Perché uno dovrebbe leggere Dante?
Qualche tempo fa ho scritto questo saggio e l’ho pubblicato su
una rivista accademica che si chiama Nuova rivista di letteratura
italiana. Ma dato che la Commedia a scuola finiscono per
leggerla (a pezzettini) quasi tutti, forse la domanda a cui tentavo di
rispondere è di quelle che possono interessare anche un pubblico più
largo – un pubblico di studenti, soprattutto (era agli studenti di
scuola che pensavo, quando l’ho scritto: è molto lungo per la rete,
45.000 caratteri, tanti da scoraggiare molti lettori, ma è abbastanza
semplice, direi, e non richiede tante, come si dice, pre-cognizioni).
Così provo a ripubblicarlo qui, con qualche taglio e semplificazione.
S’intende che la risposta è del tutto personale, non ha niente di
scientifico (la scienza non c’entra molto, in queste cose): ma ho
cercato di argomentarla (e, lo dico per invogliare alla lettura, alla
perseveranza, ho anche cercato di citare alcuni dei versi più belli
della Commedia,versi forse non tanto noti).
Prima di dire quali sono le ragioni per cui ha ancora senso leggere, oggi, la Commedia, diamo un’occhiata alle ragioni che sembrerebbero suggerire la conclusione opposta, e cioè che la Commedia
ha fatto il suo tempo ed è ormai – se appena riusciamo a liberarci da
tutta la retorica che abbiamo assorbito a scuola – una lettura per
eruditi alla stregua, poniamo, dell’illeggibile Roman de la Rose o di tanti altri vecchi libri che fingiamo di amare perché ci hanno detto che è indispensabile amarli.
I.
Prima ragione che può scoraggiare la lettura. La Commedia è in versi, è un racconto in versi: e noi oggi tendiamo a pensare che i versi vadano bene per la poesia lirica (che del resto leggiamo sempre meno) o per le canzoni ma certamente non per i racconti lunghi. Per i racconti lunghi c’è la prosa. Esistono anche poeti contemporanei che hanno provato a raccontare una storia in versi, centinaia o migliaia di versi, ma sono eccezioni, e quasi mai eccezioni felici. Ci sono poche idee sulla letteratura più veritiere di quella di Poe secondo cui le poesie dovrebbero essere abbastanza brevi da stare su una sola pagina, così da poter essere lette tutte in una volta, senza interruzioni: a distanza di un secolo e mezzo questo è ancora il nostro punto di vista, e tutto lascia credere che le cose non cambieranno, che nessun brillante futuro attende il genere “poema”. Insomma, la Commedia è scritta in un modo artificiale, e questo artificio – anzi, questa somma di artifici: non soltanto il verso ma anche la rima, la disposizione “innaturale” delle parole, e insomma tutto ciò che rende poesia la poesia – è ormai irrimediabilmente lontano dalle nostre abitudini e dai nostri gusti.
II.
Seconda ragione. La Commedia è stata scritta sette secoli fa. Com’è cambiata la vita da allora! E soprattutto: com’è cambiata la vita in quest’ultimo secolo! Non è forse vero che tra il mondo di Dante e quello dei nostri bisavoli o trisavoli, all’inizio del Novecento, c’è meno differenza di quanta ce ne sia tra questo mondo di “appena ieri” e il nostro mondo, oggi? Non hanno forse, la scienza e la tecnica, trasformato così radicalmente il paesaggio da rendere quasi imparagonabili questi orizzonti d’esperienza?
Molte delle cose che Dante descrive non sono più le cose che noi abbiamo davanti agli occhi. L’idea dell’esistenza che aveva non è più la nostra. Dante ha vissuto in un mondo i cui confini coincidevano praticamente con quelli dell’Europa centro-meridionale, un mondo nel quale le forze politiche più importanti erano l’impero tedesco e il papato. Al centro del cosmo stava, per lui, il pianeta Terra, con gli altri pianeti e col sole a girarle intorno. Non c’è cosa che sia rimasta intatta, da allora. E non si tratta soltanto dei massimi sistemi, ma anche della quotidiana esperienza della vita. Quando leggiamo i primi versi della Commedia, “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura”, dobbiamo fare un grosso sforzo per immaginare la paura che poteva avere un viandante che, nell’anno 1300, si fosse perduto in una di quelle foreste che cominciavano appena fuori dalle mura delle città e che erano davvero aspre, selvagge, e popolate da animali feroci. Molti dei lettori odierni della Commedia hanno a malapena visto un bosco, e lo hanno visto di giorno, camminando lungo un sentiero segnato. Smarrirsi ha, per loro, un significato molto diverso, molto meno sinistro, di quello che poteva avere per un lettore del tempo di Dante (ma mi è capitato di leggere questi versi dell’Inferno in Islanda, un pomeriggio d’inverno, col buio e il freddo fuori, e il deserto di lava a qualche centinaio di metri dal campus dell’università: li leggevo ad alta voce davanti ad alcuni studenti e posso assicurare che l’effetto era diverso rispetto a quello che si ottiene leggendoli in una scuola del centro di Roma o di Milano in una placida mattina di primavera: laggiù non ci sono selve, ma l’oscurità e la desolazione sì, e smarrirsi può ancora voler dire morire).
Si potrebbe dire che, durante i sette secoli che ci separano da Dante, sono rimaste intatte alcune fondamentali istanze umane: l’amore, l’odio, il dolore, la paura della morte… Questo è senz’altro vero, e ne parleremo più avanti. Ma consideriamo per esempio una delle più importanti fra queste istanze: la fede, la religione. Possiamo forse dire che, sotto questo aspetto, il nostro universo corrisponde ancora, almeno nelle sue linee essenziali, a quello di Dante? Dante credeva alla verità storica della Bibbia. Noi, o almeno la gran parte di noi, non ci crediamo. La fede di Dante non ha incertezze né incrinature: egli non è soltanto sicuro dell’esistenza di Dio ma è convinto di avere, con la sfera del divino, un rapporto privilegiato: è il tema che emerge a ogni passo della Vita nova e della Commedia. In linea di massima, le donne e gli uomini di oggi vivono la fede con molto più distacco: anche se sono religiosi, il peso che la religione ha nelle loro vite e nelle loro idee, opinioni, sentimenti, è molto inferiore al peso che la religione poteva avere per un cristiano del tempo di Dante. Non è dunque eccessivo dire che per questi lettori, per noi lettori di oggi, la Commedia ha cessato di essere vera. Non nel senso che noi non crediamo più alla verità del viaggio che Dante avrebbe fatto nell’aldilà: è chiaro, era già chiaro per i lettori del suo tempo che si tratta di un’invenzione, così come sono invenzioni quelle di Omero, di Shakespeare, di Cervantes. Non è più vera nel senso che la visione del mondo che si esprime nella Commedia – la dottrina, i dogmi, l’idea della Provvidenza che pervade ogni azione di Dante-personaggio e ogni affermazione di Dante-poeta – ci è diventata estranea. Si pone insomma – e si è posto in realtà a partire dal Rinascimento, e poi più decisamente da due secoli a questa parte – il problema della lettura di un’opera fortemente ideologica come la Commedia all’interno di una società come la nostra, che ha in buona misura superato quell’ideologia, che si è secolarizzata.
Ma, si potrebbe obiettare, qualcosa del genere non si può dire di tutti i libri scritti nell’antichità, o nel medioevo, o… A che punto fermarsi? Da quando la letteratura comincia davvero a parlare di noi? È del tutto normale che un lettore di oggi trovi estranee alle sue idee e ai suoi gusti le opere del passato. Sono state concepite secondo canoni estetici diversi dai nostri, rispecchiano una visione del mondo che non può corrispondere alla nostra: per capirle, per farle parlare, dobbiamo cercare di avvicinarci a quella visione del mondo e a quelle consuetudini estetiche, e accettare per esempio che un racconto lungo possa essere scritto in versi e non in prosa, o che i suoi personaggi possano essere figure fantastiche come mostri, fate, dei, oppure che i cieli dei dipinti – perché naturalmente c’è una storia della pittura così come c’è una storia della letteratura – possano essere, anziché celesti, dorati.
Ma oltre a questa difficoltà, che condivide con tutte le opere d’arte del passato, la Commedia ne presenta una specifica. Gli autori di opere come il Roman de la Rose o l’Orlando furioso o il Don Chisciotte hanno un modo di vedere la realtà ovviamente molto diverso dal nostro. Ma ciò che ci sta a cuore e che stimola il nostro interesse, quando li leggiamo, è il racconto, la trama, il corso degli eventi, e questo – la curiosità di sapere se il protagonista del racconto conquisterà la rosa, che cosa faranno Orlando e Rinaldo, come se la caverà Don Chisciotte nella prossima avventura – ci aiuta a superare la distanza che separa la nostra visione del mondo dalla visione del mondo di quegli scrittori, e a disinteressarci dell’implausibilità delle cose che ci stanno raccontando: sono storie, un po’ più strane di quelle che racconteranno i romanzieri realisti a partire dal Settecento, ma storie che ci possono divertire, interessare, commuovere, e nelle quali ci possiamo rispecchiare, anche se con uno sforzo molto maggiore di quello che ci verrà richiesto più tardi da Balzac o da Proust.
Ma ecco la differenza. Nella Commedia, la prospettiva sulle cose è importante almeno quanto le cose stesse. Dante-autore è sempre in campo, la sua visione del mondo, che è così diversa dalla nostra, viene sempre sollecitata. Non veniamo lasciati soli neanche per un attimo, non possiamo mai abbandonarci all’ascolto della storia: ogni rappresentazione cela un concetto. In altre parole, nella Commedia c’è una dimensione dottrinale, teoretica che nelle altre grandi opere della narrativa premoderna non c’è, e questa dottrina non è qualcosa che si possa separare facilmente dal racconto: perché il racconto non è fine a se stesso come nel Roman de la Rose o nel Furioso o nel Don Chisciotte ma è funzionale a una dimostrazione, mira a istruire e a persuadere piuttosto che a intrattenere, ed è pieno di faticosi passaggi nei quali i vari commi della dimostrazione vengono illustrati, come in un trattato filosofico o, per l’appunto, teologico.
Esiste una storia della ricezione delle opere: ogni età vede nell’arte del passato qualcosa di un po’ diverso rispetto a ciò che vi vedeva l’età precedente. Ciò risulta chiarissimo se si riflette sulla fortuna e sulla sfortuna, attraverso i secoli, di autori oggi considerati sommi come Dante o Shakespeare o Caravaggio. Nella lettera a Cangrande della Scala leggiamo che il soggetto della Commedia è “lo stato delle anime dopo la morte” (§ 24). Un’opinione simile appare a noi oggi troppo riduttiva. La Commedia è ben altro che questo. Ha scritto uno dei maggiori studiosi di Dante, Bruno Nardi:
In realtà il senso letterale di tutto il poema è un altro, e cioè il viaggio, il “fatale andare” di Dante, smarrito, attraverso l’Inferno e il Purgatorio fino alla selva antica del Paradiso terrestre […], e quindi l’ascesa attraverso le sfere celesti […]. E in questo viaggio e in questa ascesa Dante porta con sé il suo ‘stato civile’ con tutta la sua ricca umanità, con tutte le sue aspirazioni personali, letterarie, politiche, morali e religiose, sì che il pronome personale io risuona dal secondo al terz’ultimo verso della Commedia. […] Questo, sì, è il senso letterale del poema ed è il solo che veramente ci commuova sino a farci trasalire. Ed è proprio questo che sta sullo stomaco al teologo [cioè all’estensore della lettera, che non sarebbe Dante] che sub lectoris officio s’è proposto di svalutarlo, riducendolo a semplice finzione poetica.
