Linguaggio costituzionale
di Walter Tocci, Senatore
Discorso al Senato in occasione della discussione sulla revisione costituzionale del 17 Luglio 2014.
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Signor Presidente, onorevoli senatori,
come le persone, anche le parole si stancano, dice il libro 
dell'Ecclesiaste. Sotto il peso delle promesse, degli inganni e delle 
delusioni si è sfiancata perfino la parola riforma. Concediamole un po' di riposo almeno in questo dibattito.
Nessuno dei problemi istituzionali è stato risolto e molti sono stati 
aggravati dalla proposta di revisione costituzionale insieme con 
l'Italicum. Segnalo quattro questioni.
1. 
Da quasi un decennio gli elettori chiedono di poter guardare in faccia 
gli eletti, ma qui si decide di voltare le spalle. I cittadini 
continueranno a non scegliere i deputati e non eleggeranno neppure i 
senatori, né il presidente della Città Metropolitana, né i consiglieri 
della Provincia, che rivive con il brutto nome di Area Vasta. Il 
risultato è che il ceto politico elegge il ceto politico. È un grande 
azzardo restringere la rappresentanza  proprio mentre viviamo forse la 
più grave frattura tra società e istituzioni della storia italiana.
I consiglieri regionali che hanno problemi con la giustizia saranno 
incentivati a farsi nominare senatori per godere dell'immunità estesa 
alle cariche non elettive. E per i cittadini viene indebolito lo 
strumento del referendum; quello di Mario Segni nel post-Tangentopoli, 
ad esempio, non sarebbe più possibile. Forse è un segno dei tempi - 
accade alle rivoluzioni mancate di essere poi anche rinnegate. 
Nel complesso, si perde l'occasione per ricostruire la fiducia popolare nei confronti delle assemblee elettive.
2. 
C'è un passo indietro nel punto più delicato del bilanciamento dei 
poteri. Un partito minoritario che raccoglie meno del 20% degli aventi 
diritto al voto può vincere il premio di maggioranza e utilizzarlo per 
conquistare le massime cariche dello Stato, la Corte Costituzionale e la
 Presidenza della Repubblica. I relatori hanno riconosciuto che il 
problema esiste, ma non hanno saputo o voluto risolverlo. La proposta di
 alzare il quorum nelle prime otto votazioni non impedisce al primo 
partito di attendere la nona votazione per imporre il proprio candidato.
 Si voleva sapere la sera delle elezioni chi governa, così si 
conoscerebbe anche l’inquilino del Quirinale.
Mi si risponde che era già così con il Porcellum; bene, lo si dovrebbe 
dunque correggere, invece il testo aggrava lo squilibrio. La Camera 
mantiene i 630 deputati con la forza del premio di maggioranza, mentre 
si indebolisce l'altro ramo dei cento senatori, privati della libertà di
 mandato, che può fondarsi solo sull'elezione diretta. Migliore 
equilibrio si avrebbe con la diminuzione del numero dei deputati, oggi 
il più alto in Europa in rapporto alla popolazione. Nessuno ha spiegato 
perché non si può. Eppure dovrebbe esserne entusiasta Renzi che voleva 
risparmiare sulle indennità; il Pd negli anni passati l'ha sempre 
considerata una priorità e i colleghi Romani, Sacconi e Casini la 
votarono quando erano in maggioranza nel 2005. Perché tutti ci hanno 
ripensato?
3. 
Il superamento del bicameralismo paritario era l'occasione per 
rafforzare la democrazia parlamentare. Invece il potere legislativo 
viene assoggettato definitivamente all'esecutivo, il quale sarà tentato 
di utilizzare i voti del premio di maggioranza non solo per governare il
 paese - come è del tutto legittimo - ma anche per stravolgere a suo 
piacimento la legislazione fondamentale, ad esempio sulla libertà di 
stampa, i servizi segreti, l'autonomia della Magistratura, l’amnistia e 
l’indulto, le sensibilità religiose, le libertà personali oppure per 
modificare a proprio favore la stessa legge elettorale al fine di 
ottenere la vittoria alle successive elezioni. Potrebbe diventare di 
parte perfino la decisione più grave, la guerra. Quella stessa guerra 
che i costituenti ci ammonivano a ripudiare. Quella stessa guerra che 
ritorna nella foto terribile delle vittime innocenti di fronte alla 
moschea di Gaza.
