giovedì 17 agosto 2006

Contro l'apologia della tortura


Risposte ad Angelo Panebianco


Rimando la mia risposta all'esimio professore per far posto ad alcuni interventi critici sul suo articolo "Il compromesso necessario", che ho copiato dal Corriere della Sera nel mio blog, QUI. Per me sono importanti le argomentazioni contro delle tesi in favore della tortura che si stanno diffondendo anche da noi grazie ai neo-teo-con nostrani, mentre la polemica col suddetto Panebianco non mi interessa punto.


Il Peso dei Principi


di Claudio Magris



In un suo articolo pubblicato sul Corriere di ieri, Angelo Panebianco, sostenendo la liceità e l' opportunità di ricorrere alla tortura di prigionieri quando ciò giovi a sventare stragi e a salvare vite umane e contestando eventuali obiezioni in nome dei princìpi dello Stato di diritto, scrive che «i princìpi servono solo se si resta vivi».


 


Indubbiamente non è trascurabile salvare la pelle, propria e altrui, e non è il caso di professare esaltati culti eroici, purissimi ideali indifferenti alle sorti umane e magari inclini alla gloria del monumento funebre. Tuttavia, talvolta accade di restare vivi perché qualcuno, in nome di quei princìpi, muore per difendere chi è minacciato. Anche in questo caso quei princìpi non servono, sono una zavorra retorica e astratta?


 


Se fosse così, quando ci si preparava a impedire che Hitler s' impadronisse di Danzica ossia diventasse il mostruoso padrone d' Europa e forse del mondo - ovvero si preparava una guerra, in cui molti non sarebbero restati vivi - avrebbero avuto ragione coloro che irridevano chi voleva «morire per Danzica».


 


Molti soldati americani sono morti per liberare l' Europa, ma dubito che la loro morte tolga valore ai princìpi che li hanno mandati a morire. L' insurrezione del ghetto di Varsavia perde senso per il fatto che pochissimi degli insorti sono rimasti vivi? Naturalmente si può e si deve dire che in ogni circostanza, a esempio pure nella Seconda guerra mondiale, si è agito e si agisce non solo per nobili princìpi ma anche, o soprattutto, per concreti e corposi interessi; quei soldati americani sono morti non solo per liberare il mondo dal nazismo, bensì per la potenza e gli interessi degli Stati Uniti. Ma in quel caso, come in molti altri, il perseguimento di quegli interessi era indissolubilmente legato alla difesa e all' affermazione dei princìpi di libertà e democrazia, così come pure l' opposizione al comunismo staliniano implicava la difesa di tanti interessi occidentali, ma anche, inestricabilmente, di basilari princìpi etico-politici.


 


Questi ultimi non sono chimere astratte o idealità vaporose, ma forze concretamente operanti nella storia; disconoscerne il ruolo e il peso è altrettanto ingenuo quanto disconoscere il ruolo e il peso degli interessi. La vita è certo un valore, ma non è detto sia il valore supremo; gli antichi ammonivano a non perdere, per amore della vita, per sopravvivere a ogni costo, le sue ragioni e il suo significato (propter vitam vivendi perdere causas); vivere torturando forse non è vivere. Chi vuol salvare la propria vita la perderà e chi è disposto a perderla la salverà, sta scritto nel Vangelo, testo non certo incline alle trombonate. Una corretta relazione tra princìpi morali e sopravvivenza presuppone da una parte equilibrio e dall' altra coraggio. Per ragioni generazionali, sono stato risparmiato dalla prova del fuoco e ignoro la portata del mio coraggio; temo e suppongo sia quella media di un professore universitario, poco propenso a tornare sugli scudi come gli eroi di Sparta. Certo, sarebbe meglio essere come l' avvocato Cornelio Brosio, che al processo del tribunale fascista a Torino, nell' aprile 1944, esamina con pignoleria e poi rifiuta di firmare la domanda di grazia perché contiene alcune espressioni contrarie ai suoi principi. Credo che, a essere così, si vive meglio, si è e si resta più vivi.  (dal Corriere della Sera, 14 agosto 2006)


 



Panebianco e le armi della morale. Flessibile



Alessandro Robecchi - Il Manifesto – 15 agosto 2006



Dev'essere un'estate ben debilitante se oltre alle insurrezioni di miliardari al Billionaire e i cortei infervorati di avvocati ci dobbiamo pure beccare le polemiche sulla tortura innestate da Angelo Panebianco sul Corriere. Ma si sa, siamo nati per soffrire, e dunque, tant'è.


In soldoni la tesi di Panebianco è di una semplicità disarmante: è lecito torturare qualcuno per avere informazioni che possano salvare molte vite? Si, no, non lo so, mettere la crocetta sulla risposta che interessa.


Panebianco, la mette sul sì, naturalmente. Accoglie con favore un «compromesso tra stato di diritto e sicurezza nazionale» e teorizza una «zona grigia a cavallo tra legalità e illegalità». A fin di bene, s'intende. E a proposito dei famosi principi (come quello di non torturare la gente, per esempio), Panebianco appare decisamente disponibile alla flessibilità: «I principi servono solo se si resta vivi». Spiritoso, eh!
Ottimamente gli risponde Claudio Magris (pure lui sul Corriere), volando molto alto, ma centrando due obiettivi dialettici decisamente acuminati.


Primo: è una fesseria dire che la morte tolga valore ai principi, tanto che (aggiungo io) sugli eroi che sono morti per i principi non si smette di dire quanto sono stati in gamba. Direi piuttosto che i morti, in certi casi, rafforzano i principi, e non li cambiano lì per lì come la biancheria.


Secondo (qui c'è il Magris filosofo), sarà pure vero che la vita è il bene supremo, ma che razza di vita è se per restare vivo devi torturare la gente? Buona domanda.
Fin qui il dibattito, non entusiasmante, direi, e nemmeno nuovo.


Ma ecco che nel «compromesso necessario» reclamato da Panebianco (modica quantità di tortura per evitare vittime), compare un virus infido e pericoloso. Già nell'argomentare, già nell'esporre la sua tesi, già nel delineare i suoi principi ad assetto variabile («che vanno adattati alle situazioni»), Panebianco si sposta più avanti: nelle nebbie del suo ragionamento già si delinea l'ombra minacciosa del nemico.


Già alla decima riga, bontà sua, Panebianco individua i nemici della sua teoria. Chi sono questi mollaccioni che non vogliono torturare la gente? Già, chi siamo? Piccolo identikit e tre profili possibili forniti direttamente da Panebianco.