Oggi non facciamo fatica a condividere l’opinione di Nardi secondo cui il soggetto della Commedia non è tanto l’aldilà, la teologia volgarizzata da Dante, quanto l’esistenza di Dante, l’esistenza umana in generale, osservata dalla specola dell’eterno. Tuttavia, sia stata o non sia stata scritta da Dante, la lettera a Cangrande ci mostra in che modo la Commedia poteva essere letta nel quattordicesimo secolo e ci dice come allora fosse cruciale proprio quella dimensione dottrinale – lo stato delle anime dopo la morte – che il lettore odierno considera secondaria (secondo questa prospettiva, ha scritto sempre Nardi, la Commedia non sarebbe che “un barboso trattato teologico sull’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso”). Del resto è soprattutto sulla dottrina, e non tanto sul puro racconto o sulla dimensione autobiografica, che si concentrarono le attenzioni e le critiche dei contemporanei: sulle profezie, sul problema della visione, sulle libertà che Dante si prende nell’immaginare la durata e i modi delle pene. E non mancava tra i primi commentatori chi, come Guido da Pisa, difendeva apertamente l’idea di Dante profeta, visitato dallo Spirito Santo, mentre oggi pochi credono davvero che Dante si sia messo all’opera perché ispirato dal cielo.
Quali conseguenze ha un simile mutamento di prospettiva? Charles Singleton ha sostenuto che proprio “l’indifferenza alla salvezza” che è caratteristica di noi moderni c’impedisce ormai di avere una comprensione adeguata dell’opera di Dante. “Il fatto è”, scrive, “che siamo arrivati al limite cui era possibile arrivare nella tendenza a minimizzare o a escludere dall’attenzione i più profondi significati cristiani della Commedia”. In altre parole, così come la Bibbia o il Corano significano qualcosa per un lettore cristiano o un per lettore musulmano e qualcos’altro – qualcosa di meno – per un lettore che non creda alla verità né dell’una né dell’altro, allo stesso modo si potrebbe dire che, dal momento che non siamo più in grado di dare alla Commedia il valore teologico e profetico che la Commedia aveva in origine, anche il nostro apprezzamento dell’opera risulta almeno in parte compromesso.
È così? O si può pensare che questo mutamento di mentalità (che riguarda, ripeto, ogni opera d’arte antica ma in particolare quelle che, come la Commedia, hanno un preponderante contenuto di pensiero), anziché essere dannoso per il nostro gradimento e la nostra comprensione dell’opera, ci apra nuove vie, nuove possibilità di lettura?
III.
Terza ragione di lontananza. La Commedia non soltanto parla di cose che sono molto lontane dalla nostra esperienza, così come molti capolavori del passato (la guerra sotto le mura della città di Troia, il viaggio di un eroe che è destinato a fondare Roma, le avventure di un pazzo che si crede un cavaliere errante), ma ne parla anche in maniera terribilmente complicata. La Commedia è forse l’unica grande opera letteraria occidentale che non può essere letta senza un commento o senza avere accanto una buona enciclopedia. Prendiamo la mitologia. Anche i poemi latini e greci erano pieni di strani e spesso oscuri riferimenti al mito, ma bisogna supporre che quei miti fossero moneta corrente per molti lettori del tempo: un codice condiviso, se non un credo condiviso. Nel momento in cui Dante scrive versi come questi (Pd VIII 1-8):
Solea creder lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
raggiasse, volta nel terzo epiciclo;
per che non pur a lei facieno onore
di sacrificio e di votivo grido
le genti antiche ne l’antico errore;
ma Dïone onoravano e Cupido,
quella per madre sua, questo per figlio
è passato quasi un millennio da quando il pantheon greco-romano è stato sostituito dalla Trinità cristiana: soltanto chi conosceva alla perfezione la mitologia classica, i poemi classici, aveva qualche speranza di orientarsi, da solo, tra questi nomi. Per questa ragione, e anche questo è un caso unico nella storia della letteratura occidentale, si pensò subito di non lasciare da soli i lettori, e pochi anni dopo la morte di Dante si cominciarono a scrivere eruditissimi commenti, simili a quelli che si erano scritti per opere molto lontane nello spazio e nel tempo, e appartenenti a generi molto diversi come i libri della Bibbia o i trattati di Aristotele.
Non basta: perché l’enciclopedia che serve per leggere Omero o le Metamorfosi di Ovidio rischia di non essere sufficiente per la Commedia. Prendiamo per esempio questi versi (If XXI 37-49):
Del nostro ponte disse: “O Malebranche,
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche
a quella terra, che n’è ben fornita:
ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita”.
Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.
Quel s’attuffò, e tornò su convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: “Qui non ha loco il Santo Volto!
Qui si nuota altrimenti che nel Serchio!”.
Questa è storia contemporanea, anzi è cronaca: vi si parla di una città che non è mai esplicitamente nominata (che si tratti di Lucca lo apprendiamo dai commenti) e si citano cose e personaggi (il Santo Volto, Bonturo) intorno ai quali molto difficilmente un lettore che non fosse lucchese poteva essere informato. Ora, anche scrittori latini come Lucano o come Stazio avevano raccontato la storia del loro tempo. Ma la loro era la grande storia degli imperi, non la cronaca di una minuscola cittadina. In più, nel momento in cui raccontano le loro storie Lucano e Stazio mettono il lettore nella condizione di capire bene quello che stanno dicendo, spiegano gli antefatti, le cause degli eventi, ci fanno conoscere da vicino i protagonisti (Pharsalia I 67-69): “Fert animus causas tantarum expromere rerum / immensumque aperitur opus, quid in arma furentem / impulerit populum, quid pacem excusserit orbi” (”L’animo mi porta a esporre le cause di avvenimenti tanto gravi: / viene così a spalancarsi un’opera smisurata per chiarire cosa abbia spinto alle armi / il popolo romano accecato, cosa abbia scrollato la pace via dal mondo”). E segue il racconto dei fatti che avevano portato alla guerra civile. Dante, al contrario, non spiega. Cita, allude, prende personaggi ed eventi del passato e li inserisce nel suo racconto ma – dato che ciò che gli sta a cuore non sono tanto le loro vicende personali quanto il loro valore esemplare – dà spesso al lettore informazioni scarse e lacunose circa la loro identità terrena. Chi, senza l’aiuto dei commenti, riuscirebbe a immaginare tutta la storia che sta dietro ai sei versi pronunciati da Pia dei Tolomei alla fine del quinto canto del Purgatorio?
Ma non c’è soltanto questo. La Commedia è anche piena di passi, alcuni memorabili, in cui Dante parla, semplicemente, della sua vita privata. E ne parla come se tutti fossero al corrente di ciò che sta dicendo, o meglio come se non gli importasse del fatto che nessuno può davvero afferrare ciò che sta dicendo. Anche in questo caso è utile un confronto. Nell’antica Roma esisteva un genere letterario nel quale era ammesso un simile codice ristretto: la satira. Quando leggiamo, nella satira XI di Giovenale (vv. 21-23): “È però necessario distinguere tra chi si prepara simili pranzi; se è Rutilio, è un lusso, ma se si tratta di Ventidio, la faccenda prende tutt’altro nome”; oppure (nella stessa, vv. 33-34): “Chiarisci bene a te stesso che cosa tu sia, se un oratore veemente o uno sbruffone come Curzio o Matone”, noi non potremmo mai capire di che cosa si sta parlando se non avessimo delle note esaurienti, note che però talvolta non riescono comunque a spiegare il passo in questione: “Potrebbe essere il Ventìdio Basso della satira VII, che dal nulla divenne console e accumulò grandi ricchezze […]. Di Curzio nulla sappiamo” (così Ettore Barelli nella sua edizione delle Satire di Giovenale, Milano, Rizzoli 2002, p. 237). Il passo resta oscuro: ma è pensabile che per i lettori antichi queste allusioni fossero trasparenti, che si trattasse di aneddoti che circolavano tra la gente, come ne circolano oggi un po’ in tutti gli ambienti. È solo il passaggio del tempo che rende oscuro quello che una volta doveva essere chiaro a molti. Ma il codice ristretto di Dante – le allusioni a una “pargoletta” che lo ha messo sulla cattiva strada (Pg XXI 59), ai “battezzatori” di San Giovanni (If XIX 16-24), ai suoi trascorsi con questo o quel personaggio del poema (Forese, Carlo Martello, Belacqua) – non è che memoria personale, perciò non condivisa, ed è probabile che esso non sia stato mai trasparente per nessuno salvo che per Dante.
Insomma, la terza ragione che allontana la Commedia da noi è questa: la Commedia è molto difficile da capire perché Dante parla di moltissime cose disparate senza però darsi la pena di offrire al lettore informazioni che gli facciano capire di chi o di che cosa si sta parlando. Dato che è difficile da capire, la Commedia è anche difficile da amare. A scuola accade spesso che queste difficoltà vengano un po’ nascoste per non spaventare gli studenti: e la bellezza e l’importanza della Commedia (come di altre opere del passato) vengono date come ovvie, auto-evidenti. Ma non è così. La Commedia è certamente piena di cose meravigliose, ma anche per apprezzare queste cose meravigliose bisogna fare un po’ di fatica. “La verità non si concede ai pigri”, ha scritto qualcuno: e lo stesso si può dire della bellezza.
IV.
E adesso, dopo aver detto perché un lettore di oggi potrebbe non avere voglia di leggere la Commedia, proviamo a spiegare perché questa sarebbe la scelta sbagliata, cioè perché vale invece la pena di provarci.
La questione della forma: i versi. Certo, i versi sono una forma artificiale, una costrizione. Ma non è detto che una costrizione debba rappresentare un ostacolo per l’immaginazione e per l’arte. Oggi abbiamo questa impressione, perché viviamo in un’epoca in cui gli artisti godono di una quasi totale libertà formale. Quale tipo di versi può adoperare un poeta, oggi? Tutti quelli che vuole, delle misure che vuole. Di che cosa può parlare una poesia? Di qualsiasi argomento. Quanto può essere lungo un racconto in prosa? Da una riga a tremila pagine. In passato i confini dei generi erano molto più rigidi: c’erano delle regole precise su come comporre una poesia, un dramma, un poema, e anche su ciò che una poesia, un dramma, un poema potevano dire. Ebbene, dopo un po’ che si studiano le opere del passato ci si accorge di come proprio il buon uso delle costrizioni – degli schemi fissi, delle regole – sia uno dei modi attraverso i quali l’arte può dare piacere.