La legislazione fondamentale viene sottratta allo spirito di parte nella
 proposta Chiti, in modo da costringere i partiti a condividere le 
regole fondamentali nel Senato eletto con legge non maggioritaria, e a 
competere per il governo nella Camera depositaria del voto di fiducia. 
Sarebbe il passo in avanti verso una democrazia matura. Si vuole invece 
realizzare quel “premierato assoluto” paventato da Leopoldo Elia, 
indebolendo la separazione dei poteri come non accade in nessuna 
democrazia europea.
4. 
La relazione Stato-Regioni diventa ancora più confusa, anche per la 
scarsa cura che la Commissione ha dedicato all’argomento, pur essendo 
tecnicamente più complesso degli altri. È un grave errore abbandonare la
 legislazione concorrente, che è l’essenza di un regionalismo 
cooperativo, l'unico possibile in un paese segnato da storiche fratture,
 come ha sottolineato
 Massimo Luciani. Si sceglie al contrario una netta separazione tra 
competenze esclusive dello Stato e delle Regioni che non lascia più 
alcun margine di mediazione, rendendo quindi irrisolvibile il conflitto 
di competenze. 
Come queste vengono attribuite non è rilevante in questo ragionamento, 
poiché è sufficiente una semplice considerazione logica per riconoscere 
che qualsiasi modello esclusivo aumenta il contenzioso rispetto al 
modello cooperativo. Questo non ha funzionato negli anni duemila non per
 i suoi presunti difetti, ma per la dissennata applicazione da parte dei
 governi di destra e di sinistra, che avrebbero dovuto elaborare solo 
leggi cornice e invece hanno proseguito a legiferare nel dettaglio, 
istigando le Regioni a eccessi opposti. 
Il Senato delle Autonomie non sarà in grado di comporre i conflitti, 
anzi potrebbe esasperarli. Ad esso viene attribuita una fantomatica funzione di raccordo
 con un'espressione retorica priva di qualsiasi significato giuridico 
cogente. Nella realtà quell'assemblea sarà a chiamata ad approvare dei 
testi normativi sui quali si formeranno delle maggioranze e delle 
minoranze in base ai rapporti di forza tra Regioni ricche e Regioni 
povere. Venendo a mancare la mediazione politica della rappresentanza 
territoriale - che pur con i suoi limiti ha contenuto fin qui le 
pulsioni separatiste - il nuovo Senato accentuerà la frattura tra Nord e
 Sud, con il rischio di indebolire ulteriormente l'unità nazionale. 
Spero che il testo finale mi consenta di rivedere questi giudizi 
negativi. Onorevoli senatori, ho fiducia in questa aula e nella 
possibilità che tra noi si affermi uno spirito davvero costituente. Ci 
sono emendamenti di diverse parti politiche che possono migliorare i 
punti essenziali: rapporto eletti-elettori, l’indipendenza del 
Quirinale, le garanzie del nuovo bicameralismo e il regionalismo 
cooperativo. 
Rivolgo un appello alla mia parte politica. Abbiamo discusso a lungo nel
 gruppo Pd. Sono chiare le differenze, ma per me sono più importanti le 
comuni visioni. Tra noi condividiamo anche alcune insoddisfazioni per 
certi articoli. Non lasciamole ai discorsi di corridoio, non 
abbandoniamole ai rimpianti silenziosi, trasformiamole in proposte da 
condividere con gli altri gruppi. La lunga durata costituzionale non 
consente a nessuno di riconoscere un errore senza impegnarsi a 
correggerlo. In questa aula il primo partito deve essere protagonista 
fino alla fine nel migliorare la Costituzione. 
Le migliorie saranno tanto più intense quanto più ci allontaneremo dalle
 motivazioni e dai metodi che hanno fin qui deformato il dibattito.
Per la cancellazione del Senato elettivo sono state date motivazioni 
occasionali, alcune surreali, come “serve a creare posti di lavoro”, 
altre tipiche del provincialismo italiano, mentre i Cameron, Merkel e 
Hollande non cancellerebbero organi costituzionali per fare bella figura
 ai vertici europei.