Prima specie di rammolliti: il nemico interno indicato da Giuliano Ferrara (è uno scoppiettìo di intelligenze, come vedete), cioè quei politici italiani che sono alleati del terrorismo jihadista (tra i quali, secondo Ferarra, Rutelli e Repubblica, per dire che razza di jihadisti).


Seconda categoria: come scrive Panebianco «tante brave persone in buonafede», che però sono tutte un po' sceme dato che non concepiscono la guerra e dunque, cosa diavolo volete che ne sappiano (mentre forse Panebianco, chissà, ha fatto a schioppettate sul Carso).


C'è una terza categoria di rammolliti che non vogliono torturare la gente, e sarebbero i «neofiti» dello Stato di diritto. Sarebbe a dire gente che un tempo voleva fare la rivoluzione e poi (forse perché non torturata in tempo) si è innamorata di tangentopoli, di mani pulite e della legalità e ora crede che lo stato di diritto sia «un feticcio».


Insomma, per tirare le somme la faccenda è semplice: chi non sta con Panebianco o è complice, o è fesso. E' un'impostazione che lascia un po' perplessi e che diventa inquietante se colui che la formula teorizza pure una certa mobilità dei sacri principi, un astuto barbatrucco per legittimare la tortura.


Ma se diventano variabili i principi, mi chiedo, che ne sarà dei testi sacri? Urge correzione del Vangelo, forse basta una asterisco dopo i comandamenti. Non uccidere*. E sotto a caratteri più piccoli: *leggere attentamente il prospetto illustrativo, in caso di dubbi contattare Panebianco.




La tortura liberale


di Marco Travaglio






E così, ridendo a scherzando, siamo arrivati all'elogio della tortura e del sequestro di persona (purchè, si capisce, i destinatari siano islamici) sulla prima pagina del Corriere della sera. Il merito va tutto al professor Angelo Panebianco, il quale sostiene che la lotta al terrorismo non è roba da signorine e quindi bisogna piantarla con «l'apologia della legalità» delle mammolette convinte che «cose come la legalità, i diritti umani e lo stato di diritto debbano sempre avere la precedenza su tutto». Basta con il «feticcio» dello stato di diritto: «dalla guerra non ci si può difendere con mezzi legali ordinari». Dunque bisogna legalizzare quella «zona grigia a cavallo tra legalità e illegalità, ove gli operatori della sicurezza possano agire per sventare le minacce più gravi»: un «nuovo compromesso tra stato di diritto e sicurezza nazionale» che nasca dal «confronto tra politici, magistrati, avvocati e operatori della sicurezza». Solo così salveremo «lo Stato di diritto e la stessa democrazia».
Che razza di democrazia e di stato di diritto siano quelli che, per salvarsi, rinunciano ai loro fondamenti per adottare quelli del nemico che dicono di combattere, e che senso abbia cancellare la democrazia e lo stato di diritto per difenderli meglio, non è ben chiaro. Ma il professor Panebianco va capito. Da anni è afflitto da due gravi problemi esistenziali. Primo (più noto come «sindrome da Ostellino»): quando si parla di liberalismo, in Italia, tutti pensano a Einaudi, a Montanelli, a Sartori. Mai a Panebianco. C'è una sola persona convinta che Panebianco sia un liberale: Panebianco. Egli infatti ripete ogni tre per due di essere un liberale: per convincere gli altri,e fors'anche se stesso. Secondo: nel disperato tentativo di farsi notare da qualcuno, Panebianco è costretto a spararle sempre più grosse, anche a costo di abrogare la logica, il principio di non contraddizione, la decenza e il senso del ridicolo. Nel paese che ospita già Feltri, Borghezio e Calderoli, non è impresa da poco. Ma l'altro giorno Panebianco ha surclassato agilmente l'intera concorrenza, inneggiando alla tortura e alla deportazione, e riuscendo anche a evocare -a suffragio dei suoi delirii- imprecisati «liberali di antica data» (ma senza nominarli, forse per evitare querele dagli eredi).
Si potrebbe ricordare che il professor Panebianco è lo stesso che, appena un giudice intercetta o inquisisce o arresta o rinvia a giudizio un ladrone di Stato con tutte le prove e i crismi di legge, vien colto da convulsioni, strilla al giustizialismo e invoca Amnesty International. Ma la contraddizione è solo apparente: per i garantisti a targhe alterne, le garanzie valgono solo per i signori, non per i baluba islamici. I signori sono innocenti anche dopo condanna definitiva. I baluba sono colpevoli anche senza essere indagati, per definizione. Torturateli e deportateli pure.
Ora, per quanto sia difficile, proviamo a prendere sul serio il Panebianco: è la peggior punizione che gli si possa infliggere. E immaginiamo i dettagli del «compromesso fra sicurezza e legalità» da lui auspicato per consentire anche alle democrazie occidentali di torturare e deportare i nemici o presunti tali.
1) Se tua figlia ti porta a casa un fidanzato marocchino, o peggio ancora nero, è la prova che i due preparano un attentato. Dunque fai come i pakistani di Brescia: ammazzala e sotterrala nell'orto. Poi, visto che non sei razzista, fai lo stesso con lui. Basta con questo tabù della pena di morte: anzi,privatizziamola.
2) Se il tuo vicino di casa cucina il cuscus o -Dio non voglia- il kebab, leggigli la posta e infìltrati in casa sua travestito da colf, oppure avverti subito il Sismi e l'agente Farina Doppio Zero, per poterlo spiare, intercettare e pedinare. Non si sa mai. Dal cuscus al plastico, si sa, il passo è breve.
3) Se incontri un tizio con una faccia che non ti piace, massacralo di botte. Tu non sai perché, ma lui potrebbe saperlo. Chi ti dice che non stia per saltarti addosso col gilet imbottito di tritolo? È la guerra preventiva. Se quello obietta, spiegagli che stai percorrendo «la zona grigia a cavallo tra legalità e illegalità».
4) Se, una volta menato a sangue, quello non confessa la sua appartenenza ad Al Qaeda, strappagli le unghie dei piedi. E, se insiste nel suo silenzio, procedi con quelle delle mani, poi con gli elettrodi ai testicoli. È vero che potrebbe tacere perché non ha niente da dire, o magari è muto, ma non lasciarti ricattare da questi feticci buonisti: al suo paese le mani, i piedi e i testicoli li tagliano direttamente. Dunque è già fortunato a trovarsi in Italia.
5) Mentre lui rantola agonizzante, spiegagli che stai difendendo dal terrorismo la democrazia liberale e lo stato di diritto. E se lui obietta che ti comporti come i terroristi, spiegagli che c'è una bella differenza: tu torturi col permesso del professor Panebianco, i terroristi invece senza.
6) Se, dopo il gatto a nove code, il bagno nelle ortiche, l'impalamento, il tubo che collega il suo esofago e lo scarico della vasca da bagno e i due giorni passati a penzolare da un albero a testa in giù cosparso di miele, ti venisse la tentazione di fiaccare la sua resistenza leggendogli un editoriale del professor Panebianco, quello è il momento di fermarti: nemmeno la lotta al terrorismo può giustificare una forma così efferata di sevizie. da L'Unità - 15 agosto 2006


