domenica 28 ottobre 2012

Metafore dal blog Curiosi del Mare

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http://www.youtube.com/watch?v=x0Lfcah_LR0&feature=player_embedded

"Il futuro era migliore"

Basta sfiducia , dobbiamo rialzarci

Questa crisi alimenta i particolarismi più ottusi
La solidarietà può garantire sicurezza e stabilità

di Claudio Magris

 
 
Un paio di settimane fa ero a Madrid, nei giorni delle manifestazioni contro il governo e degli scontri con la polizia, di cui hanno ampia- mente riferito i nostri giornali e le nostre televisioni, talora esagerandone - specialmente sullo schermo - la portata e la violenza. ...
 
Questo sentimento di un futuro frustrante ed opaco non preoccupa direttamente la mia generazione; come ai vecchi di Svevo, a noi non interessa personalmente il futuro, il nostro universo è il presente, da afferrare e godere o da scansare quando ci fa soffrire. ... Ma chi si apre oggi alla stagione della vita in cui si decidono l'esistenza, la sua qualità e il suo significato, si sente impedito nelle sue esigenze di sbocciare, di costruire il proprio mondo, di far valere il proprio diritto alla felicità proclamato dalla Dichiarazione americana. ...
 
Il malessere e la stanchezza pessimista sono un male da combattere, tanto più quanto più essi sono, come oggi, sempre più diffusi.
 
Certo, a leggere i grandi documenti così pieni di fede, dei padri fondatori dell'idea di un'Europa unita, come ad esempio il Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni ci si accorge che, in quell'epoca orrenda - come diceva Karl Valentin, geniale cabarettista e ispiratore di Brecht - il futuro era migliore.
 


giovedì 25 ottobre 2012

Rottamazione e rottamatori



 
ROTTAMAZIONE, dice il vocabolario, è l’azione che si compie quando si demoliscono oggetti fuori uso: specie automobili. Vengono triturati, per riutilizzare le parti metalliche. A volte, ottieni sconti sulla nuova vettura.
 
Applicata alle persone e al ricambio di dirigenti politici, è una delle parole più maleducate e violente che esistano oggi in Italia. I rottamatori sono fieri di chiamarsi così, e quando l’operazione riesce esibiscono le spoglie del vinto: «La rottamazione comincia a produrre i primi frutti», ripeteva Matteo Renzi, domenica in un’intervista in tv.
La lotta per l’avvicendamento ai vertici della politica ha sue ragioni, e lo stile brutale risponde a un’ansia, enorme e autentica, di cambiamento: si vorrebbe azzerare l’esistente, e come nella poesia di Rimbaud ci si professa «assolutamente moderni».
È un conflitto legittimo, anche necessario: che va portato alla luce perché nell’ombra degenera o ammutolisce. È il grande merito del sindaco di Firenze, come di Grillo. Impressionante è la campagna di quest’ultimo in Sicilia: lunga, martellante, è rifiuto del mutismo. Da due settimane è nell’isola; nessuno s’era messo per tanto tempo in ascolto delle sue collere. Ma la parola rottamazione, anche se Renzi intende cambiamento, resta ustionante e parecchi la prendono alla lettera. L’avversario – rivale è trattato alla stregua di arnese metallico. Se l’idea della rottamazione non avesse alle spalle una storia lunga, di degradazione della persona a oggetto servibile, non susciterebbe tanto disagio. Non sveglierebbe fantasie di uomini «di troppo», di rottami. Forse chi la usa (non solo il sindaco di Firenze) non se ne rende conto, ma il termine alligna nelle terre della pubblicità ed è lessico della generazione Berlusconi.
È nato con lui, con le sue disinvolture verbali. Non ingentilisce ma corrompe il discorso pubblico. È figlio della rivoluzione non solo politica ma linguistica, di stile, che Berlusconi inaugurò nel ‘94. Fu una rivoluzione della noncuranza, del «tutto è permesso»: non badava alle conseguenze di quel che veniva detto, ai tabù infranti.

