Il grande deserto dei diritti
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Si può avere una agenda politica che ricacci sullo sfondo, o ignori del
tutto, i diritti fondamentali? Dare una risposta a questa domanda
richiede memoria del passato e considerazione dei programmi per il
futuro.
Ma bilanci e previsioni, in questo momento, mostrano un’Italia che ha
perduto il filo dei diritti e, qui come altrove, è caduta prigioniera di
una profonda regressione culturale e politica. Le conferme di una
valutazione così pessimistica possono essere cercate nel disastro della
cosiddetta Seconda Repubblica e nelle ambiguità dell’Agenda per
eccellenza, quella che porta il nome di Mario Monti. Solo uno sguardo
realistico può consentire una riflessione che prepari una nuova stagione
dei diritti.
Vent’anni di Seconda Repubblica assomigliano a un vero deserto dei
diritti (eccezion fatta per la legge sulla privacy, peraltro
pesantemente maltrattata negli ultimi anni, e alla recentissima legge
sui diritti dei figli nati fuori del matrimonio). Abbiamo assistito ad
una serie di attentati alle libertà, testimoniati da leggi sciagurate
come quelle sulla procreazione assistita, sull’immigrazione, sul
proibizionismo in materia di droghe, e dal rifiuto di innovazioni
modeste in materia di diritto di famiglia, di contrasto all’omofobia. La
tutela dei diritti si è spostata fuori del campo della politica, ha
trovato i suoi protagonisti nelle corti italiane e internazionali, che
hanno smantellato le parti più odiose di quelle leggi grazie al
riferimento alla Costituzione, che ha così confermato la sua vitalità, e
a norme europee di cui troppo spesso si sottovaluta l’importanza.
La considerazione dei diritti permette di andare più a fondo nella valutazione comparata tra Seconda e Prima Repubblica, oggi rappresentata come luogo di totale inefficienza. Alcuni dati. Nel 1970 vengono approvate le leggi sull’ordinamento regionale, sul referendum, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, sulla carcerazione preventiva. In un solo anno si realizza così una profonda innovazione istituzionale, sociale, culturale. E negli anni successivi verranno le leggi sul diritto del difensore di assistere all’interrogatorio dell’imputato e sulla concessione della libertà provvisoria, sulla delega per il nuovo codice di procedura penale, sull’ordinamento penitenziario; sul nuovo processo del lavoro, sui diritti delle lavoratrici madri, sulla parità tra donne e uomini nei luoghi di lavoro; sulla segretezza e la libertà delle comunicazioni; sulla riforma del diritto di famiglia e la fissazione a 18 anni della maggiore età; sulla disciplina dei suoli; sulla chiusura dei manicomi, l’interruzione della gravidanza, l’istituzione del servizio sanitario nazionale. La rivoluzione dei diritti attraversa tutti gli anni ’70, e ci consegna un’Italia più civile.
La considerazione dei diritti permette di andare più a fondo nella valutazione comparata tra Seconda e Prima Repubblica, oggi rappresentata come luogo di totale inefficienza. Alcuni dati. Nel 1970 vengono approvate le leggi sull’ordinamento regionale, sul referendum, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, sulla carcerazione preventiva. In un solo anno si realizza così una profonda innovazione istituzionale, sociale, culturale. E negli anni successivi verranno le leggi sul diritto del difensore di assistere all’interrogatorio dell’imputato e sulla concessione della libertà provvisoria, sulla delega per il nuovo codice di procedura penale, sull’ordinamento penitenziario; sul nuovo processo del lavoro, sui diritti delle lavoratrici madri, sulla parità tra donne e uomini nei luoghi di lavoro; sulla segretezza e la libertà delle comunicazioni; sulla riforma del diritto di famiglia e la fissazione a 18 anni della maggiore età; sulla disciplina dei suoli; sulla chiusura dei manicomi, l’interruzione della gravidanza, l’istituzione del servizio sanitario nazionale. La rivoluzione dei diritti attraversa tutti gli anni ’70, e ci consegna un’Italia più civile.