Un esempio. Alla fine del canto XXII del Paradiso Dante fluttua nell’aria e dall’alto, mentre gira in tondo, vede tutti i pianeti del sistema solare uno in fila all’altro. Non c’è nulla di intrinsecamente “poetico” in un’idea come questa, anzi: la descrizione non della luna o di un bel cielo stellato ma dell’ordine cosmico sembra ancora adesso (e tanto più doveva sembrarlo allora) qualcosa da lasciare agli astronomi. Nei suoi Principi della filosofia (III 8), Cartesio immagina anche lui di osservare il sistema solare da fuori, e scrive: “È facile conoscere che la Luna e la Terra apparirebbero molto più piccole a chi le guardasse da Giove o da Saturno, di quanto appaia Giove o Saturno allo stesso spettatore che li guarda dalla Terra, e che, se si guardasse il Sole di sopra da qualche stella fissa, esso non apparirebbe forse maggiore di quanto appaiano le stelle a quelli che le guardano dal luogo dove siamo”. Questo è il modo in cui l’immagine viene articolata nella prosa scientifica: un linguaggio chiaro e distinto, ma che proprio per questo non si può davvero dire stimoli il volo della fantasia. Questo invece è il modo in cui l’articola Dante, che deve rispettare i confini del verso e della terzina (133-54):
Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;
e quel consiglio per migliore approbo
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo.
Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell’ ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa.
L’aspetto del tuo nato, Iperïone,
quivi sostenni, e vidi com si move
circa e vicino a lui Maia e Dïone.
Quindi m’apparve il temperar di Giove
tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove.
E tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi, e quanto son veloci,
e come sono in distante riparo.
L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’ io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci.
Poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.
Questo è uno dei passi più belli della Commedia. È impressionante che un uomo del medioevo possa immaginare di osservare l’intero universo conosciuto mentre lui, col suo corpo, gli ruota attorno. Non è importante il fatto che quella del cosmo visto dall’alto non sia un’invenzione di Dante ma gli derivi dal Somnium Scipionis di Cicerone; non è importante perché la cosa più straordinaria è il modo in cui Dante riesce a comprimere nello spazio di una ventina di versi tante informazioni: il nome di tutti i pianeti con una breve caratterizzazione di ciascuno, e poi una meravigliosa terzina riassuntiva che li riunisce tutti insieme: “e tutti e sette mi si dimostraro…”. E il più straordinario di tutti è il verso 151. Dato il problema “definire la terra e la vita umana in undici sillabe”, la soluzione di Dante è: “L’aiuola che ci fa tanto feroci”. È un verso bellissimo non solo per il suono (coi due accenti consecutivi sulla sesta e la settima sillaba, fà tànto) e per la ricchezza del suo significato: “a chi, come me, ha potuto vedere le cose con l’occhio di Dio, il nostro pianeta appare per quello che realmente è, un fazzoletto di terra (aiuola) minuscolo, irrilevante, e per il quale noi però ci facciamo continuamente la guerra”. Non solo per questo, ma anche perché in undici sillabe Dante riesce a combinare i due piani ben distinti della descrizione obiettiva e del giudizio morale. Non dice “un piccolo pezzo di terra che ha questa o quest’altra caratteristica e che mi appare, mentre gli volteggio intorno, in questo o quest’altro modo”; dice “un piccolo pezzo di terra (piano fisico) che ci rende tutti crudeli (piano morale)”. Ma questo prodigio di sintesi non si sarebbe compiuto se Dante non avesse dovuto superare, per l’appunto, le costrizioni, i vincoli che il genere del suo discorso gli imponeva.
Un altro esempio. Tra le cose che Dante deve fare c’è trovare un inizio originale per ognuno dei cento canti, non ripetere sempre le stesse parole, lo stesso schema, la stessa situazione narrativa. Ci si pensa di rado, ma questa in pratica è una cosa nuova nella letteratura europea perché i poemi, i romanzi in versi anteriori a Dante non sono divisi in canti: cento nuovi inizi sono un problema che nessuno aveva mai dovuto affrontare. Ma Dante trasforma il problema in un’occasione e trova delle soluzioni geniali. Comincia, senza nessuna spiegazione, citando le parole scritte su una porta all’ingresso dell’inferno (”Per me si va nella città dolente…”), comincia rivolgendo direttamente la parola al lettore (”Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe…”), comincia citando versacci incomprensibili (”Pape Satàn, pape Satàn aleppe!”), e lo può fare anche perché di versi in -eppe (o altrove in -occe, in –orpio, e via dicendo), essendo all’inizio del canto, deve trovarne soltanto due, non tre: non è facile, ma è meno difficile che se queste rime impossibili stessero nel corpo del canto, dato che lo schema della terza rima è ABABCBCDCDED…
Nel XIV del Purgatorio Dante fa qualcosa di meno vistoso ma di altrettanto se non più sorprendente, e cioè comincia il canto con un dialogo tra due personaggi che non conosciamo, che non abbiamo mai incontrato prima:
“Chi è costui che ’l nostro monte cerchia
prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia?”.
“Non so chi sia, ma so che non è solo:
domandal tu che più li t’avvicini,
e dolcemente, sì che parli, acco’lo”.
Questa tecnica è strana e interessante per varie ragioni. Perché nei manoscritti antichi non c’erano le virgolette, quindi non doveva essere immediatamente chiaro, leggendo, che a parlare qui non era l’autore (lo diventa al verso 7, dove Dante riprende la parola e spiega: “Così due spirti”). Perché Dante usa quella che si chiama “tecnica del ritardamento”, cioè introduce i personaggi e li fa parlare, ma aspetta qualche decina di versi prima di dirci chi sono e perché sono lì: lo sapremo soltanto dopo il verso 80, “sappi ch’io son Guido del Duca” e “Questi è Rinier”. E infine perché il lettore moderno è portato ad associare questa tecnica adoperata da Dante al teatro o al cinema piuttosto che alla narrativa: l’apertura della scena sul colloquio di due personaggi, senza bisogno di didascalie introduttive o di una voce fuori campo.
V.
Questo era il primo ostacolo alla lettura e all’apprezzamento della Commedia da parte nostra. È in versi, e i versi ci appaiono oggi come un mezzo poco adatto al racconto, perché sono artificiosi e spesso difficili da capire. È vero, ma abbiamo visto come proprio la risoluzione di problemi formali che nell’età della totale libertà espressiva non si danno più possa contribuire alla bellezza dell’opera e al nostro piacere di lettori.
La Commedia, abbiamo osservato in secondo luogo, è stata scritta molti secoli fa, e tra il mondo di Dante e il nostro le differenze sono molto più numerose delle analogie. E non solo il mondo che Dante descrive, ma anche e soprattutto il mondo come Dante lo pensa: le sue idee sulla religione, la politica, i rapporti tra i sessi e le classi sociali, ci sono ormai quasi del tutto estranee. Vale davvero la pena di ascoltarle?
Quanto a quest’ultimo problema, il problema della nostra distanza ideale da Dante, e soprattutto dalle sue idee intorno alla religione, che incidono così profondamente sulla sua opera, è molto ragionevole quello che ha osservato un grande scrittore del ventesimo secolo che era anche un credente, T.S. Eliot:
I.
Prima ragione che può scoraggiare la lettura. La Commedia è in versi, è un racconto in versi: e noi oggi tendiamo a pensare che i versi vadano bene per la poesia lirica (che del resto leggiamo sempre meno) o per le canzoni ma certamente non per i racconti lunghi. Per i racconti lunghi c’è la prosa. Esistono anche poeti contemporanei che hanno provato a raccontare una storia in versi, centinaia o migliaia di versi, ma sono eccezioni, e quasi mai eccezioni felici. Ci sono poche idee sulla letteratura più veritiere di quella di Poe secondo cui le poesie dovrebbero essere abbastanza brevi da stare su una sola pagina, così da poter essere lette tutte in una volta, senza interruzioni: a distanza di un secolo e mezzo questo è ancora il nostro punto di vista, e tutto lascia credere che le cose non cambieranno, che nessun brillante futuro attende il genere “poema”. Insomma, la Commedia è scritta in un modo artificiale, e questo artificio – anzi, questa somma di artifici: non soltanto il verso ma anche la rima, la disposizione “innaturale” delle parole, e insomma tutto ciò che rende poesia la poesia – è ormai irrimediabilmente lontano dalle nostre abitudini e dai nostri gusti.
II.
Seconda ragione. La Commedia è stata scritta sette secoli fa. Com’è cambiata la vita da allora! E soprattutto: com’è cambiata la vita in quest’ultimo secolo! Non è forse vero che tra il mondo di Dante e quello dei nostri bisavoli o trisavoli, all’inizio del Novecento, c’è meno differenza di quanta ce ne sia tra questo mondo di “appena ieri” e il nostro mondo, oggi? Non hanno forse, la scienza e la tecnica, trasformato così radicalmente il paesaggio da rendere quasi imparagonabili questi orizzonti d’esperienza?
Molte delle cose che Dante descrive non sono più le cose che noi abbiamo davanti agli occhi. L’idea dell’esistenza che aveva non è più la nostra. Dante ha vissuto in un mondo i cui confini coincidevano praticamente con quelli dell’Europa centro-meridionale, un mondo nel quale le forze politiche più importanti erano l’impero tedesco e il papato. Al centro del cosmo stava, per lui, il pianeta Terra, con gli altri pianeti e col sole a girarle intorno. Non c’è cosa che sia rimasta intatta, da allora. E non si tratta soltanto dei massimi sistemi, ma anche della quotidiana esperienza della vita. Quando leggiamo i primi versi della Commedia, “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura”, dobbiamo fare un grosso sforzo per immaginare la paura che poteva avere un viandante che, nell’anno 1300, si fosse perduto in una di quelle foreste che cominciavano appena fuori dalle mura delle città e che erano davvero aspre, selvagge, e popolate da animali feroci. Molti dei lettori odierni della Commedia hanno a malapena visto un bosco, e lo hanno visto di giorno, camminando lungo un sentiero segnato. Smarrirsi ha, per loro, un significato molto diverso, molto meno sinistro, di quello che poteva avere per un lettore del tempo di Dante (ma mi è capitato di leggere questi versi dell’Inferno in Islanda, un pomeriggio d’inverno, col buio e il freddo fuori, e il deserto di lava a qualche centinaio di metri dal campus dell’università: li leggevo ad alta voce davanti ad alcuni studenti e posso assicurare che l’effetto era diverso rispetto a quello che si ottiene leggendoli in una scuola del centro di Roma o di Milano in una placida mattina di primavera: laggiù non ci sono selve, ma l’oscurità e la desolazione sì, e smarrirsi può ancora voler dire morire).