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Chi gioca con la tortura


Gian Carlo Caselli





Sono un nano, lo so. E da sempre mi intimidiscono i giganti del pensiero come il professor Angelo Panebianco. Ma ancor più mi sconvolge la loro disinvoltura quanto discettano di Stato di diritto. La sanno sempre più lunga. Sia quando criticano (giustizialismo! vade retro satana!) chi vorrebbe applicare le regole anche a coloro che possono e contano e non soltanto ai poveracci. Sia quando discettano sulla tortura, anche in questo caso ammettendo la liceità di strappi alle regole per meglio tutelare la «sicurezza». Saranno giganti, saranno campioni di democrazia liberale, ma forse non si accorgono che le loro brillanti riflessioni sugli «aspetti più spiacevoli dell´esistenza» rischiano di innescare un circolo vizioso pericoloso. Perché si legittimano nuovi poteri, così assoluti da costituire essi stessi un problema per le libertà e per la democrazia, nel momento stesso in cui si sostengono azioni finalizzate - si dice - proprio alla tutela e all´esportazione di questi valori.

È il caso di chi - appunto - teorizza l´ineluttabilità, se non la necessità, di «zone grigie», di «compromessi», di «scelte di riduzione del danno» a fronte della minaccia terroristica. Le denunzie, sempre più frequenti e documentate, secondo cui maltrattamenti e torture sono ormai praticati con sistematica protervia non preoccupano per nulla. Il problema non è l´incivile diffusione della tortura. Interessa di più provare a giustificarla, la tortura: sostenendo che potrebbe esservi una tortura "buona" e quindi tollerabile. Una tesi che dovrebbe fare rizzare i capelli in testa. A tutti. Invece c´è chi vi si esercita (Panebianco non è il solo; c´è persino chi auspica la previsione in certi casi di un mandato del giudice... a torturare), perché la lotta al terrorismo non ammetterebbe cedimenti o indulgenze. Sono bestemmie. Aberrazioni che invece di aggredire le ingiustizie (come la tortura) capaci di generare nuova rabbia e nuova violenza, creano ingiustizie sempre più gravi.

Vero è che la sicurezza è un bene fondamentale (da sempre obiettivo delle migliori intelligenze e dell´impegno più intenso), ma è altrettanto vero che non può essere un tema esclusivo. Altrimenti, c´è il rischio che i diritti e le garanzie diventino ostaggio della sicurezza. Che un sistema politico debba ispirarsi a logiche di sicurezza è ovvio. Ma attenzione a non avvitarsi dentro logiche contorte ed inefficaci. A non fare come Penelope: gridando pace di giorno, ma preparando ingiustizie (e violenze) di notte.

Se poi volessimo essere cinici anche noi (nani), considerando i princìpi alla stregua di un taxi e trattando le regole come fossero chewing-gum, potremmo aggiungere che impegnarsi seriamente sul versante delle garanzie e dei diritti, non accantonandone la pratica effettiva a tempi migliori (non più di "stato d´eccezione"), non solo è buono e giusto: è anche conveniente, è un antidoto contro possibili trappole. Un antidoto che ai tempi del terrorismo brigatista degli anni 80 (stellarmente diverso dal terrorismo internazionale di matrice islamica e tuttavia ancora utile per alcune indicazioni di massima) abbiamo sperimentato in concreto. Qual era la teoria dei brigatisti? Era che la rivoluzione non si processa, che la lotta armata non può essere fermata da un codice penale.

Ma insieme a queste "riflessioni" c´era quella, fondamentale nella logica brigatista, che lo Stato democratico non esiste, è puramente e semplicemente una finzione, un paravento, una maschera. Noi brigatisti - dicevano - un colpo dopo l´altro, cioè un omicidio dopo l´altro, una gambizzazione dopo l´altra, un sequestro dopo l´altro, faremo cadere questa maschera, disveleremo il volto autentico dello Stato: volto autentico che non è democratico ma reazionario e fascista, di negazione dei diritti, di ogni possibilità di progresso, in particolare di crescita del proletariato, delle classi sociali più bisognose.

E quando questo vero volto dello Stato sarà disvelato, ecco che le masse - avendo finalmente capito, grazie a noi brigatisti, come stanno davvero le cose - si ribelleranno e ribellandosi si riuniranno automaticamente intorno all´avanguardia organizzata già esistente che siamo noi delle Br, innescando la palingenesi rivoluzionaria.

È evidente che semplifico molto, che brutalizzo concetti che persino i brigatisti esponevano a volte in maniera più sofisticata. Ma è per intenderci, per capire che siamo riusciti a non cadere nella trappola tesa dai brigatisti. Perché la risposta al terrorismo brigatista, dal punto di vista legislativo, ha raschiato - lo ha detto più volte la Corte Costituzionale - il fondo del barile della corrispondenza ai precetti costituzionali, ai principi portanti dello stato di diritto, ma non è mai andata oltre. Abbiamo elaborato una legislazione "specialistica" mirata sulla realtà specifica dei fenomeni da affrontare, ma non abbiamo creato tribunali speciali o procure speciali, a differenza di altri Paesi di democrazia occidentale che lo hanno fatto.

Abbiamo cercato risposte anche utilizzando in pieno gli strumenti della democrazia: la libertà di riunione, il confronto, il dibattito, il dialogo e via seguitando (penso alle migliaia di assemblee sul terrorismo che han consentito di spazzar via gli equivoci mefitici dei «compagni che sbagliano» o l´assurdità paralizzante del «né con lo Stato né con le Br»). Ciò che alla fine ha creato un forte, decisivo isolamento politico intorno ai terroristi, che - a partire da questo momento - invece di continuare ad illudersi di essere le avanguardie di qualcuno, hanno capito di essere le avanguardie soltanto di sé stessi e hanno cominciato ad afflosciarsi dal punto di vista politico (e psicologico), entrando in una crisi irreversibile.