Non fu un miracolo, e tutto questo avvenne in un tempo in cui il
percorso parlamentare delle leggi era ancor più accidentato di oggi. Ma
la politica era forte e consapevole, attenta alla società e alla
cultura, e dunque capace di non levare steccati, di sfuggire ai
fondamentalismi. Esattamente l’opposto di quel che è avvenuto
nell’ultimo ventennio, dove un bipolarismo sciagurato ha trasformato
l’avversario in nemico, ha negato il negoziato come sale della
democrazia, si è arresa ai fondamentalismi. È stata così costruita
un’Italia profondamente incivile, razzista, omofoba, preda
dell’illegalità, ostile all’altro, a qualsiasi altro. Questo è il
lascito della Seconda Repubblica, sulle cui ragioni non si è riflettuto
abbastanza.
Le proposte per il futuro, l’eterna chiacchiera su una “legislatura costituente” consentono di sperare che quel tempo sia finito?
Divenuta riferimento obbligato, l’Agenda Monti può offrire un punto di partenza della discussione.
Si dirà che in tempi difficili questa è una via obbligata, che solo il risanamento dei conti pubblici può fornire le risorse necessarie per l’attuazione dei diritti, e che comunque sono significative le parole dedicate all’istruzione e alla cultura, all’ambiente, alla corruzione, a un reddito di sostentamento minimo. Ma, prima di valutare le questioni specifiche, è il contesto a dover essere considerato.
Le proposte per il futuro, l’eterna chiacchiera su una “legislatura costituente” consentono di sperare che quel tempo sia finito?
Divenuta riferimento obbligato, l’Agenda Monti può offrire un punto di partenza della discussione.
Nelle sue venticinque
pagine, i diritti compaiono quasi sempre in maniera indiretta, nel
bozzolo di una pervasiva dimensione economica, sì che gli stessi diritti
fondamentali finiscono con l’apparire come una semplice variabile
dipendente dell’economia.
Si dirà che in tempi difficili questa è una via obbligata, che solo il risanamento dei conti pubblici può fornire le risorse necessarie per l’attuazione dei diritti, e che comunque sono significative le parole dedicate all’istruzione e alla cultura, all’ambiente, alla corruzione, a un reddito di sostentamento minimo. Ma, prima di valutare le questioni specifiche, è il contesto a dover essere considerato.
In un documento che insiste assai sull’Europa, era lecito attendersi che
la giusta attenzione per la necessità di procedere verso una vera
Unione politica fosse accompagnata dalla sottolineatura esplicita che
non si vuole costruire soltanto una più efficiente Europa dei mercati
ma, insieme una più forte Europa dei diritti. Al Consiglio europeo di
Colonia, nel giugno del 1999, si era detto che solo l’esplicito
riconoscimento dei diritti avrebbe potuto dare all’Unione la piena
legittimazione democratica, e per questo si imboccò la strada che
avrebbe portato alla
Questa ha oggi lo stesso valore giuridico dei trattati, sì che diviene una indebita amputazione del quadro istituzionale europeo la riduzione degli obblighi provenienti da Bruxelles a quelli soltanto che riguardano l’economia. Solo nei diritti i cittadini possono cogliere il “valore aggiunto” dell’Europa.
Inquieta, poi, l’accenno alle riforme della nostra Costituzione che sembra dare per scontato che la via da seguire possa esser quella che ha già portato alla manipolazione dell’articolo 41, acrobaticamente salvata dalla Corte costituzionale, e alla “dissoluzione in ambito privatistico” del diritto del lavoro grazie all’articolo 8 della manovra dell’agosto 2011. Ricordo quest’ultimo articolo perché si è proposto di abrogarlo con un referendum, unico modo per ritornare alla legalità costituzionale e non bieco disegno del terribile Vendola. Un’agenda che riguardi il lavoro, oggi, ha due necessari punti di riferimento: la legge sulla rappresentanza sindacale, essenziale strumento di democrazia; e il reddito minimo universale, considerato però nella dimensione dei diritti di cittadinanza. E i diritti sociali, la salute in primo luogo, non sono lussi, ma vincoli alla distribuzione delle risorse.