Si potrebbe dire che, durante i sette secoli che ci separano da Dante, sono rimaste intatte alcune fondamentali istanze umane: l’amore, l’odio, il dolore, la paura della morte… Questo è senz’altro vero, e ne parleremo più avanti. Ma consideriamo per esempio una delle più importanti fra queste istanze: la fede, la religione. Possiamo forse dire che, sotto questo aspetto, il nostro universo corrisponde ancora, almeno nelle sue linee essenziali, a quello di Dante? Dante credeva alla verità storica della Bibbia. Noi, o almeno la gran parte di noi, non ci crediamo. La fede di Dante non ha incertezze né incrinature: egli non è soltanto sicuro dell’esistenza di Dio ma è convinto di avere, con la sfera del divino, un rapporto privilegiato: è il tema che emerge a ogni passo della Vita nova e della Commedia. In linea di massima, le donne e gli uomini di oggi vivono la fede con molto più distacco: anche se sono religiosi, il peso che la religione ha nelle loro vite e nelle loro idee, opinioni, sentimenti, è molto inferiore al peso che la religione poteva avere per un cristiano del tempo di Dante. Non è dunque eccessivo dire che per questi lettori, per noi lettori di oggi, la Commedia ha cessato di essere vera. Non nel senso che noi non crediamo più alla verità del viaggio che Dante avrebbe fatto nell’aldilà: è chiaro, era già chiaro per i lettori del suo tempo che si tratta di un’invenzione, così come sono invenzioni quelle di Omero, di Shakespeare, di Cervantes. Non è più vera nel senso che la visione del mondo che si esprime nella Commedia – la dottrina, i dogmi, l’idea della Provvidenza che pervade ogni azione di Dante-personaggio e ogni affermazione di Dante-poeta – ci è diventata estranea. Si pone insomma – e si è posto in realtà a partire dal Rinascimento, e poi più decisamente da due secoli a questa parte – il problema della lettura di un’opera fortemente ideologica come la Commedia all’interno di una società come la nostra, che ha in buona misura superato quell’ideologia, che si è secolarizzata.
Ma, si potrebbe obiettare, qualcosa del genere non si può dire di tutti i libri scritti nell’antichità, o nel medioevo, o… A che punto fermarsi? Da quando la letteratura comincia davvero a parlare di noi? È del tutto normale che un lettore di oggi trovi estranee alle sue idee e ai suoi gusti le opere del passato. Sono state concepite secondo canoni estetici diversi dai nostri, rispecchiano una visione del mondo che non può corrispondere alla nostra: per capirle, per farle parlare, dobbiamo cercare di avvicinarci a quella visione del mondo e a quelle consuetudini estetiche, e accettare per esempio che un racconto lungo possa essere scritto in versi e non in prosa, o che i suoi personaggi possano essere figure fantastiche come mostri, fate, dei, oppure che i cieli dei dipinti – perché naturalmente c’è una storia della pittura così come c’è una storia della letteratura – possano essere, anziché celesti, dorati.
Ma oltre a questa difficoltà, che condivide con tutte le opere d’arte del passato, la Commedia ne presenta una specifica. Gli autori di opere come il Roman de la Rose o l’Orlando furioso o il Don Chisciotte hanno un modo di vedere la realtà ovviamente molto diverso dal nostro. Ma ciò che ci sta a cuore e che stimola il nostro interesse, quando li leggiamo, è il racconto, la trama, il corso degli eventi, e questo – la curiosità di sapere se il protagonista del racconto conquisterà la rosa, che cosa faranno Orlando e Rinaldo, come se la caverà Don Chisciotte nella prossima avventura – ci aiuta a superare la distanza che separa la nostra visione del mondo dalla visione del mondo di quegli scrittori, e a disinteressarci dell’implausibilità delle cose che ci stanno raccontando: sono storie, un po’ più strane di quelle che racconteranno i romanzieri realisti a partire dal Settecento, ma storie che ci possono divertire, interessare, commuovere, e nelle quali ci possiamo rispecchiare, anche se con uno sforzo molto maggiore di quello che ci verrà richiesto più tardi da Balzac o da Proust.
Ma ecco la differenza. Nella Commedia, la prospettiva sulle cose è importante almeno quanto le cose stesse. Dante-autore è sempre in campo, la sua visione del mondo, che è così diversa dalla nostra, viene sempre sollecitata. Non veniamo lasciati soli neanche per un attimo, non possiamo mai abbandonarci all’ascolto della storia: ogni rappresentazione cela un concetto. In altre parole, nella Commedia c’è una dimensione dottrinale, teoretica che nelle altre grandi opere della narrativa premoderna non c’è, e questa dottrina non è qualcosa che si possa separare facilmente dal racconto: perché il racconto non è fine a se stesso come nel Roman de la Rose o nel Furioso o nel Don Chisciotte ma è funzionale a una dimostrazione, mira a istruire e a persuadere piuttosto che a intrattenere, ed è pieno di faticosi passaggi nei quali i vari commi della dimostrazione vengono illustrati, come in un trattato filosofico o, per l’appunto, teologico.
Esiste una storia della ricezione delle opere: ogni età vede nell’arte del passato qualcosa di un po’ diverso rispetto a ciò che vi vedeva l’età precedente. Ciò risulta chiarissimo se si riflette sulla fortuna e sulla sfortuna, attraverso i secoli, di autori oggi considerati sommi come Dante o Shakespeare o Caravaggio. Nella lettera a Cangrande della Scala leggiamo che il soggetto della Commedia è “lo stato delle anime dopo la morte” (§ 24). Un’opinione simile appare a noi oggi troppo riduttiva. La Commedia è ben altro che questo. Ha scritto uno dei maggiori studiosi di Dante, Bruno Nardi:
In realtà il senso letterale di tutto il poema è un altro, e cioè il viaggio, il “fatale andare” di Dante, smarrito, attraverso l’Inferno e il Purgatorio fino alla selva antica del Paradiso terrestre […], e quindi l’ascesa attraverso le sfere celesti […]. E in questo viaggio e in questa ascesa Dante porta con sé il suo ‘stato civile’ con tutta la sua ricca umanità, con tutte le sue aspirazioni personali, letterarie, politiche, morali e religiose, sì che il pronome personale io risuona dal secondo al terz’ultimo verso della Commedia. […] Questo, sì, è il senso letterale del poema ed è il solo che veramente ci commuova sino a farci trasalire. Ed è proprio questo che sta sullo stomaco al teologo [cioè all’estensore della lettera, che non sarebbe Dante] che sub lectoris officio s’è proposto di svalutarlo, riducendolo a semplice finzione poetica.
Oggi non facciamo fatica a condividere l’opinione di Nardi secondo cui il soggetto della Commedia non è tanto l’aldilà, la teologia volgarizzata da Dante, quanto l’esistenza di Dante, l’esistenza umana in generale, osservata dalla specola dell’eterno. Tuttavia, sia stata o non sia stata scritta da Dante, la lettera a Cangrande ci mostra in che modo la Commedia poteva essere letta nel quattordicesimo secolo e ci dice come allora fosse cruciale proprio quella dimensione dottrinale – lo stato delle anime dopo la morte – che il lettore odierno considera secondaria (secondo questa prospettiva, ha scritto sempre Nardi, la Commedia non sarebbe che “un barboso trattato teologico sull’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso”). Del resto è soprattutto sulla dottrina, e non tanto sul puro racconto o sulla dimensione autobiografica, che si concentrarono le attenzioni e le critiche dei contemporanei: sulle profezie, sul problema della visione, sulle libertà che Dante si prende nell’immaginare la durata e i modi delle pene. E non mancava tra i primi commentatori chi, come Guido da Pisa, difendeva apertamente l’idea di Dante profeta, visitato dallo Spirito Santo, mentre oggi pochi credono davvero che Dante si sia messo all’opera perché ispirato dal cielo.
Quali conseguenze ha un simile mutamento di prospettiva? Charles Singleton ha sostenuto che proprio “l’indifferenza alla salvezza” che è caratteristica di noi moderni c’impedisce ormai di avere una comprensione adeguata dell’opera di Dante. “Il fatto è”, scrive, “che siamo arrivati al limite cui era possibile arrivare nella tendenza a minimizzare o a escludere dall’attenzione i più profondi significati cristiani della Commedia”. In altre parole, così come la Bibbia o il Corano significano qualcosa per un lettore cristiano o un per lettore musulmano e qualcos’altro – qualcosa di meno – per un lettore che non creda alla verità né dell’una né dell’altro, allo stesso modo si potrebbe dire che, dal momento che non siamo più in grado di dare alla Commedia il valore teologico e profetico che la Commedia aveva in origine, anche il nostro apprezzamento dell’opera risulta almeno in parte compromesso.
È così? O si può pensare che questo mutamento di mentalità (che riguarda, ripeto, ogni opera d’arte antica ma in particolare quelle che, come la Commedia, hanno un preponderante contenuto di pensiero), anziché essere dannoso per il nostro gradimento e la nostra comprensione dell’opera, ci apra nuove vie, nuove possibilità di lettura?
III.
Terza ragione di lontananza. La Commedia non soltanto parla di cose che sono molto lontane dalla nostra esperienza, così come molti capolavori del passato (la guerra sotto le mura della città di Troia, il viaggio di un eroe che è destinato a fondare Roma, le avventure di un pazzo che si crede un cavaliere errante), ma ne parla anche in maniera terribilmente complicata. La Commedia è forse l’unica grande opera letteraria occidentale che non può essere letta senza un commento o senza avere accanto una buona enciclopedia. Prendiamo la mitologia. Anche i poemi latini e greci erano pieni di strani e spesso oscuri riferimenti al mito, ma bisogna supporre che quei miti fossero moneta corrente per molti lettori del tempo: un codice condiviso, se non un credo condiviso. Nel momento in cui Dante scrive versi come questi (Pd VIII 1-8):
Solea creder lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
raggiasse, volta nel terzo epiciclo;
per che non pur a lei facieno onore
di sacrificio e di votivo grido
le genti antiche ne l’antico errore;
ma Dïone onoravano e Cupido,
quella per madre sua, questo per figlio
è passato quasi un millennio da quando il pantheon greco-romano è stato sostituito dalla Trinità cristiana: soltanto chi conosceva alla perfezione la mitologia classica, i poemi classici, aveva qualche speranza di orientarsi, da solo, tra questi nomi. Per questa ragione, e anche questo è un caso unico nella storia della letteratura occidentale, si pensò subito di non lasciare da soli i lettori, e pochi anni dopo la morte di Dante si cominciarono a scrivere eruditissimi commenti, simili a quelli che si erano scritti per opere molto lontane nello spazio e nel tempo, e appartenenti a generi molto diversi come i libri della Bibbia o i trattati di Aristotele.
Non basta: perché l’enciclopedia che serve per leggere Omero o le Metamorfosi di Ovidio rischia di non essere sufficiente per la Commedia. Prendiamo per esempio questi versi (If XXI 37-49):
Del nostro ponte disse: “O Malebranche,
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche
a quella terra, che n’è ben fornita:
ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita”.
Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.
Quel s’attuffò, e tornò su convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: “Qui non ha loco il Santo Volto!
Qui si nuota altrimenti che nel Serchio!”.