È una parola del tutto anomala, inoltre. In Europa o America, nessun politico che magnifichi il Nuovo oserebbe condurre una campagna in cui gli anziani, i seniores, vengano definiti ferrivecchi. Nell’aprile 2002, quando il socialista Jospin alluse all’età del rivale Chirac, i sondaggi lo punirono, screditandolo. Aveva avuto l’impudenza e l’imprudenza di dire che il Presidente era «affaticato, invecchiato, vittima dell’usura». Gli elettori non amavano Chirac, ma la mancanza di gentile rispetto dell’anzianità, in Jospin, fu ritenuta intollerabile.
Una cosa è attaccare la linea dell’avversario: soffermandosi su di essa, senza censure. Altra cosa è assalire la persona.

Se rottamazione scomparisse dal vocabolario giornalistico e politico non sarebbe male. Conterebbe più la sostanza: l’errore di Veltroni, quando affondò l’ultimo governo Prodi annunciando che il Pd, rompendo le catene della sinistra radicale, sarebbe «corso da solo» (come se non fosse stato il centro a silurare Prodi). O si potrebbe raccontare D’Alema: il suo rapporto sprezzante con giornalisti e magistrati, i piaceri che fece a Berlusconi, i dispiaceri che procurò a Prodi, l’influenza eccessiva esercitata su Bersani.

Ci dedicheremmo a quel che Renzi vuol dire, e alla fiducia che riscuote in persone di prestigio come Pietro Ichino (nota mia personale: Ichino, infatti, quell'Ichino).

Rottamazione è un cartello stradale che depista: non dice quel che promette, né sull’Europa né sulla corruzione né sulla ‘ndrangheta che ci assilla.

Vale la pena ripercorrere la storia di questo vocabolo, tanto più cruento in un paese fragile: dopo la Germania, siamo il popolo che più invecchia in Europa. Vale la pena tener viva la memoria, perché lo sgarbo non è episodico ma ha radici in una sistematica denigrazione dei più anziani: nei luoghi di lavoro e nella politica.

Il Parlamento si era appena insediato, nel ‘94, e fu subito offensiva contro un senior come Norberto Bobbio. Eletto alla Camera alta, Franco Zeffirelli giubilò: la Seconda repubblica aveva spazzato via «la triste sfilata dei senatori a vita, uno più cadaverico dell’altro, una vecchia Italia che non vogliamo più e che si è seppellita da sola». Facendogli eco, Maurizio Gasparri diceva di Indro Montanelli: «Quello è arrivato al tramonto della vita e anche delle capacità intellettuali del suo cervello»

L’offensiva rottamatrice proseguì, più feroce, nel 2006-2008. Ricordiamo gli improperi riversati su Rita Levi Montalcini, e sulla sua tenace presenza in Senato per sostenere il governo di centro sinistra. Sul Giornale del 14-7-07, Paolo Guzzanti parlò di vecchi «scongelati, inchiavardati allo scranno e costretti a pigiare col ditino il pulsante guidato da una senatrice badante». Storace promise «un bel paio di stampelle da consegnare a domicilio. Si comincia dalla senatrice a vita Levi Montalcini ». Su Libero, diretto da Vittorio Feltri, apparve il titolo d’apertura: «La dittatura dei pannoloni».

 Siamo dunque lontani dal vero, quando scriviamo che Berlusconi è finito, e con lui il lessico d’insulti della Lega. Il loro modo d’essere e di dire sgocciola come da una flebo nelle vene di un’intera generazione. È il suo marchio, così come le parole del ’68 intrisero due generazioni. I francesi faticano ancor oggi a uscire dalla generazione Mitterrand.
Faticheremo anche noi, più di quel che si dica.

Il cambiamento è altra cosa.

È la crisi non come decadenza ma trasformazione: un desiderio che Renzi intuisce, e vuol incarnare. È un conflitto ineluttabile: fra ieri, oggi, domani. È un progetto diverso di crescita, non nuovo tra l’altro, se già nel 1987 il rapporto Brundtland scriveva: «Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni». È un orizzonte dato a giovani cui non si può dire, come il ministro Fornero: «Siete troppo choosy! » («schizzinosi » è mal tradotto, cancella il furto della scelta). E che volto devono avere le nostre città, i nostri pubblici spazi e servizi? Come congegnare pensioni che non tramutino gli anziani in gente bandita o – abbondano anche qui truci aggettivi – in esuberi o esodati?

