Ritorno a casa
col peso della malattia di mia madre, dolorosa, anche se rientra nel cosiddetto ordine naturale, come si dice in questi casi. Il 7 luglio ha compiuto 85 anni. Il 7 luglio di questo 2005 è stato anche il giorno della strage a Londra. Strage che nulla, assolutamente nulla può giustificare, come qualsiasi altra strage.
«Coloro che hanno massacrato civili inermi a Londra - dice Nawal el Saadawi - non sono “solo” nemici dell’Occidente o dell’Islam che crede nel dialogo. I criminali che hanno colpito a Londra sono Nemici dell’Umanità e come tali vanno combattuti».
. Nawal El Saadawi ha 74 anni ed è la scrittrice egiziana che con la sua opera ha marcato autorevolmente il movimento di liberazione della donna nel mondo arabo musulmano. Si è ovviamente guadagnata di conseguenza l'inserimento in una lista di morte da parte di un gruppo fondamentalista islamico. L'Unità di ieri (http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=ARKINT&TOPIC_TIPO=I&TOPIC_ID=43606) ha pubblicato un'intervista a Nawal, che, a proposito dei terroristi, ha detto:
Cosa ha provato di fronte alle immagini del massacro di Londra?
«Dolore, rabbia, smarrimento. E voglia di reagire. Da donna, da araba, da musulmana. Chi ha perpetrato questo orrendo crimine non può parlare a mio nome, non può, non deve ergersi a paladino dell’Islam. Ma perché ciò non avvenga, occorre da parte nostra, dei tanti, arabi, musulmani, che da questi crimini sono infangati, una rivolta morale, prim’ancora che politica. Una rivolta delle coscienze della quale le organizzazioni, i gruppi, le associazioni che stanno movimentando la società civile araba devono essere protagoniste. Ma perché questa rivolta possa dare i frutti sperati occorre che anche in Occidente, nell’Europa democratica si apra una riflessione sui guasti prodotti da una politica miope...».
E, proposito della politica miope, ha spiegato:
In cosa consiste questa «miopia» politica?
«Nell’aver considerato regimi corrotti e dispotici di cui è pieno il mondo arabo e islamico come il “male minore” rispetto al diffondersi del “virus” fondamentalista. In questo modo si è finito per mantenere al potere leadership screditate che hanno dilapidato ricchezze e risorse, impoverendo il popolo, creando rabbia e frustrazione tra i giovani e ingrossando così le fila dell’integralismo, visto come l’unica forma praticabile di opposizione. E quando l’Occidente si è accorto dei mostri che aveva alimentato, ha cercato una scorciatoia rivelatasi peggiore del “male”: quella dell’imposizione forzata, dall’esterno, della democrazia. Con la guerra preventiva: il secondo, grande regalo fatto al radicalismo islamico, perché la democrazia non può essere imposta con la forza».
Oggi i portatori di morte, bestemmiando il nome di Dio, hanno fatto strage di bambine e bambini in Iraq. I loro massacri sono quotidiani e colpiscono soprattutto compatrioti musulmani. Lo fanno in nome di Dio, dicono, e in nome di certi loro ideali islamici. Oltre a non avere alcuna giustificazione, non danno alcun valore alla vita umana, a cominciare dalla propria.
Ma bisogna ammettere che non ci stracciamo le vesti oggi, anche se condanniamo l'ennesima violenza dei terroristi "devoti". Bisogna anche ammettere che il dolore e l'orrore sono diversi, a seconda delle vittime. E' un problema che affronta Gary Younge in un articolo del Guardian dell'11 luglio scorso:
Il monopolio del dolore |
di Gary Younge Niente giustifica l'attentato del 7 luglio. Ma non c’è nulla di ciò che si è detto per Londra che non si possa dire anche per Falluja |
Poco dopo l’11 settembre 2001, quando anche la minima ipotesi di una connessione tra le strategie di politica estera degli USA e gli attacchi terroristici portava ad accuse di spietata eresia, l’allora consigliere della sicurezza nazionale degli USA, Condoleeza Rice, si mise immediatamente al lavoro. Tramite ostentazioni pubbliche angosciose e solenni riuscì a riunire gli alti gradi del Consiglio di Sicurezza Nazionale e a chiedere loro "come poter capitalizzare questa opportunità" per dare una svolta alla dottrina americana e, di conseguenza, alla forma del mondo. In un’intervista al New Yorker, sei mesi dopo, aveva affermato che gli USA non avrebbero esitato a consolidare il proprio ruolo negli equilibri planetari post-Guerra Fredda: "Credo che l’11 settembre sia stato uno di quei grossi terremoti che purificano e ripuliscono. Ora la situazione è molto più chiara".
