Se chiedete al cittadino italiano tipico cosa pensa del politico tipico ci sono buone probabilità che risponda che lo ritiene un ladro, un incapace, un ignorante e uno che dice solo vuote banalità[2].
La prima accusa è sovente ingenerosa e frutto di disinformazione e/o di indebita generalizzazione. Le ultime tre però corrispondono a un’evidenza empirica troppo ampia per potere essere ignorata.
Cosa spinge un politico a dire che non ci sarà una manovra economica salvo a contraddirsi pochi giorni dopo, o ad escludere categoricamente un’amnistia, salvo poi approvarla pochi giorni dopo, in entrambi i casi facendo la figura dell’incapace? Oppure a schierarsi decisamente a favore dell’Ucraina contro la Russia, salvo poi (cfr. "Le Iene" del 19 marzo) dimostrare di non sapere nulla del problema, e risultando quindi palesemente ignorante?
E cosa fa sì che i politici non dicano nulla, o dicano solo slogan, riguardo ai problemi più gravi del paese, in primo luogo la crisi economica?
Se chiedete a un politico del PD (ma anche di partiti non della maggioranza) cosa farebbe per rilanciare l’economia risponderà probabilmente che "bisogna fare le riforme e allentare l’austerità". Se gli si chiede quali riforme si spingerà forse fino a dire "riforma del mercato del lavoro", ma certo non dirà come vuole riformarlo, se non forse per qualche fumoso accenno a una maggiore flessibilità; e se gli si chiede cosa si fa una volta allentata l’austerità risponderà (se è onesto) che non lo sa. Interrogato sul perché di questi comportamenti l’uomo della strada, come abbiamo visto, tenderà a rispondere che il motivo è che i politici sono incapaci e/o che pensano solo a prendere lo stipendio e a niente altro. Ma questi comportamenti sono troppo diffusi perché queste risposte possano essere soddisfacenti, anche se la seconda, come vedremo, contiene un bel po’ di verità. Deve esserci qualche motivo razionale. La ricerca di questo motivo è l’argomento di questo articolo.
Incapaci perché intelligenti
La figura cruciale per capire il comportamento di un partito come il PD è quella che possiamo chiamare il quadro. Costui è un soggetto il quale può ottenere una carica o una posizione amministrativa utile grazie a un processo a due stadi:
- la designazione da parte del partito e la successiva nomina da parte dell’autorità competente (o dell’elettorato);
- il secondo passaggio presuppone il primo. L’esempio più ovvio è il candidato al parlamento che diviene parlamentare; ma ce ne sono molti altri – il possibile dirigente di una ASL, il possibile consigliere d’amministrazione di una banca, ecc. In effetti, tutti i politici professionisti sono in questa condizione, tranne che nel caso –una volta relativamente comune, e oggi molto marginale- che la militanza sia diffusamente sostenuta da una scelta etica (o da un patrimonio famigliare) in misura tale da rendere il soggetto indifferente alle sue fortune personali. Se escludiamo questi casi, un politico professionista non può fare a meno dell’appoggio del partito. Si potrebbe obbiettare che potrebbe farne a meno se potesse "correre da solo", ma in una democrazia moderna tale possibilità è remota.
Nella situazione attuale (ma "attuale" qui significa "da parecchi
anni") il quadro di un partito di governo (o che pensa di avere buone
possibilità di divenire tale alle elezioni successive), come il PD, si
trova ad operare in una situazione difficile. Le difficoltà nascono
dalla necessità imposta dalla situazione economica di fare delle scelte
che scontentano dei soggetti importanti, dal punto di vista del numero
di voti e/o da quello del potere economico. In una crisi come quella
attuale i soldi sono pochi, e diminuiscono: bisogna inevitabilmente
scontentare qualcuno, e questo qualcuno potrà effettuare ritorsioni
dannose per chi è responsabile delle politiche relative. Ho sottolineato il termine "responsabile" perché è cruciale per il nostro ragionamento.