 Dai tempi dei Viceré e del Gattopardo sappiamo che cambiar facce non basta alle Grandi Trasformazioni.
Rottamazione oltre che parola è diseducativa, non prepara alcunché. Alla sua insegna non può svolgersi dibattito fra candidati alla guida del Paese. Eppure di discussioni dirette c’è bisogno: per districarsi da soli, senza mediatori nei giornali o in Tv. Nelle primarie americane e francesi è la norma, sebbene scabrosa.
Il rottamatore di professione, presente ovunque nei partiti, ti fruga, alla ricerca degli istinti più bassi, delle passioni più tristi. Viene in mente il Viaggio agli inferni del secolo di Buzzati: nei sotterranei milanesi, sotto la metro, c’è un mondo parallelo in cui i vecchi, inservibili, sono scaraventati dalle finestre nei marciapiedi. Entrümpelung, parola che Buzzati prende dal lessico nazista, significa repulisti, sgombero: è una variante dell’igienica rottamazione.
Anche quel repulisti viene celebrato come «festa della giovinezza, della rinascita, della speranza», del Mondo Nuovo.
Accade così che il diverso appaia come uomo di troppo: povero o vecchio, esodato o immigrato. Sono i disastri del moderno, non del barbarico.
Una volta che te la prendi con classi d’età, quindi con la biologia, entri nella logica del capro espiatorio, dell’innocente che paga per il collettivo. Il rito è la ripetizione di un primo linciaggio spontaneo, secondo René Girard, che riporta ordine in seno alla comunità. Nel linciaggio, la violenza di tutti contro tutti sfocia in violenza di tutti contro uno. Sarebbe bello se a dirlo, con voce non bassa, fossero anche i giovani.

lunedì 15 ottobre 2012

Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti
 
di Italo Calvino*



C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.

Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.

Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.



Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.

Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.

Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone.
 
In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

* da Repubblica, 15 marzo 1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”, Meridiani, Mondadori

Nota biografica – Italo Calvino nasce a Santiago de Las Vegas (Cuba) nel 1923 e si trasferisce con la famiglia nel 1925 a San Remo. Si unisce ai partigiani durante la II Guerra Mondiale e, in questo contesto, nasce la sua prima opera “I sentieri dei nidi di ragno” (1947). Successivamente diventa un attivista del Pci, una militanza politica proseguita fino al 1956. Considerato uno dei più interessanti autori contemporanei, negli anni Settanta comincia a collaborare come editorialista al “Corriere della sera” prima e “la Repubblica” poi. Muore a Castiglione della Pescaia nel 1985. Tra le sue opere, la trilogia dei Nostri Antenati “Il cavaliere inesistente”, “Il barone rampante”, “Il visconte dimezzato”, “Marcovaldo”, “Le cosmicomiche”, “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, fino al saggio “Lezioni americane” uscito postumo nel 1989.

(15 ottobre 2012) da MICROMEGA

mercoledì 10 ottobre 2012

PAURE STORICHE

 
 
E' di nuovo una questione di egemonie teutoniche? Cambiano i modi e gli strumenti ma non le ideologie di potenza? L'incomprensione dei fatti presenti, la volontà di dimenticare i fatti del passato continueranno come sempre? Quando finirà il buio della democrazia sopraffatta dai "mercati"? Chi farà nuove leggi attuative in difesa della democrazia e dei diritti umani, dopo la cancellazione dell'ultimo baluardo, lo Glass-Steagall Act, nel lontanissimo 1999?
 
 
Forse si muove qualcosa, nella mente della potenza tedesca che da anni comanda in Europa sapendola solo dividere, non guidarla e federarla?

Ancora non è chiaro, ma se
Angela Merkel ieri è corsa a Atene 1 - dove la sua politica e il suo Paese sono esecrati, dove è stato necessario militarizzare la capitale per domarne la collera - vuol dire che vi sono elementi nuovi, che destano spavento a Berlino.
 
Uno spavento che si è dilatato, dopo l'intervista di Antonis Samaras al quotidiano Handelsblatt di venerdì. Sono parole diverse dal solito: il Premier greco non si sofferma sui debiti, né sul Fiscal Compact, né sul Fondo salva-Stati approvato lunedì a Lussemburgo.
 
