MARIA MANTELLO – L’assalto allo Statuto dei Lavoratori: verso
una Repubblica fondata sul servaggio
http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/09/25/maria-mantello-l%e2%80%99assalto-allo-statuto-dei-lavoratori-verso-una-repubblica-fondata-sul-servaggio/
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Lo Statuto dei Lavoratori non è un capriccio, un puntiglio dei
Sindacati, un privilegio da abbattere. È un baluardo contro gli assalti
di quelle aree imprenditoriali e forze politiche con loro conniventi che
vogliono cancellare diritti e tutele nella speranza di riportare i
lavoratori a una situazione da medioevo, dove i padroni dell’industria e
della finanza tornano a dominare senza Legge né Stato.
Quando infatti, nella grancassa ben orchestrata degli spot mediatici,
la Costituzione sarà assoggettata agli interessi di chi comanda, la
scuola statale privatizzata, le tutele e i diritti sul lavoro cassati,
davvero l’Italia cambierà verso: non sarà più una Repubblica democratica
fondata sul lavoro, ma sul servaggio.
In questo processo reazionario, lo scalpo della legge 300 ha un
valore simbolico altissimo, da sbandierare come rivincita del padronato
nella resa di conti antidemocratica.
Lo Statuto dei diritti dei lavoratori, legge 300 del 20 maggio 1970,
non è una delle tante leggi del diritto del lavoro. È la Dichiarazione
d’indipendenza dei lavoratori. L’orizzonte di demarcazione che la
Repubblica democratica fondata sul lavoro ha voluto sancire come diritto
umano alla dignità per una società affrancata da sfruttati e
sfruttatori.
Una conquista formidabile, perché la Costituzione è entrata in
fabbrica, come si disse giustamente allora, perché le libertà civili e
democratiche non possono essere sospese sui posti di lavoro. Non più
zone franche per la legge del padrone.
Con lo Statuto dei lavoratori si realizzava una fondamentale
conquista di civiltà e di democrazia, che dava al “pane quotidiano” il
sapore forte dell’emancipazione individuale e sociale nel lavoro e col
lavoro. E proprio con l’art. 18 quell’emancipazione la si salvaguarda
contro il ricatto del licenziamento ingiusto, introducendo il principio
del reintegro del lavoratore, a cui dovevano essere versate le
retribuzioni dalla data dell’illegale licenziamento azzerato dal
magistrato.
Un formidabile paletto contro gli abusi di chi licenziava senza
“giusta causa” (es. furti o altri reati) e “giustificato motivo”
(notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ragioni inerenti
all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare
funzionamento): «Il giudice… condanna il datore di lavoro al
risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui
sia stata accertata l’inefficacia o l’invalidità stabilendo
un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno
del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al
versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del
licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione».
E proteggendo il lavoratore dall’eventualità che possa essere
liquidato con una somma sostitutiva del reintegro, l’art. 18 stabiliva
che questa eventualità è possibile solo se lo richiede il lavoratore:
«al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di
lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro,
un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di
fatto».
La riforma Fornero, nel clima di esaltazione per il governo dei
bocconiani che aveva contagiato anche la sinistra, riuscì a mettere mani
sull’art.18, prevedendo il reintegro solo nei casi di discriminazione
del lavoratore (es. appartenenza politica, orientamento religioso,
sessuale, ecc.) ma sostituendolo con l’indennizzo in tutti gli altri
casi. Insomma una mancia di benservito!
Ma Renzi vuole adesso lo scalpo non solo dell’art.18, ma dell’intero
Statuto, additato come un privilegio e impedimento della ripresa
occupazionale.
E ci ripropone la vecchia favola per cui solo se c’è più flessibilità
(ovvero assenza di stabilità del lavoratore, come pur la Costituzione
prevede) le imprese assumerebbero e l’Italia uscirebbe dalla crisi.
La flessibilità l’abbiamo vista, i posti di lavoro no. E neppure la ripresa economica.
Abbiamo visto solo la moltiplicazione pluridecennale delle tipologie
di aggiramento del contratto a tempo indeterminato (lavoro a
collaborazione, ripartito, intermittente, accessorio, a progetto, ecc.),
che dal “pacchetto Treu” alla “legge Biagi al decreto di maggio scorso
dell’attuale ministro Poletti hanno reso strutturale la precarietà.
Lo scandalo è questo e non basta per eliminarlo la battuta facile
intrisa nella bivalenza renziana delle formule: “togliamo le garanzie
dell’art.18, ma garantiamo la sicurezza ai precari”.
Non argomenta il “giovane” Renzi, lui spara twitter-spot. Non vuole
neppure essere disturbato a discutere con chi si oppone alla dismissione
finale del diritto del lavoro. “O così o decreto”, ripete. Insomma “qui
comando io”.
Eppure, all’epoca del governo Monti aveva detto “lo Statuto non si
tocca”. Ma doveva conquistarsi il posto di capo-partito e quello di capo
di Governo.
Adesso l’obbiettivo finale è avere in mano tutto il partito. E forse,
l’attacco all’art. 18 gli serve per sbarazzarsi di quanto in esso resta
di sinistra. Così alla fine si compirà l’ultima metabolizzazione del
Pd: un partito qualunque. Un partito post ideologico, come usano dire
quelli veramente di destra.
Chissà se anche tutto questo non rientri nel patto Berlusconi – Renzi.
Il Cavaliere intanto si gode la sua Resurrezione, e gongola in attesa
di riprendersi tutto il palcoscenico della politica, mentre il suo
ventriloquo gli fa il lavoro sporco.
Maria Mantello
(24 settembre 2014)
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