Il problema del quadro è evitare di essere ritenuto responsabile della politica che causa malcontento. Infatti se ciò succede le sue possibilità di carriera saranno inevitabilmente compromesse, e tanto più quanto la situazione è grave (e quindi, presumibilmente, il malcontento è profondo): il partito preferirà promuovere, quale che sia la carica in questione, un soggetto non esposto al malcontento piuttosto che qualcuno che lo è (costui anzi sarà un ottimo candidato a diventare il capro espiatorio, come nel caso, per esempio, di Tremonti sotto Berlusconi).
Se poi il partito non è composto da gentiluomini e gentildonne di elevata moralità (e che di solito non lo sia sembra indubbio), allora si aggiunge un problema ulteriore: creare conflitti di opinione entro il partito espone al rischio di essere fatto fuori dalla concorrenza interna. E tutto questo senza contare l’astio che inevitabilmente suscitano i "whistlebowers" fin dai tempi di Cassandra. Quando le cose vanno male conviene stare zitti.
Il nostro quadro, proprio in quanto non incapace, preferirà allora evitare di fare proposte che possano dispiacere a qualcuno: sarebbe inutile per la sua causa e dannoso per lui. E dal momento che questo sarà il comportamento tipico dei quadri, il partito non potrà elaborare e proporre politiche efficaci. L’unico che potrà farlo sarà il Capo, purché sia sufficientemente immune dalla concorrenza. Le analogie fra Renzi e Stalin, ovviamente in situazioni molto diverse dal punto di vista della gravità della crisi, del conflitto e delle sanzioni comminate, non sono casuali.
E’ importante notare che non è sempre stato così in altre crisi economiche di gravità paragonabile. La Long Depression di fine ottocento è stata affrontata dall’Inghilterra e dalla Francia con la creazione degli imperi coloniali; Hitler ha "risolto" la crisi della Germania espropriando gli ebrei[3]. In entrambi questi casi (e in altri) la crisi è stata pagata da qualcuno esterno alla collettività, e quindi senza particolari sacrifici per i membri di essa (donde la popolarità dell’imperialismo e del nazismo). Oggi, fortunatamente, soluzioni di questo tipo sono impraticabili, almeno in Italia; non è detto che lo siano anche domani.
Ignoranti perché saggi
Abbiamo quindi trovato la spiegazione della prima delle accuse che l’opinione pubblica rivolge alla classe politica, l’incapacità. Veniamo alla seconda, l’ignoranza.
Supponiamo che il nostro quadro tipico sappia che esistono
politiche praticabili e utili, che però necessariamente scontentano
qualcuno. Sa anche, come abbiamo visto, che se proponesse di attuarle
non verrebbe ascoltato, e sarebbe emarginato (o peggio) all’interno del
partito. Egli si trova evidentemente in una posizione scomoda, quanto
meno nei confronti della propria coscienza; ma probabilmente anche nei
confronti dell’opinione pubblica. A maggior ragione se è un esperto: in
un eventuale confronto con altri esperti, per esempio in un dibattito,
questi gli segnaleranno l’esistenza di quelle politiche, e lui dovrà
scegliere se dirsi d’accordo con le conseguenze che abbiamo visto o
danneggiare seriamente la sua reputazione d’esperto. Potrei citare
parecchi esempi in cui mi sono imbattuto personalmente. Il più vistoso
probabilmente è quello di un deputato PD che è anche un maître à penser abbastanza noto. Ha scritto alcuni importanti articoli contro l’Italicum,
da lui giustamente ritenuto un attentato alla democrazia; salvo poi
votare a favore. Quando, durante un dibattito, gli ho chiesto il perché
di questa evidente contraddizione ha risposto, con ovvio imbarazzo e
poca logica, che la legge sarebbe stata modificata al Senato.
C’è però un modo di risolvere il dilemma: e cioè ignorare che una politica praticabile (ma che scontenta qualcuno) esiste. Nessuno
obbliga il funzionario a ricevere informazioni. Se non sa le cose non
avrà problemi di coscienza; e messo di fronte a una proposta
interessante potrà dire, credibilmente, che ci penserà, salvo poi non
farlo. Si potrebbe ritenere che questo machiavellismo di secondo ordine
non esclude il problema della coscienza in quanto il nostro protagonista
deve attivarsi per non ricevere informazioni, ma non è così.