La prima visita del Cancelliere, invocata da Samaras, avviene perché si comincia a parlare dell'essenziale: di storia, di memorie rimosse e vendicative, di democrazia minacciata. Estromessa, la politica prende la sua rivincita e fa rientro. Caos è il vocabolo usato nell'intervista, e il caos impaura la Germania da sempre. Anche perché quel che le tocca vedere è una replica: più precisamente, la replica di una storia che Berlino finge di dimenticare, ma che è gemella della sua.

Il caos, i tedeschi sanno cos'è: specie quello di Weimar, quando la democrazia, stremata dai debiti di guerra e dalla disoccupazione, cadde preda di Hitler. È lo scenario descritto da Samaras: anche qui incombe una formazione nazista, che si ciba di caos e povertà. Alba dorata ha ottenuto alle elezioni il 6,9 per cento, ma oggi nei sondaggi è il terzo partito. I suoi principali nemici sono l'Unione, e tutto quel che l'Europa ha voluto essere dal dopoguerra: luogo di tolleranza democratica, di assistenza ai deboli attraverso il Welfare.

Lo straripare della disoccupazione, spiega Samaras, dà le ali a un partito che non ha eguali in Europa, tanto esplicita è la sua parentela con il nazismo e perfino con i suoi simboli (una variazione della svastica). L'odio dell'immigrante, del gay, del disabile, è la sua ragion d'essere.
 
Se l'Europa non aiuta la Grecia dandole più tempo, a novembre le casse statali saranno vuote e può succedere di tutto. In parlamento i deputati nazisti si fanno sempre più insolenti, sicuri. L'ex Premier George Papandreou è bollato come "greco al 25 per cento": la madre è americana. Ogni nuovo emigrato va tenuto lontano, con mine anti-uomo lungo le frontiere.

Non è male che infine si cominci a dire come stanno davvero le cose, e quel che rischiamo: non tanto lo sfaldarsi dell'euro, quanto il tracollo delle mura che l'Europa si diede quando nacque. Mura contro le guerre, contro le diffidenze nazionaliste, contro la logica delle punizioni. Fare l'Europa significava dire No a questo passato mortifero, ed ecco che esso si ripresenta nelle stesse vesti. Per la coscienza tedesca, uno scacco immenso: la storia le si accampa davanti come memento e come Golem, da lei stessa resuscitato.

Oltrepassare i calcoli sull'euro e sondare verità sin qui nascoste aiuta a scoprire quel che Atene sta divenendo: un capro espiatorio. Un laboratorio dove si sperimentano ricette costruttiviste e al tempo stesso si collauda la storia che si ripete: non come tragedia, non come farsa, ma come memoria stordita, morta.

Come possono i tedeschi scordare il muro portante del dopoguerra, e cioè la coscienza che la punizione nei rapporti tra Stati è veleno, e che i debiti bellici della Germania andavano perciò condonati? Nell'accordo di Londra sul debito estero, nel '53, fu deciso di prorogare di 30 anni il rimborso, e di esigerlo solo qualora non avesse impoverito la Repubblica federale. I greci non l'hanno dimenticato: un comitato di esperti sta calcolando quel che Berlino deve a Atene per i disastri dell'occupazione hitleriana (circa 7,5 miliardi di euro). "Le riparazioni non sono più un problema", replica il governo tedesco. Lo saranno di nuovo, se il castigo ridiventa criterio europeo come nel 1918 verso la Germania.

La Grecia certo non è senza colpe. All'indisciplina di bilancio s'accoppiano la corruzione politica, l'enorme evasione fiscale. Il caos è in buona parte endogeno, come sostenne Alexis Tsipras del partito Syriza quando mise al primo punto del programma la lotta ai corrotti. Ma è un caos non più grave dell'italiano, e anche se Syriza ha manifestato ieri contro la Merkel, assieme ai sindacati, è scandaloso che il Cancelliere si rifiuti di incontrare il primo partito d'opposizione, solo perché le ricette anti-crisi sono ritenute fallimentari.

In fondo non c'è bisogno di Samaras, per penetrare la realtà greca ed europea, e ammettere che nessuno può sopportare una recessione quinquennale. Basta leggere blog e libri indipendenti. Bastano i testi di storia, che raccontano di un paese dove la resistenza antinazista non fu artefice della democrazia postbellica come in Italia, ma venne perseguitata ed esiliata dagli anglosassoni: il potere militare fu da loro favorito per decenni (colonnelli compresi).