Questa è storia contemporanea, anzi è cronaca: vi si parla di una città che non è mai esplicitamente nominata (che si tratti di Lucca lo apprendiamo dai commenti) e si citano cose e personaggi (il Santo Volto, Bonturo) intorno ai quali molto difficilmente un lettore che non fosse lucchese poteva essere informato. Ora, anche scrittori latini come Lucano o come Stazio avevano raccontato la storia del loro tempo. Ma la loro era la grande storia degli imperi, non la cronaca di una minuscola cittadina. In più, nel momento in cui raccontano le loro storie Lucano e Stazio mettono il lettore nella condizione di capire bene quello che stanno dicendo, spiegano gli antefatti, le cause degli eventi, ci fanno conoscere da vicino i protagonisti (Pharsalia I 67-69): “Fert animus causas tantarum expromere rerum / immensumque aperitur opus, quid in arma furentem / impulerit populum, quid pacem excusserit orbi” (”L’animo mi porta a esporre le cause di avvenimenti tanto gravi: / viene così a spalancarsi un’opera smisurata per chiarire cosa abbia spinto alle armi / il popolo romano accecato, cosa abbia scrollato la pace via dal mondo”). E segue il racconto dei fatti che avevano portato alla guerra civile. Dante, al contrario, non spiega. Cita, allude, prende personaggi ed eventi del passato e li inserisce nel suo racconto ma – dato che ciò che gli sta a cuore non sono tanto le loro vicende personali quanto il loro valore esemplare – dà spesso al lettore informazioni scarse e lacunose circa la loro identità terrena. Chi, senza l’aiuto dei commenti, riuscirebbe a immaginare tutta la storia che sta dietro ai sei versi pronunciati da Pia dei Tolomei alla fine del quinto canto del Purgatorio?
Ma non c’è soltanto questo. La Commedia è anche piena di passi, alcuni memorabili, in cui Dante parla, semplicemente, della sua vita privata. E ne parla come se tutti fossero al corrente di ciò che sta dicendo, o meglio come se non gli importasse del fatto che nessuno può davvero afferrare ciò che sta dicendo. Anche in questo caso è utile un confronto. Nell’antica Roma esisteva un genere letterario nel quale era ammesso un simile codice ristretto: la satira. Quando leggiamo, nella satira XI di Giovenale (vv. 21-23): “È però necessario distinguere tra chi si prepara simili pranzi; se è Rutilio, è un lusso, ma se si tratta di Ventidio, la faccenda prende tutt’altro nome”; oppure (nella stessa, vv. 33-34): “Chiarisci bene a te stesso che cosa tu sia, se un oratore veemente o uno sbruffone come Curzio o Matone”, noi non potremmo mai capire di che cosa si sta parlando se non avessimo delle note esaurienti, note che però talvolta non riescono comunque a spiegare il passo in questione: “Potrebbe essere il Ventìdio Basso della satira VII, che dal nulla divenne console e accumulò grandi ricchezze […]. Di Curzio nulla sappiamo” (così Ettore Barelli nella sua edizione delle Satire di Giovenale, Milano, Rizzoli 2002, p. 237). Il passo resta oscuro: ma è pensabile che per i lettori antichi queste allusioni fossero trasparenti, che si trattasse di aneddoti che circolavano tra la gente, come ne circolano oggi un po’ in tutti gli ambienti. È solo il passaggio del tempo che rende oscuro quello che una volta doveva essere chiaro a molti. Ma il codice ristretto di Dante – le allusioni a una “pargoletta” che lo ha messo sulla cattiva strada (Pg XXI 59), ai “battezzatori” di San Giovanni (If XIX 16-24), ai suoi trascorsi con questo o quel personaggio del poema (Forese, Carlo Martello, Belacqua) – non è che memoria personale, perciò non condivisa, ed è probabile che esso non sia stato mai trasparente per nessuno salvo che per Dante.
Insomma, la terza ragione che allontana la Commedia da noi è questa: la Commedia è molto difficile da capire perché Dante parla di moltissime cose disparate senza però darsi la pena di offrire al lettore informazioni che gli facciano capire di chi o di che cosa si sta parlando. Dato che è difficile da capire, la Commedia è anche difficile da amare. A scuola accade spesso che queste difficoltà vengano un po’ nascoste per non spaventare gli studenti: e la bellezza e l’importanza della Commedia (come di altre opere del passato) vengono date come ovvie, auto-evidenti. Ma non è così. La Commedia è certamente piena di cose meravigliose, ma anche per apprezzare queste cose meravigliose bisogna fare un po’ di fatica. “La verità non si concede ai pigri”, ha scritto qualcuno: e lo stesso si può dire della bellezza.
IV.
E adesso, dopo aver detto perché un lettore di oggi potrebbe non avere voglia di leggere la Commedia, proviamo a spiegare perché questa sarebbe la scelta sbagliata, cioè perché vale invece la pena di provarci.
La questione della forma: i versi. Certo, i versi sono una forma artificiale, una costrizione. Ma non è detto che una costrizione debba rappresentare un ostacolo per l’immaginazione e per l’arte. Oggi abbiamo questa impressione, perché viviamo in un’epoca in cui gli artisti godono di una quasi totale libertà formale. Quale tipo di versi può adoperare un poeta, oggi? Tutti quelli che vuole, delle misure che vuole. Di che cosa può parlare una poesia? Di qualsiasi argomento. Quanto può essere lungo un racconto in prosa? Da una riga a tremila pagine. In passato i confini dei generi erano molto più rigidi: c’erano delle regole precise su come comporre una poesia, un dramma, un poema, e anche su ciò che una poesia, un dramma, un poema potevano dire. Ebbene, dopo un po’ che si studiano le opere del passato ci si accorge di come proprio il buon uso delle costrizioni – degli schemi fissi, delle regole – sia uno dei modi attraverso i quali l’arte può dare piacere.
Un esempio. Alla fine del canto XXII del Paradiso Dante fluttua nell’aria e dall’alto, mentre gira in tondo, vede tutti i pianeti del sistema solare uno in fila all’altro. Non c’è nulla di intrinsecamente “poetico” in un’idea come questa, anzi: la descrizione non della luna o di un bel cielo stellato ma dell’ordine cosmico sembra ancora adesso (e tanto più doveva sembrarlo allora) qualcosa da lasciare agli astronomi. Nei suoi Principi della filosofia (III 8), Cartesio immagina anche lui di osservare il sistema solare da fuori, e scrive: “È facile conoscere che la Luna e la Terra apparirebbero molto più piccole a chi le guardasse da Giove o da Saturno, di quanto appaia Giove o Saturno allo stesso spettatore che li guarda dalla Terra, e che, se si guardasse il Sole di sopra da qualche stella fissa, esso non apparirebbe forse maggiore di quanto appaiano le stelle a quelli che le guardano dal luogo dove siamo”. Questo è il modo in cui l’immagine viene articolata nella prosa scientifica: un linguaggio chiaro e distinto, ma che proprio per questo non si può davvero dire stimoli il volo della fantasia. Questo invece è il modo in cui l’articola Dante, che deve rispettare i confini del verso e della terzina (133-54):
Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;
e quel consiglio per migliore approbo
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo.
Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell’ ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa.
L’aspetto del tuo nato, Iperïone,
quivi sostenni, e vidi com si move
circa e vicino a lui Maia e Dïone.
Quindi m’apparve il temperar di Giove
tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove.
E tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi, e quanto son veloci,
e come sono in distante riparo.
L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’ io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci.
Poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.
Questo è uno dei passi più belli della Commedia. È impressionante che un uomo del medioevo possa immaginare di osservare l’intero universo conosciuto mentre lui, col suo corpo, gli ruota attorno. Non è importante il fatto che quella del cosmo visto dall’alto non sia un’invenzione di Dante ma gli derivi dal Somnium Scipionis di Cicerone; non è importante perché la cosa più straordinaria è il modo in cui Dante riesce a comprimere nello spazio di una ventina di versi tante informazioni: il nome di tutti i pianeti con una breve caratterizzazione di ciascuno, e poi una meravigliosa terzina riassuntiva che li riunisce tutti insieme: “e tutti e sette mi si dimostraro…”. E il più straordinario di tutti è il verso 151. Dato il problema “definire la terra e la vita umana in undici sillabe”, la soluzione di Dante è: “L’aiuola che ci fa tanto feroci”. È un verso bellissimo non solo per il suono (coi due accenti consecutivi sulla sesta e la settima sillaba, fà tànto) e per la ricchezza del suo significato: “a chi, come me, ha potuto vedere le cose con l’occhio di Dio, il nostro pianeta appare per quello che realmente è, un fazzoletto di terra (aiuola) minuscolo, irrilevante, e per il quale noi però ci facciamo continuamente la guerra”. Non solo per questo, ma anche perché in undici sillabe Dante riesce a combinare i due piani ben distinti della descrizione obiettiva e del giudizio morale. Non dice “un piccolo pezzo di terra che ha questa o quest’altra caratteristica e che mi appare, mentre gli volteggio intorno, in questo o quest’altro modo”; dice “un piccolo pezzo di terra (piano fisico) che ci rende tutti crudeli (piano morale)”. Ma questo prodigio di sintesi non si sarebbe compiuto se Dante non avesse dovuto superare, per l’appunto, le costrizioni, i vincoli che il genere del suo discorso gli imponeva.
Un altro esempio. Tra le cose che Dante deve fare c’è trovare un inizio originale per ognuno dei cento canti, non ripetere sempre le stesse parole, lo stesso schema, la stessa situazione narrativa. Ci si pensa di rado, ma questa in pratica è una cosa nuova nella letteratura europea perché i poemi, i romanzi in versi anteriori a Dante non sono divisi in canti: cento nuovi inizi sono un problema che nessuno aveva mai dovuto affrontare. Ma Dante trasforma il problema in un’occasione e trova delle soluzioni geniali. Comincia, senza nessuna spiegazione, citando le parole scritte su una porta all’ingresso dell’inferno (”Per me si va nella città dolente…”), comincia rivolgendo direttamente la parola al lettore (”Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe…”), comincia citando versacci incomprensibili (”Pape Satàn, pape Satàn aleppe!”), e lo può fare anche perché di versi in -eppe (o altrove in -occe, in –orpio, e via dicendo), essendo all’inizio del canto, deve trovarne soltanto due, non tre: non è facile, ma è meno difficile che se queste rime impossibili stessero nel corpo del canto, dato che lo schema della terza rima è ABABCBCDCDED…
Nel XIV del Purgatorio Dante fa qualcosa di meno vistoso ma di altrettanto se non più sorprendente, e cioè comincia il canto con un dialogo tra due personaggi che non conosciamo, che non abbiamo mai incontrato prima:
“Chi è costui che ’l nostro monte cerchia
prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia?”.
“Non so chi sia, ma so che non è solo:
domandal tu che più li t’avvicini,
e dolcemente, sì che parli, acco’lo”.
Questa tecnica è strana e interessante per varie ragioni. Perché nei manoscritti antichi non c’erano le virgolette, quindi non doveva essere immediatamente chiaro, leggendo, che a parlare qui non era l’autore (lo diventa al verso 7, dove Dante riprende la parola e spiega: “Così due spirti”). Perché Dante usa quella che si chiama “tecnica del ritardamento”, cioè introduce i personaggi e li fa parlare, ma aspetta qualche decina di versi prima di dirci chi sono e perché sono lì: lo sapremo soltanto dopo il verso 80, “sappi ch’io son Guido del Duca” e “Questi è Rinier”. E infine perché il lettore moderno è portato ad associare questa tecnica adoperata da Dante al teatro o al cinema piuttosto che alla narrativa: l’apertura della scena sul colloquio di due personaggi, senza bisogno di didascalie introduttive o di una voce fuori campo.