Ecco, non siamo caduti nella trappola di tirare fuori, ammesso che davvero fosse nascosto da qualche parte, il volto fascista, reazionario, repressivo, spietato senza se e senza ma, dello Stato che loro - i brigatisti - pretendevano di evocare in tutti i modi. E questo indubbiamente ci ha aiutati a risolvere meglio i problemi posti dal terrorismo.

Oggi, chi filosofeggia teorizzando la legittimità della tortura e quindi accettandone la pratica, ci fa correre il rischio concreto di cadere in una trappola del tipo che per fortuna al tempo del brigatismo rosso non scattò. Una trappola che potrebbe pure farci perdere punti di orientamento molto importanti, invece di aiutarci a veder chiaro anche nella scelta delle risposte più opportune a livello repressivo. Non ci conviene.

E le «ipotesi di scuola» utilizzate dal professor Panebianco per «fare scandalo» (?) non sono soltanto inaccettabili. Sono anche un boomerang.



Pubblicato il 16.08.06 - L'Unità






 

mercoledì 16 agosto 2006

Hina



Quali onori rendere a questa giovane amante della vita e della libertà, dei sentimenti non imposti e della bellezza del mondo? Deve esserle stata necessaria una determinazione fortissima per difendere la sua dignità di essere umano libero di fronte a uomini grandi e grossi di cui conosceva la capacità di violenza. Alla sua dignità e al suo coraggio voglio rendere omaggio, prima ancora di piangere l'orrore della sua morte per mano del "religioso" padre e di altri due omaccioni, religiosi anche loro.


La violenza assassina contro le donne e i bambini (non dimentichiamo i bambini!) è quasi abituale nella nostra società. Abbiamo da poco sepolto la dolce Jennifer Zacconi e il suo bambino non nato, sepolti vivi da un omaccione in Veneto. E ricordiamo ancora l'uccisione a Messina di Brunetta Morabito, appena diventata madre, per mano del fratello in preda a un rigurgito di un maschile senso dell'onore? E il genocidio delle bambine in India, in Cina e in chissà quante altre parti del mondo non rientra forse in questo quadro di crimini maschili contro le donne?


Non sto dichiarando guerra agli uomini, anzi sono sicura che solo insieme, le donne e gli uomini, potranno fare questo necessario salto di civiltà. Spesso le donne sono complici, più o meno consenzienti, e carnefici anche loro.


Ma per Hina e per le infelici sorelle come lei chiedo che siano innanzitutto i "capi religiosi" a farsi carico dell'educazione dei loro proseliti, sui quali hanno certo un'influenza che può vincere anche le più radicate e inumane tradizioni tribali. Perché qui alle istituzioni religiose e a malintesi sensi religiosi, vanno attribuite enormi responsabilità e colpe.


Colpe e crimini contro l'umanità. Si mettano in moto tutte le cattedre religiose, insisto su quel "tutte", per rimuovere antiche violenze e promuovere quella che loro chiamano la volontà divina. Predichino il rispetto dei diritti umani. E ricordino che il diritto alla vita non si può realizzare senza il diritto all'uguaglianza, alla libertà e alla giustizia.

martedì 15 agosto 2006







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Sicurezza e fondamentalisti della legalità



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Il compromesso necessario



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di Angelo Panebianco

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Facciamo un'ipotesi, di fantasia ma non proprio del tutto implausibile. Immaginiamo che tra qualche mese venga fuori che l'Apocalisse dei cieli, il grande attentato destinato a oscurare persino gli attacchi dell'undici settembre, con migliaia e migliaia di vittime innocenti, sia stato sventato solo grazie alla confessione, estorta dai servizi segreti anglo-americani tramite tortura, di un jahadista coinvolto nel complotto, magari anche arrestato (sequestrato) illegalmente. Chi se la sentirebbe in Occidente di condannare quei torturatori? La risposta è: un gran numero di persone. In Italia più che altrove.

La cosa interessante è che a emettere sentenze di condanna senza nemmeno riconoscere l'esistenza di un «dilemma etico» nella vicenda in questione non ci sarebbero solo quelli che Giuliano Ferrara sul Foglio ha definito gli appartenenti al «nemico interno» (il quale esiste, eccome), alleato di fatto del terrorismo jahadista. No, fra coloro che condannerebbero i torturatori senza dubbi né tentennamenti ci sarebbero anche tante brave persone in buona fede che hanno orrore del terrorismo ma che credono che cose come la legalità, i diritti umani e quello che chiamano (in genere, senza sapere bene cosa sia) lo «stato di diritto» debbano sempre avere la precedenza su tutto: anche sulla salvezza di migliaia di vite umane.

Come si spiega che in Italia più che altrove sia venuta totalmente meno l'idea (che però resiste in altri Paesi occidentali, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, alla Francia) che la convivenza democratica possa poggiare solo su un compromesso, precario quanto si vuole, ma pur sempre un compromesso, fra stato di diritto e sicurezza nazionale? La spiegazione deve mettere in gioco vari elementi.

- C'è in primo luogo il lunghissimo periodo di pace che abbiamo alle spalle. Quella fortunata età dell'oro che è stata la lunga pace post '45 ha reso un gran numero di persone, soprattutto quelle nate dopo la Seconda guerra mondiale, incapace persino di mettere a fuoco l'idea di «nemico», il nemico vero, assoluto, quello che ti ucciderà se non riuscirai a neutralizzarlo. Per queste persone, la guerra è un fenomeno letteralmente incomprensibile. Ciò le rende disponibili a credere che la guerra dichiarata all'Occidente dal terrorismo jahadista possa essere affrontata con gli stessi strumenti con cui ci si difende dai ladri di polli o dai rapinatori di banche.

- La seconda ragione ha a che fare con la vicenda italiana recente. La caduta dell'Urss e la successiva vicenda di Mani pulite determinarono in molte persone, all'inizio degli anni 90, una singolare metamorfosi: esse passarono, senza soluzione di continuità, dagli ammiccamenti per la Rivoluzione (fra tutti gli eventi, il più «illegale» che si possa immaginare) alla apologia della «legalità». Da bravi neofiti costoro hanno trasformato lo «stato di diritto» in una specie di feticcio davanti a cui ci si dovrebbe solo inchinare acriticamente.