I romanzi di Petros Markaris sul commissario Kostas Charitos - una specie di Montalbano greco - sono conosciuti in Italia. L'ultimo, pubblicato da Bompiani nel 2012, s'intitola L'Esattore, e narra di un assassino seriale che elimina uno dopo l'altro grandi evasori e politici corrotti, visto che lo Stato non sa né vuole agire. L'assassino assurge a eroe nazionale, gli indignados di Piazza Sìntagma vogliono candidarlo: "L'Esattore nazionale è un Dio!", gridano. Oggi esce in Francia un film di Ana Dumitrescu, Khaos, che raffigura il pandemonio ellenico. Dicono nel film: "Il pericolo è che la collera del popolo si trasformi in terribile bagno di sangue, sostituendosi all'azione politica".
Il sottotitolo di Khaos è "i volti umani della crisi": volti che la trojka non vede, né la Merkel, né i governi del Sud Europa che trattano Atene come paria, per paura d'esser confusi con essa. Ma il paria parla di noi, e dell'Europa tutta. Habermas probabilmente pensava alla Grecia, nel discorso tenuto il 5 settembre davanti al partito socialdemocratico: i piani di austerità delineano, ovunque, un percorso post-democratico. Quel che assottigliano non è tanto la sovranità assoluta degli Stati nazione - oggi anacronistica - quando la sovranità del popolo, che è costitutiva della democrazia e non è affatto obsoleta. I diritti sovrani sottratti tramite Patto fiscale e Fondo salva-stati semplicemente evaporano, "perché non trasferiti verso un autentico, democratico legislatore europeo".
 
Il potere resta nelle mani di trojke e Consigli dei ministri non eletti dai cittadini europei, o di tecnici che possedendo la scienza infusa pretendono di superare gli Stati nazione da soli, e surrettiziamente.

"Credo che questo sia il prezzo che paghiamo alla soluzione tecnocratica della crisi", conclude il filosofo: "In tale configurazione, imbocchiamo un percorso postdemocratico che approderà a un federalismo esecutivo. La democrazia si perde per strada, e tutti mancheremo l'occasione di regolare i mercati finanziari (...). Un esecutivo europeo del tutto indipendente da elettorati che possano essere democraticamente mobilitati smarrirà ogni motivazione e ogni forza per azioni di contrasto".

L'ora della verità è quella in cui i numeri non occupano l'intero spazio mentale, e in scena fanno irruzione la storia, le memorie scomode delle guerre europee e dei dopoguerra. Per questo sono importanti l'allarme di Samaras, il disagio che ha suscitato in Germania, l'impervia corsa della Merkel a Atene.
 
Qualcosa si muove: non necessariamente in meglio, ma almeno si è più vicini al vero. Si chiama Alba dorata il pericolo greco, ed è alba tragica. All'orizzonte si staglia la figura dell'Esattore Nazionale, salutato come Apollo vendicatore: che viene e uccide i traditori della democrazia. È così, dai tempi dell'Iliade, che dalle nostre parti iniziano le guerre.
 
 
LA REPUBBLICA, 10 ottobre 2012   -   © Riproduzione riservata  

domenica 7 ottobre 2012

SCHULD

STRAGE DI STAZZEMA
 
Il debito immenso che la Germania nega

 
di Furio Colombo

Schuld è parola tedesca che ha i seguenti significati:
1. colpa
2. responsabilità
3. debito
 
 

   Un gentile ministro tedesco di passaggio da Palazzo Chigi ha voluto porre un rimedio alla sentenza del Tribunale di Stoccarda che ha deciso di non poter processare i superstiti responsabili del massacro di Sant'Anna di Stazzema con le parole: “Mancano le prove”.

   L'intero processo di Norimberga avrebbe potuto concludersi così. Ha detto il ministro come per rassicurarci: “La legge non cancella Storia”. Ma la Storia trascina pesi, rinfaccia debiti. In un'epoca come questa “debito” è la parola chiave.