Ma c’è una motivazione più vecchia: togliere il freno che impedisce al 
governo di decidere. È la bufala che politici e giornalisti raccontano 
agli italiani da venti anni. Si dicono falsità sulle famose “navette” di
 leggi che vanno più di una volta tra un ramo e l’altro, ma sono solo il
 3% e riguardano testi scritti molto male dal governo. È invece troppo 
facile approvare le leggi, e anzi le più veloci sono anche le più 
dannose. Sono bastate poche settimane alla destra per approvare il 
Porcellum e le leggi ad personam, e alla sinistra per contribuire al 
pasticcio degli esodati e allo sfregio costituzionale sul vincolo di 
pareggio del bilancio (che, per inciso, qui viene esteso alle Regioni). 
Tutti i campi della vita pubblica sono soffocati dall’asfissiante 
produzione legislativa, nella scuola, nel fisco, nell’amministrazione, 
nella previdenza, nel territorio. Ogni settimana arrivano in aula 
disegni di legge pomposamente chiamati riforme, e che invece sono spesso
 accozzaglie di norme eterogenee e improvvisate, a volte dannose o 
inutili. Lo dimostra il fatto che sono rimasti nel cassetto ben 750 
decreti attuativi. 
Qui si dovrebbe davvero cambiare verso: poche leggi all’anno, di alta 
qualità, delegificazioni per costringere i ministri ad amministrare 
invece che a legiferare, controlli parlamentari sui risultati. A tale 
innovazione valeva la pena dedicare il nuovo Senato come Camera Alta 
delle leggi organiche, dei grandi Codici, dell’attuazione 
costituzionale, della raccolta dei frutti della conoscenza e della cultura del Paese.
 Con la produzione di leggi cornice la Camera Alta avrebbe portato 
ordine anche nelle relazioni Stato-Regioni, più autorevolmente di come 
possa fare il Senato delle Autonomie. 
Il superamento del bicameralismo paritario era l’occasione per dedicare 
un ramo del Parlamento ai pensieri lunghi, all’intelligenza 
riformatrice, alla saggezza pubblica. L’Italia avrebbe proprio bisogno 
di una Camera Alta come volontà aristocratica di derivazione 
democratica, così la chiama Mario Dogliani.
Per quanto riguarda il metodo, una tale serie di strappi non si era mai 
vista nella storia repubblicana. Mai il governo aveva imposto una 
revisione costituzionale, mai il relatore era stato costretto a 
presentare un testo che non condivideva quasi nessuno, mai i senatori 
erano stati destituiti per motivi di opinione. Arroganze inutili che 
hanno fatto perdere solo tempo. Se il Parlamento avesse potuto lavorare 
serenamente, la riforma del bicameralismo sarebbe stata approvata da 
mesi. 
Non ho mai detto che si tratta di una svolta autoritaria, né che si 
stravolgono i principi costituzionali - ci tengo a precisarlo - tanto è 
vero che ho votato contro la pregiudiziale. 
È in pericolo invece un aspetto più semplice e per così dire più intimo:
 lo stile del dibattito costituzionale. I critici della proposta sono 
stati definiti gufi, sabotatori, rosiconi e ribelli. Parole che 
non sarebbero mai state pronunciate dai costituenti, certo divisi dalla 
guerra fredda e dalle ideologie novecentesche ma sempre disponibili al 
colloquio delle idee. Proprio oggi che siamo tutti liberali viene meno 
il rispetto nel dibattito. La politica postmoderna ha sempre bisogno di 
fabbricarsi un nemico. Come in un videogioco si elimina un mostro e 
subito se ne presenta un altro per tenere alta la tensione emotiva. 
L'operazione simbolica vince sul merito. Conquistare lo scalpo del 
Senato elettivo sembra parte di un incantesimo, che serve a rassicurare e
 a consolare i cittadini per la mancanza di vere riforme.
L’elegante lingua italiana dei padri costituenti, con le sue parole 
semplici e profonde, viene improvvisamente interrotta da un lessico 
nevrotico e tecnicistico, scandito dai rinvii ai commi, come un 
regolamento di condominio. Il linguaggio è la rivelazione dell'essere, 
diceva il filosofo.
La Costituzione è come la lingua che consente a persone diverse di 
riconoscersi, di incontrarsi e di parlarsi. La Carta è il discorso 
pubblico tra i cittadini e la Repubblica, è il racconto del passato 
rivolto all'avvenire del Paese.
Se la Costituzione è una lingua lo stile è tutto. Senza lo stile è 
possibile l'autocompiacimento del ceto politico, ma non il 
riconoscimento repubblicano.
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