Nessuno ha spiegato loro che lo stato di diritto è solo uno strumento, altamente imperfetto, che serve a regolare i rapporti entro la comunità democratica in condizioni di normalità. Uno strumento che fallisce quando scatta l'emergenza, quando qualcuno ti dichiara guerra. Sono questi neofiti che, se uno osa dire che dalla guerra, anche quella asimmetrica, non ci si può difendere con mezzi legali ordinari, gli spiegano subito con sussiego che se la democrazia non rispetta rigorosamente la «legalità» diventa come i terroristi la vogliono. Dimenticando che i principi vanno sempre adattati alle situazioni e che servono solo se si resta vivi.

A differenza dei neofiti della legalità, i liberali di antica data hanno sempre saputo che lo stato di diritto deve convivere, se si vuole sopravvivere, con le esigenze della sicurezza nazionale. Il che significa che si deve accettare per forza un compromesso, riconoscere che, quando è in gioco la sopravvivenza della comunità (a cominciare dalla vita dei suoi membri), deve essere ammessa l'esistenza di una «zona grigia», a cavallo tra legalità e illegalità, dove gli operatori della sicurezza possano agire per sventare le minacce più gravi.

I neofiti della legalità non lo capiranno mai ma questo compromesso è anche l'unica cosa che, in condizioni di emergenza, possa salvare lo stato di diritto e la stessa democrazia. Perché quando arrivano le bombe, quando le strade si tingono di sangue, o ci affida a quel tacito compromesso oppure si deve scontare l'inevitabile reazione che porterà, prima o poi, dritto filato verso soluzioni autoritarie.

Le democrazie più salde e consolidate ne sono consapevoli e per questo difendono quel compromesso. Il rischio è che una malintesa, fondamentalista, visione della legalità ci porti ad abbassare drammaticamente le difese, per esempio a isolare i nostri addetti alla sicurezza dal resto dei servizi segreti occidentali, perdendo così l'input più prezioso nella guerra simmetrica contro il terrorismo: le informazioni.
Una classe dirigente degna di questo nome non può fare finta di nulla.

È assolutamente necessario, come dimostrano anche i contraccolpi dell'inchiesta giudiziaria sul sequestro di Abu Omar, che un confronto tra politica, operatori del diritto (magistrati, avvocati) e operatori della sicurezza abbia luogo. Per ricostituire quel compromesso tra stato di diritto e sicurezza nazionale che in Italia, proprio in uno dei momenti più cupi e pericolosi della storia recente dell'Occidente, è venuto meno. È un'esigenza vitale. Letteralmente.








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Caro diario, ho aspettato un paio di giorni prima di copiare e incollare qui l'articolo di Panebianco in favore dell'uso della tortura, ovviamente in casi eccezionali, la cui eccezionalità sarà decisa dallo stesso egregio giornalista e da altre menti illuminate come la sua, dopo la consultazione di maghi e quant'altro, suppongo. Ho esitato per una questione di incredula ripulsa. Ma oggi, eccelso giorno di festa, voglio dedicare un'attenzione particolare a chi viene sventuratamente a trovarsi in quella "zona grigia" di cui parla il Panebianco senza alcuna preoccupazione non solo riguardo alla recentissima nozione di "diritti umani", ma anche e soprattutto al dubbio di mettersi a torturare una persona innocente o anche soltanto non in possesso delle informazioni che si vogliono estorcere.


Abbiamo impiegato millenni per arrivare all'  Articolo 5 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ( 10 dicembre 1948 ) che recita:



"Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumane o degradanti."




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Forse per questo il Panebianco ci chiama "neofiti della legalità" e "fondamentalisti della legalità? Risponderò al professore, affidandomi non alla sola emotività ma alla storia e alla filosofia del diritto, discipline che con tutta evidenza  l'illustre non mastica bene.





giovedì 3 agosto 2006

Se solo fossimo in grado di sentirci europei e volessimo fare una politica europea di soluzione dei conflitti, proprio noi europei, col nostro passato remoto e recente di guerre e atrocità!


La crisi di Tehran
nelle mani dell’Europa


Terence Ward 


con Daniele Castellani Perelli - 10 marzo 2006


Stati Uniti e Gran Bretagna non hanno credibilità in Iran. La questione del nucleare di Tehran è nelle mani dell’Europa, che deve lavorare a stretto contatto con Cina e Russia, senza dimenticare che il nucleare è l’unico tema in grado di mettere d’accordo tutti in Iran.


Terence Ward è uno scrittore americano cresciuto in Arabia Saudita e in Iran. Cosmopolita e poliglotta, è consulente per aziende che operano nel mondo islamico. Alla sua vita di americano in Iran ha dedicato un romanzo di grande successo, applaudito dalla migliore stampa americana e prossimo ormai alla trasposizione cinematografica. In Alla ricerca di Hassan (Ponte alle Grazie 2003 e TEA), Ward torna in Iran dopo 30 anni alla ricerca del suo vecchio educatore persiano, e l’occasione è ottima per raccontare come è cambiato il paese che forse egli ama di più. Lo abbiamo incontrato a Roma ad un convegno organizzato dal Centro studi americani, in cui ha preso la parola insieme a Giancarlo Bosetti e al grande scrittore israeliano Abraham Yehoshua.


Per noi occidentali la fantasia dei media è diventata realtà – ci dice Ward, molto severo verso la politica dei neocon di Bush – I nostri media descrivono la stessa immagine dell’Iran che vuole comunicare il regime di Tehran. E così pare che i nostri ayatollah lavorino insieme ai loro ayatollah.


Come è cambiato l’Iran rispetto agli anni Sessanta, gli anni della sua infanzia a Teheran?


E’ cambiato molto, ma quello che vediamo in tv è esattamente l’opposto di quello che si può vedere vivendo in Iran. In questo clima di grande paura, i media occidentali scelgono di proiettare una particolare immagine dell’Iran, un’immagine che è diventato difficile discutere, perché la fantasia dei media è diventata realtà. Gli unici iraniani che vediamo in tv sono quel centinaio di persone che vengono pagate dal regime per manifestare contro l’Occidente, mentre non vedremo mai i dodici milioni di teheraniani che quel giorno rimangono a casa. Non vedremo mai gli Hassan (l’iraniano protagonista del romanzo dell’autore, ndr) che si svegliano la mattina, che studiano, che vanno al lavoro, che sognano un futuro per le proprie figlie. Il mio amico Hassan non è mai andato a scuola in vita sua. Ha cominciato a lavorare all’età di sei anni, mentre sua moglie a quattro anni già cuciva tappeti, eppure tutti i loro figli sono andati all’università e uno di loro ha anche conseguito un master in ingegneria elettronica. Questo è l’Iran che sui media occidentali non vedremo mai.