A chi è interessato a mantenere il globo intatto, nella sua forma attuale, per poterci, un giorno, vivere pacificamente, attentati come quello del 7 luglio non danno le “opportunità” di cui sopra. Non "purificano" o "depurano", ma infangano e insanguinano le acque già inquinate. Man mano che emergono le identità dei dispersi, si passa da un conteggio statistico di corpi alla tragedia della perdita umana – fratelli, madri, amanti e figli crudelmente spazzati via mentre andavano al lavoro. Il momento per piangere queste perdite deve essere rispettato.
Allo stesso tempo, l’analisi contestuale e la valutazione critica del perché ciò sia accaduto, ci è utile per riflettere su cosa si può fare per limitare le possibilità che ciò accada di nuovo. Spiegare non significa giustificare, criticare non significa arrendersi.
Sappiamo cosa è successo. Un gruppo di persone, senza alcun rispetto per la legge, l’ordine o il nostro stile di vita, è venuto nella nostra città e l’ha distrutta. Senza riguardo per la vita umana o per le relative conseguenze politiche, usando la violenza come unico strumento di persuasione, ha massacrato persone innocenti, indiscriminatamente. Ci ha lasciato uniti nel dolore e risoluti nelle nostre convinzioni, creando una vera comunità dove prima non esisteva. Con gli assassini probabilmente ancora liberi, non esiste libertà civile così importante che qualcuno non concederebbe per la loro cattura e non esiste punizione troppo rigida che qualcuno non autorizzerebbe se essi fossero trovati.
Il guaio è che non c’è niente di ciò che si è detto su Londra che non si possa dire anche per Falluja.
Le due vicende non dovrebbero essere messe sullo stesso piano – con più di 1.000 persone uccise o ferite, metà delle sue abitazioni distrutte e quasi tutte le scuole e le moschee danneggiate o rase al suolo, quello che ha subito Falluja per mano dell’esercito USA, con il sostegno britannico, è stato molto più grave.
Ma possono e devono essere paragonate. Non abbiamo il monopolio del dolore, della sofferenza, della rabbia o della capacità di ripresa. Il nostro sangue non è più rosso, le nostre spine dorsali non sono più dure, né le nostre lacrime più abbondanti di quelli delle persone in Iraq e in Afghanistan.
Coloro che non riescono a immaginare e a comprendere la sofferenza che abbiamo causato nel Golfo, adesso hanno qualcosa di simile più vicino a casa con cui confrontarsi. Un "danno collaterale" ha sempre un volto umano: il dolore dei parenti, le comunità che lo ricordano e che chiedono di agire.
Queste regole umanitarie fondamentali risultano le vittime accidentali del fondamentalismo. Le stesse regole assenti dalle menti di coloro che hanno insanguinato Londra la scorsa settimana. Le stesse regole non meno assenti dalle menti di coloro che hanno perpetrato la guerra al terrore per gli ultimi quattro anni.
Tony Blair non è responsabile per gli oltre 50 morti e per i 700 feriti di giovedì. Con ogni probabilità, i responsabili sono i "jihadisti".
Ma è parzialmente responsabile per le 100.000 persone che sono state uccise in Iraq. E, anche in questa fase, torna la logica che univa Saddam Hussein all’11 settembre o alle armi di distruzione di massa.