Colpisce il silenzio sui diritti civili. Si insiste sulla famiglia, ma non v’è parola sul divorzio breve e sulle unioni di fatto. Non si fa alcun accenno alle questioni della procreazione e del fine vita: una manifestazione di sobrietà, che annuncia un legislatore rispettoso dell’autodeterminazione delle persone, o piuttosto un’astuzia per non misurarsi con le cosiddette questioni “eticamente sensibili”, per le quali il ressemblement montiano rischia la subalternità alle linee della gerarchia vaticana, ribadite con sospetta durezza proprio in questi giorni? Si sfugge la questione dei beni comuni, per i quali si cade in un rivelatore lapsus istituzionale: si dice che, per i servizi pubblici locali, si rispetteranno “i paletti posti dalla sentenza della Corte costituzionale”, trascurando il fatto che quei paletti li hanno piantati ventisette milioni di italiani con il voto referendario del 2011.
Queste prime osservazioni non ci dicono soltanto che una agenda politica ambiziosa ha bisogno di orizzonti più larghi, di maggior respiro. Mostrano come un vero cambio di passo non possa venire da una politica ad una dimensione, quella dell’economia.
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Questa ha oggi lo stesso valore giuridico dei trattati, sì che diviene una indebita amputazione del quadro istituzionale europeo la riduzione degli obblighi provenienti da Bruxelles a quelli soltanto che riguardano l’economia. Solo nei diritti i cittadini possono cogliere il “valore aggiunto” dell’Europa.
Inquieta, poi, l’accenno alle riforme della nostra Costituzione che sembra dare per scontato che la via da seguire possa esser quella che ha già portato alla manipolazione dell’articolo 41, acrobaticamente salvata dalla Corte costituzionale, e alla “dissoluzione in ambito privatistico” del diritto del lavoro grazie all’articolo 8 della manovra dell’agosto 2011. Ricordo quest’ultimo articolo perché si è proposto di abrogarlo con un referendum, unico modo per ritornare alla legalità costituzionale e non bieco disegno del terribile Vendola. Un’agenda che riguardi il lavoro, oggi, ha due necessari punti di riferimento: la legge sulla rappresentanza sindacale, essenziale strumento di democrazia; e il reddito minimo universale, considerato però nella dimensione dei diritti di cittadinanza. E i diritti sociali, la salute in primo luogo, non sono lussi, ma vincoli alla distribuzione delle risorse.
Colpisce il silenzio sui diritti civili. Si insiste sulla famiglia, ma non v’è parola sul divorzio breve e sulle unioni di fatto. Non si fa alcun accenno alle questioni della procreazione e del fine vita: una manifestazione di sobrietà, che annuncia un legislatore rispettoso dell’autodeterminazione delle persone, o piuttosto un’astuzia per non misurarsi con le cosiddette questioni “eticamente sensibili”, per le quali il ressemblement montiano rischia la subalternità alle linee della gerarchia vaticana, ribadite con sospetta durezza proprio in questi giorni? Si sfugge la questione dei beni comuni, per i quali si cade in un rivelatore lapsus istituzionale: si dice che, per i servizi pubblici locali, si rispetteranno “i paletti posti dalla sentenza della Corte costituzionale”, trascurando il fatto che quei paletti li hanno piantati ventisette milioni di italiani con il voto referendario del 2011.
Queste prime osservazioni non ci dicono soltanto che una agenda politica ambiziosa ha bisogno di orizzonti più larghi, di maggior respiro. Mostrano come un vero cambio di passo non possa venire da una politica ad una dimensione, quella dell’economia.
Serve un ritorno alla politica
“costituzionale”, quella che ha fondato le vere stagioni riformatrici.
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