Un paese cambiato così tanto da essersi affidato all’ultraconservatore Ahmadinejad.


Una cosa fondamentale da capire sull’Iran è che l’attuale governo non rappresenta per nulla gli iraniani. I giovani sotto i 30 anni, che sono il 70% della popolazione, sono altamente istruiti. In fin dei conti non possono incolpare gli occidentali di nessuno dei loro problemi, ma solo chi li ha governati finora. Il paese cambierà, e tutti lo sanno. La questione è capire solo se l’Occidente cadrà nella trappola che gli stanno tendendo gli ultraconservatori.


Lei dice che il presidente Ahmadinejad non rappresenta per nulla il popolo iraniano. Però è stato il popolo a votarlo.


Ahmadinejad rappresentava gli iraniani in un messaggio chiaro che era riuscito a comunicare e a offrire: arricchire i poveri. Il paese, nonostante le sanzioni e i problemi, ha buoni standard di vita e infrastrutture molto avanzate. Ahmadinejad prometteva di rimediare agli squilibri sociali, ben sapendo di poter attingere alle ingenti entrate del petrolio e ben sapendo che la maggior parte della ricchezza è nelle mani di gruppi semiprivati governativi, che sono una sorta di cooperative controllate da certe fazioni dell’Ayatollah. Per questo è stato eletto, e non perché prometteva di isolare l’Iran, di attaccare verbalmente Israele o di impegnarsi nella questione del nucleare. Ed è stato eletto anche perché la sua controparte, Akbar Hashemi Rafsanjani, è visto come un uomo che si è arricchito grazie alla guerra in Iraq.


E ora la gente è delusa dal governo dell’ex sindaco di Teheran?


Ci sono moltissime persone che disapprovano il suo esecutivo. Non solo tra i pragmatici riformisti, ma anche tra i conservatori, perché Ahmadinejad dice che presto tornerà il Mahdi (il dodicesimo imam che, secondo gli sciiti, tornerà a salvare il mondo, ndr) ed è come se un cattolico annunciasse l’arrivo dell’apocalisse: non tutti i cattolici sarebbero d’accordo. In entrambi i casi si annuncia la fine del mondo, ed è uno scenario che mette a disagio molte persone. Tutto questo per dire che in Iran esistono oggi molti conflitti, e quello principale non è tra l’Iran e l’Occidente, ma tra l’Iran e se stesso. Gli ultraconservatori sperano nell’isolamento dell’Iran, perché questo permetterebbe loro di avere il controllo del paese per altri 5-10 anni.


La comunità internazionale è sempre più preoccupata. Ultimamente anche la Francia di Jacques Chirac sta alzando la voce. Cosa pensa della possibilità di sanzioni nei confronti di Teheran?


Tutte le esperienze passate ci dicono che non funzionano, non scalfiscono il regime, e anzi le sanzioni contro l’Iraq hanno rafforzato a suo tempo Saddam Hussein. Usa e Europa sono consapevoli del fatto che non si deve penalizzare il popolo iraniano, che è un grande popolo. Il problema è che tutti, in Iran, sostengono il diritto di perseguire attività nucleari, da quelli che sono per lo Scià ai democratici, dai liberali ai conservatori, e così il tema del nucleare è l’unico in grado di ricompattare i conservatori.


Un mio amico iraniano mi ha detto: “Pare che i vostri ayatollah lavorino insieme ai nostri ayatollah”. E’ vero. Ahmadinejad e Bush sono entrambi anti-intellettuali, nascondono la propria ignoranza proclamandosi attori di una missione divina, sono patologicamente paranoici, attaccano tutti i moderati e i pacifisti come traditori, e pretendono che questa sia una battaglia tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Usano lo stesso linguaggio, operano la stessa politica della paura, spiano o stilano dossier sui propri oppositori. America e Iran hanno bisogno l’una dell’altra, si considerano nemici, e senza l’altra perderebbero parte della propria identità.


Le minacce verbali avanzate da Ahmadinejad nei confronti di Israele cambiano però il quadro, e rendono più delicata la questione del nucleare.


E’ vero. Ma ci vorranno altri sei anni prima che l’Iran possa dotarsi delle armi nucleari. Siamo sicuri che abbiamo bisogno di una guerra oggi? E qualche attacco aereo agli impianti nucleari risolverebbe la questione? Si stima che sarebbero necessari mille raid aerei, su 15-20 siti che circondano centri abitati. Non sento mai nessuno porsi la questione morale: sottoporre 3 milioni di persone a radiazioni pur di risolvere la questione. Significa che quei 3 milioni di iraniani sono sacrificabili? Mille raid non sono un attacco, sono una guerra. Ci sono vie per trattare? Rimpiazzando Mossadeq (il primo ministro iraniano rimosso nel 1953 dalla Cia e dalla Gran Bretagna, ndr) l’Occidente ha scoperto Khomeini. Non sostenendo e incentivando i riformisti di Khatami, ora ci ritroviamo Ahmadinejad.


E allora cosa dovrebbero fare i paesi occidentali, se le sanzioni non sono praticabili?


I paesi occidentali avrebbero dovuto fare molto negli 8 anni in cui Khatami è stato al potere. Avrebbero dovuto finanziare il più possibile quel governo. Io sono cresciuto nel Medio Oriente, e sono abituato a pensare in termini di causa-effetto. Negli Usa, che io chiamo gli “Stati Uniti d’Amnesia”, nessuno si è mai chiesto perché gli americani siano presenti in Medio Oriente.


Sì, ma cosa dovrebbe fare ora l’Occidente?


Oggi il problema è enorme. Condoleezza Rice ha appena annunciato lo stanziamento di 75 milioni di dollari per educare gli iraniani alla democrazia. Dove erano 7 anni fa? A cosa pensavano? Temo che ci troviamo di fronte a due gruppi terribilmente irresponsabili che capiscono solo il conflitto come strumento per rimanere al potere. Così ora la questione è nelle mani dell’Europa. Deve lavorare a stretto contatto con la Cina e la Russia. La Gran Bretagna, in Iran, è una potenza coloniale ed è malvista dalla popolazione. Come gli Stati Uniti, ha ben poca credibilità nel paese. Guardiamo cosa sta succedendo dall’altra parte del mondo. In Corea del Nord , un paese che possiede il nucleare, abbiamo sei potenze sedute al tavolo del negoziato, pronte ad offrire incentivi. Il governo di Washington ha interrotto per un anno le trattative. Ci si chiederà: sarà stato per un motivo grave e terribile? No, accusavano i nordcoreani di falsificare dollari. Ma allora gli americani dovrebbero rompere i rapporti anche con l’Italia e la Russia! Questa amministrazione vuole risolvere la situazione senza l’uso delle armi? Il mio sospetto è che siano solo dei cowboy, di cui non mi fido per niente. Che siano l’impero più isolato e provinciale di tutti i tempi, senza nessuna conoscenza del mondo.


