo provare a leggere questi versi (If XXVIII 55-63):
“Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedra’ il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve”.
Poi che l’un piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola:
indi a partirsi in terra lo distese.
È un passo molto semplice, e non particolarmente notevole dal punto di vista poetico. È una di quelle predizioni che le anime fanno a Dante: le cose andranno in questo o quest’altro modo, qualcuno (qualcuno che mentre l’anima parla è ancora vivo, lo stesso Dante a volte) subirà questo o quest’altro destino… Naturalmente, Dante-scrittore, che ambienta il racconto della Commedia nell’anno 1300, va a colpo sicuro perché sa già come sono andate le cose: quando il suo avo Cacciaguida gli predice che andrà in esilio, Dante è già in esilio; quando Ugo Capeto profetizza a Dante-personaggio lo schiaffo di Anagni, quell’evento ha già avuto luogo quando Dante scrive, eccetera. Ora, nello spazio immaginario dell’aldilà non c’è distinzione di epoche o di luoghi: a parte Dante, quelli che parlano sono tutti morti, e così Dante-personaggio viaggia liberamente nella storia e nella geografia umana incontrando ora un eroe della Grecia antica, ora un poeta latino del primo secolo, ora il primo re di Francia.
Qui siamo nel girone degli scismatici, e Dante parla con Maometto (570-632). Perché mai Maometto, il profeta dell’Islam, sta tra gli scismatici? Perché le informazioni che Dante aveva su questo personaggio erano molto più scarse delle nostre, e perché Dante non aveva alcuna sensibilità o tolleranza nei confronti delle religioni che non erano il cristianesimo. In sostanza, Dante e i suoi contemporanei pensavano che l’Islam fosse semplicemente un’eresia nata in seno al cristianesimo, e che Maometto fosse stato, come scrive Brunetto Latini nel Tresor, un monaco che aveva voltato le spalle alla vera fede. Così, chi legge questi versi (con l’aiuto di un buon commento) non soltanto si ricorda di chi era Maometto ma impara anche che Maometto non è stato sempre lo stesso personaggio attraverso i secoli, e che epoche diverse possono avere idee diverse a proposito dei medesimi eventi storici, a seconda non solo delle informazioni che ne hanno ma anche e soprattutto dell’orizzonte d’idee e credenze nel quale queste informazioni vengono calate.
Dato che il tempo umano non conta nell’aldilà di Dante, a parlare della sorte di fra Dolcino (circa 1250-1307) può essere non un suo contemporaneo ma Maometto, cioè un uomo vissuto sette secoli prima di lui – la stessa distanza che separa noi da Dante – in tutt’altra parte del globo. Dolcino era un cristiano, come Dante. Predicava la povertà, la disobbedienza alle gerarchie ecclesiastiche, il ritorno alla vita semplice dei primi discepoli di Cristo. A considerarle oggi, le sue idee non sembrano tanto diverse dalle idee che Dante esprime spesso nella Commedia. Eppure Dante sta dalla parte dell’ortodossia, della Chiesa (e di quel Clemente V che, nella previsione e nell’augurio di Dante, finirà anche lui dannato); e destina Dolcino all’inferno: “Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi, / … / s’ello non vuol qui tosto seguitarmi”, dice Maometto. Si noti: Dolcino non è presente sulla scena, viene soltanto evocato da Maometto. Dante ha voluto citarlo, ha voluto dire che sarebbe finito all’inferno e, dato che non era ancora morto nel momento in cui si svolge l’azione del poema, si è inventato questa profezia.
Dante aveva ragione? Dolcino meritava il rogo in terra e la dannazione nell’aldilà? Oggi nessuno penserebbe una cosa del genere. Abbiamo imparato ad accettare, anzi quasi ad ammirare queste figure di settari un po’ folli, pronti a farsi uccidere in nome di una loro personale idea della vita e della religione. Anche in questo caso, come per Maometto, noi oggi la pensiamo diversamente da Dante: il tempo e il progresso delle ricerche ha modificato non soltanto le nostre conoscenze intorno a quei fatti ma anche il nostro modo di giudicarli.
Così è chiara la differenza tra la Commedia e l’enciclopedia. L’enciclopedia si sforza di darci un’informazione oggettiva sui fatti e sulle persone, e nei limiti del possibile non li giudica. Nella Commedia noi vediamo i fatti e i personaggi storici attraverso gli occhi di Dante: è molto difficile riuscire a separare “le cose così come sono andate” da ciò che Dante ne sapeva e da ciò che Dante ne pensava. E tutto questo – questa parzialità, questo giudizio spesso arbitrario, capriccioso che è implicato nel racconto, e che si scontra con la nostra parzialità, col nostro modo di vedere le cose – è molto interessante.
Mi rendo conto che come finale è un po’ moscio, specie per il web, che ama le interiezioni, ma questo in sostanza è quanto volevo dire. La Commediaè un libro molto difficile (e a volte noioso) perché è scritto in versi, perché parla di un mondo remoto dal nostro e perché lo fa usando un linguaggio spesso oscuro; ma se si affrontano e si superano queste difficoltà si riceve in premio la possibilità di entrare in una delle menti più affascinanti nella storia dell’umanità (che sarebbe meglio evitare di chiamare “Sommo Poeta”: sono etichette sciocche), di vedere il mondo coi suoi occhi e la sua intelligenza e di leggere alcuni dei versi più belli della nostra letteratura. È più di quel che meritiamo.
Iscriviti a:
Post (Atom)