    È possibile che Spagna e Italia meritino diffidenza per lo stato della loro economia e (come nel caso italiano) per l'ammontare troppo grande del debito. È possibile che questi sguardi sospetti e – a momenti – decisamente ostili e non privi di compatimento e di un disprezzo appena velato dalle buone maniere, vengano dalla Germania, Paese definito spesso “virtuoso” a causa dei conti in ordine e della produzione ben organizzata che continua a fare profitto.

È bene ricordare che prima viene la Grecia ad aprire la lista nera di coloro che hanno troppi debiti non pagati e forse non pagabili. La Grecia, considerata ormai, senza tanti riguardi, un Paese non rispettabile da una Unione europea del tutto sottomessa al rigore tedesco dei conti in ordine.

Sicuri che Berlino abbia i conti in pari?

    Qui cominciano due discorsi. Il primo porta domande senza risposta sul carattere che l'Europa dovrebbe avere e mostrare. Come mai la voglia di punizione e di espulsione prevale oggi con tanta forza sulla ricerca, per quanto difficile, di soluzioni? 
Perché è più facile e normale e frequente sentire parlare della “fine della Grecia” piuttosto che di un patto comune per salvarla e trattenerla in Europa?
 
L'altro discorso porta a un'altra domanda, che stranamente non viene mai posta (anche perché tutto lo spazio e il tempo è occupato da lodi e glorificazioni):
 
davvero la Germania non ha debiti?
E se li ha avuti, li ha pagati?
 
   Questo non è un modesto e maldestro tentativo di sviare il discorso in difesa di economie sgangherate. Purtroppo riguarda fatti ed eventi realmente accaduti, persone realmente esistiteerealmenteeliminateconcrudeltà, con violenza e in massa. Un fatto è appena accaduto.
 
Una Corte tedesca (Stoccarda) ha rifiutato di considerare come avvenuto e come tedesco il massacro di Sant'Anna di Stazzema (uomini, donne, molti bambini, il prete, tutti uccisi davanti alla chiesa) perché “mancavano le prove”, ovvero non era stata rilasciata ricevuta per quel debito senza senza limiti, e non c'era dunque ragione di considerare qualcuno come responsabile.
 
Negli stessi giorni, i giorni in cui in Italia è morto Shlomo Venezia , per anni operaio gratuito (il compenso: restare provvisoriamente in vita) nella fabbrica della morte detta Auschwitz Birkenau, un sopravvissuto che solo adesso, morendo, ha finito di raccontare la sua storia pazzesca, il deputato Emanuele Fiano ha informato il Parlamento italiano di questo evento: “Mi ferisce in maniera indicibile, a me che sono figlio di un sopravvissuto di Auschwitz, che si possa permettere, in questo Paese, che un sito neonazista, nella giornata di ieri, in concomitanza con la morte di Shlomo Venezia, abbia potuto aprire una pagina dedicata alla festa per la sua morte”.
 
Questo squallido episodio dimostra ancora una volta che il danno prodotto nella vita e nella cultura europea dai vuoti e dalle negazioni della storia è altrettanto grave quanto i delitti compiuti negli anni spaventosi della persecuzione e della guerra.

Per esempio, a pochi chilometri da quella festa, appena un po’ prima dell’evento nazista, si può trovare la rappresentazione fisica di un estremismo più psichico che politico: il monumento-mausoleo di un grande criminale di guerra e di strage, il generale Rodolfo Graziani. L’episodio è moralmente indecente, storicamente assurdo, ma anche frutto di corruzione. Il monumento a Graziani, infatti, è stato pagato con fondi illecitamente ottenuti dalla Regione. È ciò che ci ha fatto giudicare corrotti e non affidabili, fino a poco fa, in Europa.
 
È qui che torniamo al debito, e al senso del debito della Germania.
 
Quando il Tribunale di Stoccarda, il tribunale di un Paese rispettato che fa da motore a questa Europa, nega, con il pesodella sua credibilità e del suo prestigio, che sia accaduta la strage di Sant'Anna di Stazzema, non nega solo un episodio fra tanti di una guerra crudele e terribile.
 
Nega il suo immenso debito e stabilisce una distanza pericolosa.
 