La sua giornata è piena di impegni improrogabili: gli sarà facile e
spontaneo "non avere tempo" per approfondire certi argomenti, avendo
molte cose serie e importanti di cui occuparsi. Lui non c’entra con
quella questione - quale che essa sia. Deve occuparsene qualcun altro.
Leggiamo in Guerra e Pace che alla vigilia della battaglia di
Austerlitz il più alto in grado degli aiutanti dello zar dice a un
disperato Kutuzov che lui si occupa delle cotolette e del riso, e tocca a
qualcun altro occuparsi della guerra. Il guaio è che nel nostro caso
questo qualcun altro semplicemente non esiste.
Anche su questo punto posso citare un esempio, particolarmente
drammatico, che ho vissuto -o meglio sto vivendo- personalmente.
Uno dei problemi più gravi oggi in Italia è il sottodimensionamento
del settore pubblico. Nel nostro paese ci sono circa 3.300.000 pubblici
dipendenti; la Francia e il Regno Unito, paesi paragonabili come
abitanti e (sempre meno) come livello di sviluppo ne hanno quasi il doppio. Persino
gli USA hanno un numero di dipendenti pubblici rapportato alla
popolazione sensibilmente più alto dell’Italia, anche escludendo il
personale militare[4].
Questi dati indicano che molto probabilmente il sottodimensionamento
del settore pubblico è uno dei principali ostacoli alla ripresa
dell’economia e dell’occupazione, ed è chiaro che in queste condizioni
le politiche di spending review devono essere molto caute. Un
gruppo di economisti e sociologi delle Università del Piemonte Orientale
e di Torino sta lavorando sui questo tema; quando abbiamo cercato di
parlarne con qualche politico della maggioranza abbiamo ricevuto
risposte che andavano da un offensivo "non è vero" a "ho cose più
urgenti per la testa."
E’ molto importante notare che l’ignoranza e l’incapacità
interagiscono a spirale. Un ignorante è per ciò stesso anche incapace; e
un incapace non sa dove prendere le informazioni che occorrono per
smettere di essere tale, anzi abbiamo visto che preferisce non farlo.
Non a caso, ma paradossalmente, l’inettitudine del governo è assunta dal
governo stesso come un vincolo insuperabile. E questo non sempre in
mala fede: quando si dice per esempio che non si possono colpire i
paradisi fiscali è ovvio che c’è chi preferisce non colpirli; ma
ottenere questo risultato gli sarà tanto più facile quanto più il
parlamentare tipico ignorerà cosa voglia dire "paradiso fiscale".
Retorici perché ignoranti e incapaci
Abbiamo visto quindi che a un politico conviene essere ignorante. La terza caratteristica, la vuota retorica, è una conseguenza ovvia e diretta delle prime due: se non si possono fare proposte e se si deve nascondere la propria ignoranza cosa si può dire, visto che dire qualcosa fa parte del mestiere di un politico? Occorre esprimersi con una forma che mascheri l’assenza di sostanza, e fare promesse per domani che nascondano l’inadempienza di oggi: "il possibile non lo facciamo, ma l’impossibile ve lo prometto fin d’ora" diceva anni fa un politico in un intelligente fumetto (Le cronache di Fra Salmastro, di Enzo Lunari). Un autentico capolavoro da questo punto di vista è lo slogan totalmente privo di significato della Festa Nazionale Democratica di Genova (2013): Perché l’ Italia vale. E’ facile immaginare un acceso dibattito in cui frasi come "dalla parte dei lavoratori" o "per un Italia giusta" venivano escluse per non dispiacere ai padroni o, rispettivamente, ai delinquenti.
Che fare?
Fin qui ho usato un tono faceto, ma è evidente la gravità di quanto sopra: abbiamo a che fare con una malattia molto seria della democrazia. I sintomi e la diagnosi sono evidenti; lo è anche la terapia, come ora vedremo. Ma per continuare con la metafora, tale terapia è troppo costosa, l’Italia non è in grado di pagarla, e quindi la prognosi è probabilmente infausta.
La terapia richiede infatti che venga ridata ai politici la libertà
di parola, nel senso che dire le cose giuste non implichi una
penalizzazione ma una promozione; e che ciò li induca quindi a
rimettersi a pensare e a studiare. Ma il ripristino della libertà di
parola implica a sua volta due cose.