V.
Questo era il primo ostacolo alla lettura e all’apprezzamento della Commedia da parte nostra. È in versi, e i versi ci appaiono oggi come un mezzo poco adatto al racconto, perché sono artificiosi e spesso difficili da capire. È vero, ma abbiamo visto come proprio la risoluzione di problemi formali che nell’età della totale libertà espressiva non si danno più possa contribuire alla bellezza dell’opera e al nostro piacere di lettori.
La Commedia, abbiamo osservato in secondo luogo, è stata scritta molti secoli fa, e tra il mondo di Dante e il nostro le differenze sono molto più numerose delle analogie. E non solo il mondo che Dante descrive, ma anche e soprattutto il mondo come Dante lo pensa: le sue idee sulla religione, la politica, i rapporti tra i sessi e le classi sociali, ci sono ormai quasi del tutto estranee. Vale davvero la pena di ascoltarle?
Quanto a quest’ultimo problema, il problema della nostra distanza ideale da Dante, e soprattutto dalle sue idee intorno alla religione, che incidono così profondamente sulla sua opera, è molto ragionevole quello che ha osservato un grande scrittore del ventesimo secolo che era anche un credente, T.S. Eliot:
Sono convinto che non possiamo permetterci di ignorare le
credenze filosofiche e teologiche di Dante […]; ma penso anche che non
siamo obbligati a crederci […]. È errato pensare che esistano parti
della Commedia interessanti soltanto per i cattolici o i medievalisti. C’è infatti una differenza […] fra la credenza filosofica e l’assenso
poetico […]. Se riusciamo a leggere la poesia come tale, crederemo
nella teologia di Dante esattamente come crediamo nella realtà fisica
del suo viaggio, ovvero sospendiamo sia la credenza che l’incredulità.
Non posso negare che in realtà risulti più facile per un cattolico
cogliere più spesso il significato di quanto lo sia per un agnostico
qualsiasi; ma ciò avviene non perché il cattolico crede, bensì perché è
istruito […]. Non dobbiamo confondere Dante con san Tommaso o viceversa.
Sarebbe un grave errore psicologico. La disponibilità a credere di chi legge la Summa
presuppone un atteggiamento diverso da quella di un lettore di Dante,
anche se si tratta della stessa persona, e anche se questi è un
cattolico (pp. 827-28).
Così la questione è impostata correttamente. Per apprezzare la Commedia non è necessario, in realtà, come supponeva Singleton, condividere le idee di Dante sulla religione: è necessario conoscerle,
e la conoscenza non è un fatto di fede ma un fatto di studio, è il
traguardo a cui si arriva dopo una lunga consuetudine con la cultura
della quale anche Dante si è nutrito. Così, potremmo dire che
un’adeguata, reale comprensione della Commedia potrà essere
impedita, oggi, non dalla mancanza di fede dei suoi lettori, bensì dalla
loro insufficiente erudizione: non è il credere che può fare difetto,
ma il sapere.
D’altra parte, il fatto che Dante appartenga a un’età dell’arte così lontana dalla nostra, che descriva un mondo così lontano da quello che abbiamo sotto gli occhi, può non essere soltanto uno svantaggio. Certo, i personaggi raffigurati nella Commedia sembrano avere un rapporto molto labile con noi. Sono re, imperatori, guerrieri, personaggi della Bibbia, santi come Francesco d’Assisi, eroi presi dalla letteratura come Ulisse; e certo la situazione in cui si trovano, tuffati nell’inferno o illuminati dalla luce di Dio, non si può davvero definire ‘tipica’. Rispecchiarsi in loro non è facile come rispecchiarsi nei protagonisti dei grandi romanzi moderni come Madame Bovary o Raskolnikov o Leopold Bloom. E questo rispecchiamento è arduo soprattutto quando dall’Inferno e dal Purgatorio, che sono ancora così profondamente terrestri nel modo in cui il poeta li rappresenta, passiamo al Paradiso: dato anche che, come ha scritto sempre Eliot, “consapevoli o no, abbiamo un pregiudizio contro la beatitudine in quanto materia di poesia”.
Ma, da un lato, Dante possiede un’immaginazione e una sensibilità così ricche da poter esprimere anche idee ed emozioni che la letteratura del suo tempo non era ancora in grado di esprimere. Ci sono passi, episodi interi della Commedia che parlano a tutti, anche a chi non ha alcun interesse né per la poesia né tantomeno per un’età remota come il medioevo, per la semplice ragione che Dante ha saputo fissare in modo geniale sentimenti che sono realmente universali. Si può essere indifferenti alla letteratura, o cinici, ma è difficile esserlo abbastanza da restare inerti leggendo il discorso di Ulisse ai suoi compagni di viaggio o gli ultimi versi del Paradiso.
Dall’altro lato, ed è il punto più importante, il fatto che la Commedia appartenga a un passato remoto la mette, in un certo senso, al riparo dalle regole del buon gusto, cioè di quello che oggi consideriamo buon gusto. Dante parla di cose di cui la letteratura moderna non può parlare se non cadendo nella magniloquenza o nel kitsch. Chi potrebbe oggi, seriamente, raccontare di come, grazie all’intercessione di San Bernardo e della Vergine Maria, è arrivato a vedere Dio? E chi potrebbe, in un romanzo, mettersi a parlare seriamente del problema della resurrezione della carne, e affermare di poterlo risolvere? E tuttavia queste due chimere, la visione di Dio e la resurrezione, non solo ispirano a Dante alcuni dei versi più belli della Commedia ma, per quanto remote siano dalla nostra esperienza quotidiana, ci interessano e ci commuovono. Se, per scrupolo di realismo, la letteratura può aver superato queste immaginazioni e può averle messe nel repertorio delle cose di cui non è più possibile parlare, noi non le abbiamo superate affatto: sono ancora al centro della nostra fantasia e dei nostri desideri. Ecco il passo (Pd XIV 52-66) in cui Salomone spiega a Dante che rinasceremo col corpo. Per esserne turbati non è necessario crederci, basta pensare a qualcuno che si amava e che si è perduto:
“Ma sì come carbon che fiamma rende,
e per vivo candor quella soverchia,
sì che la sua parvenza si difende
così questo fulgór che già ne cerchia,
fia vinto in apparenza da la carne
che tutto dì la terra ricoperchia;
né potrà tanta luce affaticarne:
ché li organi del corpo saran forti
a tutto ciò che potrà dilettarne”.
Tanto mi parver sùbiti e accorti
e l’uno e l’altro coro a dicer “Amme!”,
che ben mostrar disio de’ corpi morti:
forse non pur per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
anzi che fosser sempiterne fiamme.
E quanto sarebbe ridicolo, oggi, trattare il tema della devozione e dell’amicizia facendo incontrare nell’aldilà due scrittori, uno preso come maestro e l’altro come allievo, che non si sono mai conosciuti, che hanno vissuto addirittura in secoli diversi? Ma la particolare situazione in cui Dante ha saputo calare i suoi personaggi gli permette di dare, di questa allegoria della devozione, una rappresentazione meravigliosamente credibile, cioè – ed è questo uno dei tratti più originali del procedimento di Dante – non di trasfigurare in simbolo un evento o un personaggio reale bensì di rendere realistico un simbolo (Pg XXI 121-36):
Ond’io: “Forse che tu ti maravigli,
antico spirto, del rider ch’io fei;
ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli.
Questi che guida in alto li occhi mei
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forza a cantar de li uomini e d’i dei.
Se cagion altra al mio rider credesti,
lasciala per non vera, ed esser credi
quelle parole che di lui dicesti”.
Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: “Frate,
non far, ché tu sè ombra e ombra vedi”.
Ed ei surgendo: “Or puoi la quanti tate
comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
quand’io dismento nostra vanitate,
trattando l’ombre come cosa salda”.
Insomma, così come per la questione dei versi, il vero passo avanti è capire che anche la distanza temporale, ideale e di gusto può, se colta in maniera adeguata, trasformarsi in un’occasione per ottenere dall’arte ciò che l’arte della nostra epoca non è più in grado di darci.
VI.
Resta il terzo problema, la terza distanza. È forse possibile trovare un “lato buono” nella incomprensibilità di molti passi della Commedia, nell’allusione a libri che non conosciamo, o a circostanze storiche che ci sfuggono? Se dobbiamo proprio leggere un poema antico, perché allora non scegliere l’Odissea, o l’Eneide o i romanzi arturiani, libri che sono anche e soprattutto delle grandi storie, che si possono leggere rilassandosi, ignorando le note, libri che non chiedono un’attenzione costante per decifrare la realtà che sta dietro alle parole? In effetti è così, la Commedia non è un libro come gli altri, un libro di cui si possa fare una lettura “disimpegnata”. Per questa ragione non è ben chiaro a che cosa possano servire le letture pubbliche, a voce alta, di passaggi come questo (Pd VIII 121-35):
Sì venne deducendo infino a quinci;
poscia conchiuse: “Dunque esser diverse
convien di vostri effetti le radici:
per ch’un nasce Solone e altro Serse,
altro Melchisedèch e altro quello
che, volando per l’aere, il figlio perse.
La circular natura, ch’è suggello
a la cera mortal, fa ben sua arte,
ma non distingue l’un da l’altro ostello.
Quinci addivien ch’Esaù si diparte
per seme da Iacòb; e vien Quirino
da sì vil padre, che si rende a Marte.
Cosa può capire il semplice ascoltatore? Ci vogliono tempo e concentrazione per venire a capo di questa decina di versi, cioè non soltanto per sapere chi sono i vari personaggi di cui parla Carlo Martello, personaggi che Dante preleva dalla storia greca, dalla storia romana e dalla Bibbia, ma anche per afferrare il senso del discorso, che riguarda le inclinazioni naturali dell’uomo e che non è per niente semplice. Qui dunque sta la difficoltà: ma, ancora una volta, qui sta anche l’occasione.
Noi siamo abituati a separare con un tratto molto netto il piacere estetico dal piacere che viene dal conoscere. A scuola è persino difficile accettare che quest’ultimo sia un piacere: ci appare piuttosto come un ostacolo, una prova che bisogna superare per poi dedicarsi a cose più utili o riposanti (come, per esempio, dire la nostra opinione su quello che abbiamo letto, o su “quello che davvero voleva dire Dante”). Naturalmente si può leggere la Commedia anche così, disinteressandosi di ciò che non si capisce e lasciandosi cullare dalla bellezza di certi versi, di certe similitudini, o dalla prodigiosa immaginazione di Dante, dalla sua inventiva nella sfera dell’orrido e in quella del sublime. Allo stesso modo, si può benissimo leggere l’Iliade senza sapere niente degli dei greci. Ma nel caso della Commedia il costo è più alto, perché la quantità di cose – nomi, libri, concetti – che Dante riesce a mettere nella storia che sta raccontando è davvero enorme: simile forse soltanto a quella che Joyce riuscirà a mettere nell’Ulisse ma, rispetto a questa, molto più necessaria perché molto più fusa con il racconto. Perdere tutte queste cose è un peccato. E impadronirsene è una meraviglia. Se si legge la Commedia con l’attenzione che richiede, ciò che si ottiene alla fine non sono soltanto l’emozione e il piacere dati dal racconto, un racconto che parla ancora di noi in molti modi inaspettati: lo smarrimento, il senso di colpa, il viaggio coi suoi scenari prodigiosi, il pentimento, la redenzione, la felicità raggiunta… Si ottengono anche l’emozione e il piacere dati dall’imparare: sono due millenni di storia e di libri filtrati dall’intelligenza di Dante – la storia che lui conosceva, i libri che aveva letto, e la sua interpretazione dell’una e degli altri.