La bella e moderna Germania di oggi non deve, non può sfiorare quel passato senza rendersi conto di quanto sia grave evocare un debito mai saldato, e rifiutare di saldarlo, sia pure, ormai, solo come gesto simbolico. Meglio essere amico degli amici ritrovati e tentare insieme la salvezza di tutti.

Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2012

Ildegarda di Bingen

L'aura della nuova dottoressa della Chiesa

Anche una sofferenza fisica ebbe un ruolo nella santità di

Ildegarda di Bingen

 
     La pioggia di stelle che Ildegarda di Bingen, proclamata Dottore della Chiesa, interpretava come la caduta degli angeli sulla terra, poteva essere semplicemente preludio a un attacco di emicrania.
 
Nell’aura, la fase che talvolta precede la comparsa del mal di testa, sono comuni infatti allucinazioni visive dette scotomi scintillanti, accompagnati da altre immagini strane, per esempio forme geometriche distorte e linee spezzate simili a quelle dei merli che ricoprivano le mura dei castelli medioevali, per questo detti «spettri di fortificazione».
 
Era questo fenomeno, non necessariamente sempre seguito dal dolore, che permetteva alla santa del dodicesimo secolo di vedere «la città di Dio» in condizioni di completa veglia e perfetta lucidità, come lei stessa nei suoi scritti sostiene?

IL CONGRESSO
 
     A ricordare questa lettura «medica» delle visioni della monaca medioevale è stato Luca Violini, noto speaker e doppiatore. Accompagnato dalla musica del pianoforte, ha aperto sabato a Rimini il Congresso della Società Italiana di Neurologia con uno spettacolo intenso, nel quale ha raccontato alcune malattie neurologiche attraverso le parole di grandi scrittori. 
 
Tra gli altri non poteva mancare Oliver Sacks, egli stesso neurologo alla Columbia University e autore di libri famosi come «Risvegli», da cui il film con Robin Williams e Robert De Niro. Nella sua raccolta di casi clinici curiosi -- dall’altrettanto originale titolo «L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello» --, come anche in “Emicranie”, Sacks spiega come le visioni descritte da Ildegarda di Bengen nei suoi libri rispecchino in maniera molto precisa l’esperienza di chi soffre di questa particolare forma di emicrania complessa detta appunto «con aura»
 
LA STORIA
 
     Sacks non è stato il primo ad avanzare questa ipotesi. Egli riprende le parole di Charles Singer, storico della scienza che già nel 1917 aveva interpretato come aure emicraniche queste esperienze mistiche:
 
«In tutte le visioni esiste come elemento di rilievo un punto o un gruppo di punti di luce, che scintillano e si spostano, di solito con moto ondulatorio, e che sono per lo più interpretati come stelle o occhi fiammeggianti. In parecchi casi una luce, più grande delle altre, mostra una serie di figure circolari concentriche disegnate con tratto ondulato; spesso vi è la descrizione di ben precise figure-fortezza, in alcuni casi irradiantisi da una zona colorata. Spesso le luci davano l'impressione, descritta da tanti visionari, di essere vive, di ribollire o fermentare...».
 
Ildegarda, donna di spicco nella sua epoca non solo come mistica e come voce viva nella Chiesa del suo tempo, ma anche come studiosa di medicina e compositrice di musica ascoltata ancora oggi, soffriva di malesseri continui, che tuttavia non le hanno impedito di vivere a lungo, così come fa l’emicrania; le manifestazioni interpretate come visioni mistiche cominciarono durante l’infanzia , come appunto accade spesso in questi casi. Ma soprattutto le miniature che accompagnano il manoscritto anticipano di secoli, in maniera artistica ma assai precisa, le prime illustrazioni mediche delle aure emicraniche.
 
L’INTERPRETAZIONE
 
     Gli stessi studiosi che hanno spiegato così le visioni di Ildegarda non intendono tuttavia negarne il valore religioso o spirituale.
 
«Cariche di questa sensazione estatica, ardenti di un profondo significato teoforo e filosofico, le visioni di Ildegarda contribuirono a portarla verso una vita di santità e misticismo» scrive Sacks.
 
«Esse forniscono un raro esempio del modo in cui un evento fisiologico, banale, odioso o insignificante per la grande maggioranza delle persone, possa diventare, in una coscienza privilegiata, il sostrato di una suprema ispirazione estatica».

 
 
 
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