Nel suo libro lei scrive che, quando era piccolo, in Iran la festa più amata dai bambini era quella delle Nazioni Unite. Quanto prestigio è rimasto oggi all’Onu, presso il popolo iraniano?


Per decenni l’Onu è stato visto come un forum presso cui l’Iran doveva acquisire credibilità e rispetto. Oggi però è visto come un’espressione dei suoi donatori, più che come un forum delle nazioni. L’ex presidente Khatami si è impegnato moltissimo per il dialogo tra le culture, in un’iniziativa che ha trovato il consenso dello stesso segretario generale Kofi Annan. Se l’Onu diventa espressione della volontà politica di Usa e Gran Bretagna, è difficile che continui ad essere rispettato dagli iraniani.


Nel suo romanzo sua madre ad un certo punto dice che “l’America è come un’isola, staccata dal resto del mondo. Molte persone non comprendono la realtà”. Leggendo il suo libro viene da pensare: Terence Ward non è molto fiero di essere americano.


Sono cresciuto con certi ideali, come democrazia, libertà, giustizia. Poi nel sud degli Stati Uniti vedi che invece c’è razzismo. Vedi il maccartismo, vedi che quei valori americani vengono traditi dalla politica, e ti chiedi se puoi accettare il tuo paese così com’è. L’America oggi è isolata, e può uscire dal suo isolamento solo attraverso la cultura, il lavoro, la responsabilità. Tutte cose che oggi non vengono comunicate. I media americani comunicano solo fantasia, evasione, superficialità. Niente fatti. La nostra, purtroppo, è la più grande società dell’intrattenimento e probabilmente la meno colta. Purtroppo anche in Italia la situazione è simile. Menzogne, superficialità del messaggio, un premier che vuole assomigliare a una velina e che tramite le sue televisioni è riuscito ad abbassare il livello dell’intelligenza e dei valori di questa nazione. La storia della tv italiana e di quella americana è parallela, con la differenza che in Italia il capo del governo possiede direttamente le televisioni. Questa non è democrazia. Noi sappiamo cosa potrebbero essere i nostri paesi, e ci spezza il cuore sapere in che direzione stiano andando. Il denaro non è l’unico valore del mondo, perché i veri valori sono il rispetto, la compassione, l’impegno sociale, l’arricchimento attraverso le culture. E’ possibile che in meno di dieci anni governanti ignoranti, ricchissimi e avidi di potere siano riusciti a stracciare questi valori?


Crede che verso il Medio Oriente l’Europa abbia una sensibilità diversa rispetto all’America?


Senza dubbio. Paesi come l’Italia, la Spagna e la Grecia, in virtù della loro sensibilità mediterranea e del fatto che non siano state potenze coloniali, possono fare da mediatori. Il mediatore, l’honest broker, è terribilmente importante nel Medio Oriente, e deve avere la fiducia di entrambe le parti, cosa che per motivi storici non possono vantare né Usa né Gran Bretagna, ma solo l’Unione Europea.


Caro diario, il libro di Terence Ward è straordinario. Soprattutto per me, perché l'Iran e gli iraniani che vi sono descritti sono quelli che io stessa ho conosciuto e che ricordo con affettuosa nostalgia. Ho trovato oggi questa intervista che, da una parte, mi preoccupa, ma, dall'altra mi infonde tante speranze. Gli iraniani hanno affrontato e superato prove difficilissime nella loro storia millenaria. Perché non dovrebbero riuscirci anche questa volta?


Fonte dell'intervista: Caffè Europa  >>>>>

mercoledì 2 agosto 2006

Una lettera da Beirut


L'ho trovata nel blog The terminal (post del 31 luglio 2006).


Penso che sia un insostituibile documento di vita quotidiana che può allargare la comprensione e magari creare una possibilità di immedesimazione.

martedì 1 agosto 2006

Quando è cominciato tutto questo?




"Quando e dove è iniziata questa guerra? Poco dopo le nove ora locale, mercoledì 12 luglio, quando i militanti di hezbollah hanno sequestrato Ehud Goldwasser e Eldad Regev, riservisti israeliani all'ultimo giorno del loro periodo di richiamo, durante un'incursione oltre confine, nel nord di israele? Venerdì 9 giugno, quando bombe israeliane hanno ucciso almeno sette civili palestinesi su una spiaggia nella striscia di gaza? A gennaio di quest'anno quando Hamas ha vinto le elezioni legislative palestinesi, trionfo a doppio taglio della politica americana di democratizzazione? Nel 1982, quando Israele invase il Libano? Nel 1979, con la rivoluzione islamica in Iran? Nel 1948, con la creazione dello stato di israele? O si va alla Russia della primavera del 1881?".


Sono queste le domande che si pone Timothy Garton Ash nell'articolo "I doveri che nascono dalle colpe europee". Per continuare così:


"Che risposte complicate esigono le domande semplici. Pur concordando sui fatti fondamentali, si discute su ogni termine: militanti, soldati o terroristi? Sequestrati, catturati o rapiti? Ogni volta che si prende in esame un avvenimento lo si interpreta. E in storie come questa ogni orrore verrà spiegato o giustificato in riferimento a qualche orrore precedente.


Di tirannia in tirannia alla guerra
Di dinastia in dinastia all´odio
Di infamia in infamia alla morte
Di scelta politica in scelta politica alla tomba...


La canzone è vostra. Arrangiatela come volete", scrive il poeta James Fenton, nella sua Ballata dell´Imam e dello Shah. Tuttavia osservando le reazioni europee al conflitto in atto voglio ribadire la tesi secondo cui l´Europa ne è tra le prime cause, come essa stessa sostiene con forza. I pogrom russi del 1881, la folla in Francia che gridava "a´ bas les juifs" mentre al Capitano Dreyfus venivano strappate le mostrine all´École Militaire, la piaga dell´antisemitismo in Austria attorno al 1900 che plasmò Adolf Hitler fino ad arrivare all´Olocausto degli ebrei europei e alle ondate di antisemitismo che sconvolsero parte dell´Europa nel periodo immediatamente seguente.