Ripeto, questo è un tipo di piacere che non ci è familiare: c’è qualcosa di strano, per il medio lettore di romanzi odierno, in un piacere che implica uno sforzo. Eppure il piacere dell’apprendimento – conoscere cose disparatissime e remote dai nostri interessi attuali attraverso la mediazione di Dante – può essere tanto grande quanto il piacere dell’immaginazione. Spesso si parla della Commedia come di una enciclopedia, una definizione un po’ disgraziata che probabilmente ha l’effetto di respingere il lettore piuttosto che di attrarlo. Ciò che si vuole dire è che nella Commedia si trovano un’infinità di cose che non c’entrano col filo principale del racconto, e che ogni incontro o esperienza vissuta da Dante e raccontata in una manciata di versi ci apre un passaggio verso mondi strani e affascinanti. Naturalmente, le biblioteche sono piene di libri che parlano di altri mondi o di altri libri, e non per questo la loro lettura risulta particolarmente appagante. Per spiegare in che modo la Commedia si distingue da questi libri possiamo provare a leggere questi versi (If XXVIII 55-63):
“Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedra’ il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve”.
Poi che l’un piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola:
indi a partirsi in terra lo distese.
È un passo molto semplice, e non particolarmente notevole dal punto di vista poetico. È una di quelle predizioni che le anime fanno a Dante: le cose andranno in questo o quest’altro modo, qualcuno (qualcuno che mentre l’anima parla è ancora vivo, lo stesso Dante a volte) subirà questo o quest’altro destino… Naturalmente, Dante-scrittore, che ambienta il racconto della Commedia nell’anno 1300, va a colpo sicuro perché sa già come sono andate le cose: quando il suo avo Cacciaguida gli predice che andrà in esilio, Dante è già in esilio; quando Ugo Capeto profetizza a Dante-personaggio lo schiaffo di Anagni, quell’evento ha già avuto luogo quando Dante scrive, eccetera. Ora, nello spazio immaginario dell’aldilà non c’è distinzione di epoche o di luoghi: a parte Dante, quelli che parlano sono tutti morti, e così Dante-personaggio viaggia liberamente nella storia e nella geografia umana incontrando ora un eroe della Grecia antica, ora un poeta latino del primo secolo, ora il primo re di Francia.
Qui siamo nel girone degli scismatici, e Dante parla con Maometto (570-632). Perché mai Maometto, il profeta dell’Islam, sta tra gli scismatici? Perché le informazioni che Dante aveva su questo personaggio erano molto più scarse delle nostre, e perché Dante non aveva alcuna sensibilità o tolleranza nei confronti delle religioni che non erano il cristianesimo. In sostanza, Dante e i suoi contemporanei pensavano che l’Islam fosse semplicemente un’eresia nata in seno al cristianesimo, e che Maometto fosse stato, come scrive Brunetto Latini nel Tresor, un monaco che aveva voltato le spalle alla vera fede. Così, chi legge questi versi (con l’aiuto di un buon commento) non soltanto si ricorda di chi era Maometto ma impara anche che Maometto non è stato sempre lo stesso personaggio attraverso i secoli, e che epoche diverse possono avere idee diverse a proposito dei medesimi eventi storici, a seconda non solo delle informazioni che ne hanno ma anche e soprattutto dell’orizzonte d’idee e credenze nel quale queste informazioni vengono calate.
Dato che il tempo umano non conta nell’aldilà di Dante, a parlare della sorte di fra Dolcino (circa 1250-1307) può essere non un suo contemporaneo ma Maometto, cioè un uomo vissuto sette secoli prima di lui – la stessa distanza che separa noi da Dante – in tutt’altra parte del globo. Dolcino era un cristiano, come Dante. Predicava la povertà, la disobbedienza alle gerarchie ecclesiastiche, il ritorno alla vita semplice dei primi discepoli di Cristo. A considerarle oggi, le sue idee non sembrano tanto diverse dalle idee che Dante esprime spesso nella Commedia. Eppure Dante sta dalla parte dell’ortodossia, della Chiesa (e di quel Clemente V che, nella previsione e nell’augurio di Dante, finirà anche lui dannato); e destina Dolcino all’inferno: “Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi, / … / s’ello non vuol qui tosto seguitarmi”, dice Maometto. Si noti: Dolcino non è presente sulla scena, viene soltanto evocato da Maometto. Dante ha voluto citarlo, ha voluto dire che sarebbe finito all’inferno e, dato che non era ancora morto nel momento in cui si svolge l’azione del poema, si è inventato questa profezia.
Dante aveva ragione? Dolcino meritava il rogo in terra e la dannazione nell’aldilà? Oggi nessuno penserebbe una cosa del genere. Abbiamo imparato ad accettare, anzi quasi ad ammirare queste figure di settari un po’ folli, pronti a farsi uccidere in nome di una loro personale idea della vita e della religione. Anche in questo caso, come per Maometto, noi oggi la pensiamo diversamente da Dante: il tempo e il progresso delle ricerche ha modificato non soltanto le nostre conoscenze intorno a quei fatti ma anche il nostro modo di giudicarli.
Così è chiara la differenza tra la Commedia e l’enciclopedia. L’enciclopedia si sforza di darci un’informazione oggettiva sui fatti e sulle persone, e nei limiti del possibile non li giudica. Nella Commedia noi vediamo i fatti e i personaggi storici attraverso gli occhi di Dante: è molto difficile riuscire a separare “le cose così come sono andate” da ciò che Dante ne sapeva e da ciò che Dante ne pensava. E tutto questo – questa parzialità, questo giudizio spesso arbitrario, capriccioso che è implicato nel racconto, e che si scontra con la nostra parzialità, col nostro modo di vedere le cose – è molto interessante.
Mi rendo conto che come finale è un po’ moscio, specie per il web, che ama le interiezioni, ma questo in sostanza è quanto volevo dire. La Commediaè un libro molto difficile (e a volte noioso) perché è scritto in versi, perché parla di un mondo remoto dal nostro e perché lo fa usando un linguaggio spesso oscuro; ma se si affrontano e si superano queste difficoltà si riceve in premio la possibilità di entrare in una delle menti più affascinanti nella storia dell’umanità (che sarebbe meglio evitare di chiamare “Sommo Poeta”: sono etichette sciocche), di vedere il mondo coi suoi occhi e la sua intelligenza e di leggere alcuni dei versi più belli della nostra letteratura. È più di quel che meritiamo.
D’altra parte, il fatto che Dante appartenga a un’età dell’arte così lontana dalla nostra, che descriva un mondo così lontano da quello che abbiamo sotto gli occhi, può non essere soltanto uno svantaggio. Certo, i personaggi raffigurati nella Commedia sembrano avere un rapporto molto labile con noi. Sono re, imperatori, guerrieri, personaggi della Bibbia, santi come Francesco d’Assisi, eroi presi dalla letteratura come Ulisse; e certo la situazione in cui si trovano, tuffati nell’inferno o illuminati dalla luce di Dio, non si può davvero definire ‘tipica’. Rispecchiarsi in loro non è facile come rispecchiarsi nei protagonisti dei grandi romanzi moderni come Madame Bovary o Raskolnikov o Leopold Bloom. E questo rispecchiamento è arduo soprattutto quando dall’Inferno e dal Purgatorio, che sono ancora così profondamente terrestri nel modo in cui il poeta li rappresenta, passiamo al Paradiso: dato anche che, come ha scritto sempre Eliot, “consapevoli o no, abbiamo un pregiudizio contro la beatitudine in quanto materia di poesia”.
Ma, da un lato, Dante possiede un’immaginazione e una sensibilità così ricche da poter esprimere anche idee ed emozioni che la letteratura del suo tempo non era ancora in grado di esprimere. Ci sono passi, episodi interi della Commedia che parlano a tutti, anche a chi non ha alcun interesse né per la poesia né tantomeno per un’età remota come il medioevo, per la semplice ragione che Dante ha saputo fissare in modo geniale sentimenti che sono realmente universali. Si può essere indifferenti alla letteratura, o cinici, ma è difficile esserlo abbastanza da restare inerti leggendo il discorso di Ulisse ai suoi compagni di viaggio o gli ultimi versi del Paradiso.
Dall’altro lato, ed è il punto più importante, il fatto che la Commedia appartenga a un passato remoto la mette, in un certo senso, al riparo dalle regole del buon gusto, cioè di quello che oggi consideriamo buon gusto. Dante parla di cose di cui la letteratura moderna non può parlare se non cadendo nella magniloquenza o nel kitsch. Chi potrebbe oggi, seriamente, raccontare di come, grazie all’intercessione di San Bernardo e della Vergine Maria, è arrivato a vedere Dio? E chi potrebbe, in un romanzo, mettersi a parlare seriamente del problema della resurrezione della carne, e affermare di poterlo risolvere? E tuttavia queste due chimere, la visione di Dio e la resurrezione, non solo ispirano a Dante alcuni dei versi più belli della Commedia ma, per quanto remote siano dalla nostra esperienza quotidiana, ci interessano e ci commuovono. Se, per scrupolo di realismo, la letteratura può aver superato queste immaginazioni e può averle messe nel repertorio delle cose di cui non è più possibile parlare, noi non le abbiamo superate affatto: sono ancora al centro della nostra fantasia e dei nostri desideri. Ecco il passo (Pd XIV 52-66) in cui Salomone spiega a Dante che rinasceremo col corpo. Per esserne turbati non è necessario crederci, basta pensare a qualcuno che si amava e che si è perduto:
“Ma sì come carbon che fiamma rende,
e per vivo candor quella soverchia,
sì che la sua parvenza si difende
così questo fulgór che già ne cerchia,
fia vinto in apparenza da la carne
che tutto dì la terra ricoperchia;
né potrà tanta luce affaticarne:
ché li organi del corpo saran forti
a tutto ciò che potrà dilettarne”.
Tanto mi parver sùbiti e accorti
e l’uno e l’altro coro a dicer “Amme!”,
che ben mostrar disio de’ corpi morti:
forse non pur per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
anzi che fosser sempiterne fiamme.