In primo luogo occorre che il mercato politico torni ad essere
concorrenziale. Bisogna che chi fa delle proposte giuste e ragionate
possa essere ascoltato e premiato dagli elettori. Come abbiamo visto,
esiste un circolo vizioso che fa sì che sia non solo inutile ma dannoso
elaborare proposte sensate (cosa che tra l’altro richiede impegno e
tempo, necessariamente sottratti ad altre attività), se non altro perché
non si sarebbe comunque ascoltati[5].
Una maggiore concorrenza fra i politici richiede a sua volta un sistema
elettorale in cui la partecipazione di molti partiti, lungi dall’essere
ostacolata, sia incoraggiata[6].
Il circolo vizioso deve diventare un circolo virtuoso in cui i partiti
sono incentivati a produrre buone idee (e quindi realistiche: un’idea
non realistica non può essere buona), perché queste saranno valutate e
premiate dagli elettori. Non da tutti, sopratutto in periodi di crisi,
quando un’idea realistica richiede che qualcuno venga danneggiato; ma da
un numero sufficiente perché valga la pena proporla.
In secondo luogo occorre spezzare il legame fra fedeltà a un partito
e accesso alle cariche amministrative. Ciò renderebbe meno costoso per
un funzionario intelligente prendere le distanze dall’ortodossia del
partito. Anzi, avere idee buone e originali potrebbe addirittura
convenire se questo propiziasse la nomina a posti di responsabilità,
anziché ostacolarlo, come avviene ora.
Le due proposte sono sostanzialmente ovvie. Ma altrettanto
ovviamente ci sono forze potenti e, ahimè, vincenti che ne impediscono
l’adozione. L’occupazione delle amministrazioni da parte dei partiti è
giunta a un punto tale che difficilmente può esistere qualcuno che abbia
acquisito le competenze necessarie senza essere organicamente legato a
uno di essi, con le conseguenze che abbiamo visto. E i due partiti
maggiori stanno riuscendo a blindare le elezioni in modo tale da potere
scegliere i candidati che saranno eletti, obbligando così chiunque
voglia competere per una carica politica (e amministrativa) a passare
attraverso di essi. E’ possibile, e secondo me probabile, che gli
storici futuri vedranno nell’approvazione dell’Italicum il punto di non ritorno nel processo di abrogazione della democrazia rappresentativa nel nostro paese. Fermare l’Italicum è condizione necessaria per il mantenimento della democrazia; non è però condizione sufficiente.
NOTE
[1] Professore ordinario di Politica Economica e di Teoria delle Scelte Collettive presso l’Università del Piemonte Orientale.
[1] Professore ordinario di Politica Economica e di Teoria delle Scelte Collettive presso l’Università del Piemonte Orientale.
[2]
Si veda, come un esempio far i tanti, il sito
https://it.toluna.com/opinions/1090237/Le-vostre-opinioni-sui-politici-italiani.
[3] Come dimostrato conclusivamente da A. Gotz, Lo stato sociale di Hitler, Einaudi 2007.
[4]
Queste differenze non sono influenzate in modo significativo da
eventuali diversi pesi del settore privato e di quello pubblico nella
produzione dei servizi, come è facile verificare sui dati OCDE e ILO.
[5] Su questo punto le responsabilità dei media filogovernativi
è enorme. Al punto che è lecito pensare che anche essi facciano in
realtà capo a "quadri" nel senso indicato da questo articolo. Ma
approfondire questo discorso ci porterebbe troppo lontano.
[6]
Esiste un diffuso pregiudizio secondo cui sarebbe opportuno ridurre il
numero dei partiti per motivi di "governabilità". Questo pregiudizio non
trova riscontro (ma trova obiezioni) nella letteratura scientifica, sia
empirica che teorica. In particolare, negli anni in cui in Italia
vigeva un sistema proporzionale non è mai successo che un
partito minore (cioè con meno del 10% dei voti) avesse il potere di fare
perdere la maggioranza alla coalizione di governo abbandonandola; non
solo, non è nemmeno mai successo che l’eventuale abbandono di un partito minore desse a un altro partito minore tale potere.
MICROMEGA, 18 settembre 2014
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