Non è un mistero che coloro che hanno sostenuto la guerra in Iraq rifiutino questa connessione. Nonostante tutte le circostanze, dall’assenza dell’approvazione delle Nazioni Unite alla forza persistente delle proteste, essi la negano sempre più fermamente. Il loro sofisma ora si è trasformato in una forma di autismo politico – la loro abilità ad impegnarsi nel mondo che li circonda è stata compromessa dall’aderenza a un progetto sciagurato e mortale.
Affermare che i terroristi ci avrebbero scelto come loro bersaglio anche se non fossimo andati in Iraq ricorda il fumatore che giustifica il proprio vizio dicendo: "Potrei morire attraversando la strada anche domani". Vero, ma i rischi accertati per la salute causati dalle sigarette assomigliano alle gare d’auto su un’autostrada a quattro corsie. Hanno l’effetto di far arrivare al giorno fatale e decisivo molto prima di quando sarebbe altrimenti.
Similarmente, invadere l’Iraq ci ha resi un bersaglio.
Downing Street crede veramente di poter dichiarare guerra al terrore senza che il terrore ritorni indietro? Questa, di per sé, non è una ragione per ritirare le truppe se mantenerle là fosse la cosa giusta da fare. Ma poiché non lo è e non lo è mai stata, fornisce però una ragione impellente per cambiare orientamento prima che altra gente, in qualsiasi luogo, venga uccisa.
Il Primo ministro aveva in parte ragione quando sabato affermava: "Credo che questo terrorismo abbia radici molto profonde. Oltre a fare i conti con ciò che esso comporta – cercando di proteggerci , da società civile, nel modo migliore possibile – bisogna tentare di sradicarne le radici".
Ciò che Tony Blair non ha riconosciuto è che è la sua alleanza con George Bush che sta spargendo i semi dell’odio nel terreno del Golfo.
L’invasione - illegale, immorale e inefficiente – e l’occupazione dell’Iraq hanno fornito al mondo arabo un altro motivo, legittimo, di malcontento. Bush ha lanciato la sfida: o stai con noi o stai con i terroristi.
Un piccola minoranza di musulmani ha rivolto lo sguardo allo spettacolo messo in mostra ad Abu Ghraib, a Guantánamo Bay e a Camp Bread Basket – e ha fatto la propria scelta. La guerra ha aiutato a trasformare l’Iraq da una dittatura secolare e corrotta senza legami con il terrorismo internazionale in una calamita e in campo di addestramento per coloro determinati a commettere atrocità terroristiche. Nel frattempo, ha distolto la nostra attenzione e le nostre risorse da chi dovremmo veramente combattere, al Qaeda.
Nel febbraio del 2003 il ‘Joint Intelligence Committee’ (JIC) ha riferito che al Qaeda e i gruppi associati continuavano a rappresentare "la più grande minaccia agli interessi occidentali” e che questa minaccia sarebbe stata accresciuta da azioni militari contro l’Iraq. Al Forum Economico Mondiale, lo scorso anno, Gareth Evans, l’ex ministro degli esteri australiano e capo della commissione di esperti ‘International Crisis Group’ ( Gruppo per le crisi internazionali), ha affermato: "Il risultato finale a cui porta la “guerra al terrore” è più guerra e più terrore. Pensate all’Iraq: la ragione meno plausibile per andare in guerra – il terrorismo – è stata la sua peggiore conseguenza".
Niente giustifica quello che hanno fatto gli attentatori. Ma aiuta a spiegare come siamo arrivati al punto in cui siamo e cosa dobbiamo fare per rendere il nostro mondo più sicuro.
Se Blair non aveva realizzato che l’invasione ci avrebbe reso più vulnerabili, è stato terribilmente negligente; in caso contrario, deve assumersi le dovute responsabilità. Ciò non significa che meritiamo quello che è successo. Significa che meritiamo di meglio, di molto meglio.
Fonte: http://www.guardian.co.uk/comment/story/0,3604,1525706,00.html
Tradotto da Tanja Tion per Nuovi Mondi Media