E quanto sarebbe ridicolo, oggi, trattare il tema della devozione e dell’amicizia facendo incontrare nell’aldilà due scrittori, uno preso come maestro e l’altro come allievo, che non si sono mai conosciuti, che hanno vissuto addirittura in secoli diversi? Ma la particolare situazione in cui Dante ha saputo calare i suoi personaggi gli permette di dare, di questa allegoria della devozione, una rappresentazione meravigliosamente credibile, cioè – ed è questo uno dei tratti più originali del procedimento di Dante – non di trasfigurare in simbolo un evento o un personaggio reale bensì di rendere realistico un simbolo (Pg XXI 121-36):
Ond’io: “Forse che tu ti maravigli,
antico spirto, del rider ch’io fei;
ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli.
Questi che guida in alto li occhi mei
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forza a cantar de li uomini e d’i dei.
Se cagion altra al mio rider credesti,
lasciala per non vera, ed esser credi
quelle parole che di lui dicesti”.
Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: “Frate,
non far, ché tu sè ombra e ombra vedi”.
Ed ei surgendo: “Or puoi la quanti tate
comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
quand’io dismento nostra vanitate,
trattando l’ombre come cosa salda”.
Insomma, così come per la questione dei versi, il vero passo avanti è capire che anche la distanza temporale, ideale e di gusto può, se colta in maniera adeguata, trasformarsi in un’occasione per ottenere dall’arte ciò che l’arte della nostra epoca non è più in grado di darci.
VI.
Resta il terzo problema, la terza distanza. È forse possibile trovare un “lato buono” nella incomprensibilità di molti passi della Commedia, nell’allusione a libri che non conosciamo, o a circostanze storiche che ci sfuggono? Se dobbiamo proprio leggere un poema antico, perché allora non scegliere l’Odissea, o l’Eneide o i romanzi arturiani, libri che sono anche e soprattutto delle grandi storie, che si possono leggere rilassandosi, ignorando le note, libri che non chiedono un’attenzione costante per decifrare la realtà che sta dietro alle parole? In effetti è così, la Commedia non è un libro come gli altri, un libro di cui si possa fare una lettura “disimpegnata”. Per questa ragione non è ben chiaro a che cosa possano servire le letture pubbliche, a voce alta, di passaggi come questo (Pd VIII 121-35):
Sì venne deducendo infino a quinci;
poscia conchiuse: “Dunque esser diverse
convien di vostri effetti le radici:
per ch’un nasce Solone e altro Serse,
altro Melchisedèch e altro quello
che, volando per l’aere, il figlio perse.
La circular natura, ch’è suggello
a la cera mortal, fa ben sua arte,
ma non distingue l’un da l’altro ostello.
Quinci addivien ch’Esaù si diparte
per seme da Iacòb; e vien Quirino
da sì vil padre, che si rende a Marte.
Cosa può capire il semplice ascoltatore? Ci vogliono tempo e concentrazione per venire a capo di questa decina di versi, cioè non soltanto per sapere chi sono i vari personaggi di cui parla Carlo Martello, personaggi che Dante preleva dalla storia greca, dalla storia romana e dalla Bibbia, ma anche per afferrare il senso del discorso, che riguarda le inclinazioni naturali dell’uomo e che non è per niente semplice. Qui dunque sta la difficoltà: ma, ancora una volta, qui sta anche l’occasione.
Noi siamo abituati a separare con un tratto molto netto il piacere estetico dal piacere che viene dal conoscere. A scuola è persino difficile accettare che quest’ultimo sia un piacere: ci appare piuttosto come un ostacolo, una prova che bisogna superare per poi dedicarsi a cose più utili o riposanti (come, per esempio, dire la nostra opinione su quello che abbiamo letto, o su “quello che davvero voleva dire Dante”). Naturalmente si può leggere la Commedia anche così, disinteressandosi di ciò che non si capisce e lasciandosi cullare dalla bellezza di certi versi, di certe similitudini, o dalla prodigiosa immaginazione di Dante, dalla sua inventiva nella sfera dell’orrido e in quella del sublime. Allo stesso modo, si può benissimo leggere l’Iliade senza sapere niente degli dei greci. Ma nel caso della Commedia il costo è più alto, perché la quantità di cose – nomi, libri, concetti – che Dante riesce a mettere nella storia che sta raccontando è davvero enorme: simile forse soltanto a quella che Joyce riuscirà a mettere nell’Ulisse ma, rispetto a questa, molto più necessaria perché molto più fusa con il racconto. Perdere tutte queste cose è un peccato. E impadronirsene è una meraviglia. Se si legge la Commedia con l’attenzione che richiede, ciò che si ottiene alla fine non sono soltanto l’emozione e il piacere dati dal racconto, un racconto che parla ancora di noi in molti modi inaspettati: lo smarrimento, il senso di colpa, il viaggio coi suoi scenari prodigiosi, il pentimento, la redenzione, la felicità raggiunta… Si ottengono anche l’emozione e il piacere dati dall’imparare: sono due millenni di storia e di libri filtrati dall’intelligenza di Dante – la storia che lui conosceva, i libri che aveva letto, e la sua interpretazione dell’una e degli altri.
Ripeto, questo è un tipo di piacere che non ci è familiare: c’è qualcosa di strano, per il medio lettore di romanzi odierno, in un piacere che implica uno sforzo. Eppure il piacere dell’apprendimento – conoscere cose disparatissime e remote dai nostri interessi attuali attraverso la mediazione di Dante – può essere tanto grande quanto il piacere dell’immaginazione. Spesso si parla della Commedia come di una enciclopedia, una definizione un po’ disgraziata che probabilmente ha l’effetto di respingere il lettore piuttosto che di attrarlo. Ciò che si vuole dire è che nella Commedia si trovano un’infinità di cose che non c’entrano col filo principale del racconto, e che ogni incontro o esperienza vissuta da Dante e raccontata in una manciata di versi ci apre un passaggio verso mondi strani e affascinanti. Naturalmente, le biblioteche sono piene di libri che parlano di altri mondi o di altri libri, e non per questo la loro lettura risulta particolarmente appagante. Per spiegare in che modo la Commedia si distingue da questi libri possiamo provare a leggere questi versi (If XXVIII 55-63):
“Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedra’ il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve”.
Poi che l’un piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola:
indi a partirsi in terra lo distese.
È un passo molto semplice, e non particolarmente notevole dal punto di vista poetico. È una di quelle predizioni che le anime fanno a Dante: le cose andranno in questo o quest’altro modo, qualcuno (qualcuno che mentre l’anima parla è ancora vivo, lo stesso Dante a volte) subirà questo o quest’altro destino… Naturalmente, Dante-scrittore, che ambienta il racconto della Commedia nell’anno 1300, va a colpo sicuro perché sa già come sono andate le cose: quando il suo avo Cacciaguida gli predice che andrà in esilio, Dante è già in esilio; quando Ugo Capeto profetizza a Dante-personaggio lo schiaffo di Anagni, quell’evento ha già avuto luogo quando Dante scrive, eccetera. Ora, nello spazio immaginario dell’aldilà non c’è distinzione di epoche o di luoghi: a parte Dante, quelli che parlano sono tutti morti, e così Dante-personaggio viaggia liberamente nella storia e nella geografia umana incontrando ora un eroe della Grecia antica, ora un poeta latino del primo secolo, ora il primo re di Francia.
Qui siamo nel girone degli scismatici, e Dante parla con Maometto (570-632). Perché mai Maometto, il profeta dell’Islam, sta tra gli scismatici? Perché le informazioni che Dante aveva su questo personaggio erano molto più scarse delle nostre, e perché Dante non aveva alcuna sensibilità o tolleranza nei confronti delle religioni che non erano il cristianesimo. In sostanza, Dante e i suoi contemporanei pensavano che l’Islam fosse semplicemente un’eresia nata in seno al cristianesimo, e che Maometto fosse stato, come scrive Brunetto Latini nel Tresor, un monaco che aveva voltato le spalle alla vera fede. Così, chi legge questi versi (con l’aiuto di un buon commento) non soltanto si ricorda di chi era Maometto ma impara anche che Maometto non è stato sempre lo stesso personaggio attraverso i secoli, e che epoche diverse possono avere idee diverse a proposito dei medesimi eventi storici, a seconda non solo delle informazioni che ne hanno ma anche e soprattutto dell’orizzonte d’idee e credenze nel quale queste informazioni vengono calate.
Dato che il tempo umano non conta nell’aldilà di Dante, a parlare della sorte di fra Dolcino (circa 1250-1307) può essere non un suo contemporaneo ma Maometto, cioè un uomo vissuto sette secoli prima di lui – la stessa distanza che separa noi da Dante – in tutt’altra parte del globo. Dolcino era un cristiano, come Dante. Predicava la povertà, la disobbedienza alle gerarchie ecclesiastiche, il ritorno alla vita semplice dei primi discepoli di Cristo. A considerarle oggi, le sue idee non sembrano tanto diverse dalle idee che Dante esprime spesso nella Commedia. Eppure Dante sta dalla parte dell’ortodossia, della Chiesa (e di quel Clemente V che, nella previsione e nell’augurio di Dante, finirà anche lui dannato); e destina Dolcino all’inferno: “Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi, / … / s’ello non vuol qui tosto seguitarmi”, dice Maometto. Si noti: Dolcino non è presente sulla scena, viene soltanto evocato da Maometto. Dante ha voluto citarlo, ha voluto dire che sarebbe finito all’inferno e, dato che non era ancora morto nel momento in cui si svolge l’azione del poema, si è inventato questa profezia.
Dante aveva ragione? Dolcino meritava il rogo in terra e la dannazione nell’aldilà? Oggi nessuno penserebbe una cosa del genere. Abbiamo imparato ad accettare, anzi quasi ad ammirare queste figure di settari un po’ folli, pronti a farsi uccidere in nome di una loro personale idea della vita e della religione. Anche in questo caso, come per Maometto, noi oggi la pensiamo diversamente da Dante: il tempo e il progresso delle ricerche ha modificato non soltanto le nostre conoscenze intorno a quei fatti ma anche il nostro modo di giudicarli.
Così è chiara la differenza tra la Commedia e l’enciclopedia. L’enciclopedia si sforza di darci un’informazione oggettiva sui fatti e sulle persone, e nei limiti del possibile non li giudica. Nella Commedia noi vediamo i fatti e i personaggi storici attraverso gli occhi di Dante: è molto difficile riuscire a separare “le cose così come sono andate” da ciò che Dante ne sapeva e da ciò che Dante ne pensava. E tutto questo – questa parzialità, questo giudizio spesso arbitrario, capriccioso che è implicato nel racconto, e che si scontra con la nostra parzialità, col nostro modo di vedere le cose – è molto interessante.
Mi rendo conto che come finale è un po’ moscio, specie per il web, che ama le interiezioni, ma questo in sostanza è quanto volevo dire. La Commediaè un libro molto difficile (e a volte noioso) perché è scritto in versi, perché parla di un mondo remoto dal nostro e perché lo fa usando un linguaggio spesso oscuro; ma se si affrontano e si superano queste difficoltà si riceve in premio la possibilità di entrare in una delle menti più affascinanti nella storia dell’umanità (che sarebbe meglio evitare di chiamare “Sommo Poeta”: sono etichette sciocche), di vedere il mondo coi suoi occhi e la sua intelligenza e di leggere alcuni dei versi più belli della nostra letteratura. È più di quel che meritiamo.
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