Fu questa storia di rifiuto sempre più radicale da parte europea, dagli anni ´80 dell´ottocento agli anni ´40 del novecento a fare da volano al sionismo politico, all´emigrazione degli ebrei in Palestina e infine alla creazione dello stato di Israele. "Fu il processo Dreyfus a fare di me un sionista", disse Theodor Herzl, padre del moderno sionismo. Dato che l´Europa decise che ciascuna nazione dovesse avere un proprio stato, non avrebbe accettato come membri a pieno titolo della nazione francese o tedesca neppure gli ebrei emancipati e infine divenne scenario del tentativo di sterminio di tutti gli ebrei, questi ultimi dovevano necessariamente trovare la loro patria nazionale da qualche altra parte.


La patria, nella definizione amata da Isaiah Berlin, è il luogo in cui, se devi andarci, sono tenuti ad accoglierti. E mai più gli ebrei andranno come agnelli al macello. Da israeliani combatteranno per la vita di ogni singolo ebreo. Gli stereotipi del diciannovesimo secolo dei tedeschi Helden e degli ebrei Händler si sono invertiti. I tedeschi e con loro gran parte degli europei borghesi di oggi, sono diventati gli eterni commercianti, gli ebrei in Israele gli eterni guerrieri.


Ovviamente questo è solo un filo in quello che è forse l´arazzo più complesso del mondo, ma un filo importantissimo. Credo che tutti gli europei dovrebbero parlare o scrivere del conflitto odierno in medio oriente facendo mostra di una certa consapevolezza della nostra responsabilità storica. Temo che alcuni oggi non lo facciano, e non mi riferisco solo agli estremisti di destra tedeschi che hanno sfilato a Verden in bassa Sassonia sabato sorso agitando bandiere iraniane e gridando "Isralele, centro di genocidio internazionale". Mi riferisco anche a persone riflessive di sinistra, che partecipano ai forum di discussione del Guardian e simili. Pur criticando il modo in cui i militari israeliani uccidono i civili libanesi e gli operatori Onu per riprendersi Ehud Goldwasser (e distruggere le infrastrutture militari di Hezbollah) dobbiamo ricordare che tutto questo con quasi assoluta certezza non sarebbe accaduto se alcuni europei non avessero tentato, qualche decennio fa, di cancellare chiunque portasse il nome Goldwasser dalla faccia dell´Europa, se non della terra.


Voglio essere estremamente chiaro. Da questa terribile vicenda europea non consegue che gli europei debbano manifestare acriticamente solidarietà a qualunque scelta dell´attuale governo israeliano, per quanto violenta o sconsiderata. Al contrario, un vero amico ti dice in faccia quando sbagli.


Non ne consegue che dobbiamo sottoscrivere le più recenti pericolose semplificazioni riguardo ad una "terza guerra mondiale" contro "un´alleanza terrorista tra Iran, Siria, Hezbollah e Hamas" (come afferma il repubblicano statunitense Newt Gingrich) o un "movimento totalitario coerente" dell´islamismo politico (nelle parole del parlamentare conservatore e giornalista britannico Michael Gove).


Non ne consegue che tutti gli europei che criticano Israele siano tacitamente antisemiti, come danno a intendere alcuni commentatori negli Usa.


E di certo non ne consegue che dovremmo essere meno attenti alle sofferenze degli arabi, inclusi gli arabi palestinesi fuggiti o scacciati dalle loro case al momento della fondazione dello stato di Israele. E i loro discendenti cresciuti nei campi profughi. La vita di ogni singolo libanese ucciso o ferito dalle bombe israeliane vale esattamente quanto quella di ogni israeliano ucciso o ferito dai razzi lanciati da Hezbollah.


Ne consegue invece che gli europei hanno un obbligo speciale a impegnarsi per cercare di garantire un accordo di pace in cui lo stato di Israele possa vivere entro frontiere sicure a fianco di uno stato palestinese vitale? Secondo me sì. Di certo dato che gli europei in un modo o nell´altro hanno esercitato un´influenza su quasi ogni angolo della terra, una tesi storica del genere potrebbe in teoria condurci ovunque, adducendo l´eredità dell´imperialismo europeo a giustificazione morale universale del neo-imperialismo europeo. Ma la storia degli ebrei scacciati dalle loro patrie europee che a loro volta hanno scacciato gli arabi palestinesi dalla loro patria non ha equivalenti. Pur non accettando questa tesi di responsabilità storica e morale, è palese che sono in gioco interessi vitali per l´Europa: petrolio, proliferazione nucleare e le potenziali reazioni all´interno delle nostre alienate minoranze musulmane, per citarne solo tre. Meno chiaro è quale genere di coinvolgimento sia opportuno.


Una proposta è che le forze europee partecipino ad una forza multinazionale di pace nel sud del Libano, ma ha senso solo se si stabiliscono i parametri di una missione trasparente, realizzabile e circoscritta. Di questi parametri non si vede ancora traccia. Né è in vista un cessate il fuoco. Il vertice di Roma si è chiuso ieri pomeriggio camuffando semplicemente la netta divergenza tra Usa e Israele da un lato e gran parte del resto del mondo, Ue e Onu inclusi, dall´altro, su come arrivare ad un cessate il fuoco. La verità è che oggi più che mai la soluzione diplomatica sta nell´impegno totale degli Usa, sfruttando il rapporto esclusivo di influenza con Israele e avviando negoziati il più possibile diretti con tutte le parti in causa nel conflitto, per quanto sgradite. Finché ciò non accadrà l´Europa, da sola, può far poco. Eppure il punto non è solo cambiare le realtà in campo in medio oriente. Per gli europei parlare e scrivere riguardo alla posizione degli ebrei nella regione in cui li cacciarono significa anche autodefinirsi. Faremmo bene a misurare ogni parola.


La Repubblica, 28 luglio 2006. Traduzione di Emilia Benghi www. timothygartonash. com


Collego questo articolo di Timothy Garton Ash a quello di Eduardo Galeano: "Fino a quando?", che ho postato QUI.


E' da poco passato il mezzogiorno e le ultime notizie (TG3) sono terrificanti: Israele sta invadendo il Libano, senza freni e senza remore, in profondità. Nonostante la necessità di capire, non ho dubbi: questa invasione non ha alcuna giustificazione e deve essere fermata. Dalla forza di dissuasione che spero l'Unione Europea voglia mettere in campo.


Fotografia: La Repubblica, 1 agosto 2006