DEMOCRAZIA FLUIDA
Caro diario, poiche' mi trovo all'estero, le notizie di casa nostra mi arrivano ovattate, soprattutto a causa della distanza psicologica che crea la lettura dei giornali nel web. Ovunque vedo motivi di sconforto e di disperazione, anche in cio' che di positivo e produttivo si sta cercando di fare: l'impressione e' quella tipica degli incubi in cui si vuole correre ma si rimane inesorabilmente fermi. Oggi, nel solito eccellente articolo domenicale di Barbara Spinelli su La Stampa ho trovato una messe di testimonianze e di fatti e di idee che voglio conservare qui, per poter rileggere e ricordare e pensare che pure una qualche buona e giusta soluzione possa riportare la nostra Italia a una 'democrazia solida'.
Il paese delle spie in fuga dalla politica
Obiettivo: demolire l'alternanza
29/10/2006
di Barbara Spinelli
KOMPROMATY si chiamano nella Russia di Putin quei documenti destinati a compromettere l’avversario e liquidarlo nel momento più conveniente: cosa che di solito si fa non coi concorrenti politici, ma con i nemici in guerra. Il Cremlino affida la fabbricazione dei kompromaty a organi segreti che il potere personalmente controlla, siano essi pubblici o privati. I dossier son fatti per seminare paura, e di paura si nutrono: servono a ricattare, infangare, bloccare qualsiasi alternativa al regime esistente. Sono ingredienti basilari d’ogni dittatura e d’ogni regime dove lo Stato vien confiscato da una persona, un partito o una lobby. La politica della paura che regna dall’11 settembre ha immensamente affinato le tecniche di questi poteri segreti, e la loro disinvoltura. Chi si presta a simili operazioni - politici, funzionari pubblici sleali, giornalisti - ha il più grande disprezzo dello Stato e di chi fedelmente lo serve. È abituato ai bassi servizi, non al servizio della cosa pubblica: la res publica è qualcosa che non riconosce e in cui non crede. Gli scandali scoppiati ultimamente in Italia - le rivelazioni sullo spionaggio fiscale di un gran numero di personalità e soprattutto dell’attuale capo del governo Romano Prodi, cui si aggiunge un piano del Sismi che risale all’inizio del governo Berlusconi, inteso a «disarticolare, anche con mezzi traumatici», i nemici del centrodestra - somigliano come fratelli gemelli all’uso che Putin fa del kompromaty (gli italiani, più fumosi, parlano di dossieraggio). Sono operazioni che vengono condotte a fianco dello Stato, ignorando e aggirando i molti suoi servitori onesti. È un lavoro - meglio sarebbe dire un lavorio, perché l’azione è martellante, di lungo respiro - che viene affidato a un potere non visibile, non eletto e non controllato. È un potere che fugge non solo lo Stato, ma la politica stessa: ambedue infatti - Stato e politica - sono giudicati da chi fa questi servizi come disprezzabili, inesistenti, comunque aggirabili.
Per questo Carlo Federico Grosso (QUI) ha dato a quest’ennesima criminalità di corpi dello Stato (elementi della Guardia di finanza e del Sismi, appaiati) il nome di eversione, ieri su questo giornale. Eversione è una destabilizzazione permanente, un’erosione sistematica della cosa pubblica. Il dizionario Battaglia ricorda come fin dal ’400, nelle parole di Leon Battista Alberti, significhi «sovvertimento radicale e rivoluzionario (letteralmente atterramento) degli ordini politici o della struttura della società, compiuto dall’interno». Nell’ultimo decennio i commentatori hanno discusso spesso attorno alla natura del potere berlusconiano: era un Regime o no? Qui basti rammentare che l’eversione è arma essenziale d’ogni regime autoritario, brandita per conquistare il potere e poi mantenerlo. I cittadini che assistono all’emersione di questi crimini sanno che la storia italiana incessantemente li riproduce: ogni volta con le loro oscurità, che diventano perenni; con i loro personaggi, di cui si dimenticano presto i reati. Ogni volta con i loro giudici, accusati di malafede e fallimento per il solo fatto che non sempre riescono a condannare, pur avendo accertato colpe non confutate (è il caso di Andreotti, assolto anche se giudicato reo di associazione con la mafia fino al 1980).
Ma i cittadini sanno anche che nell’ultimo decennio le azioni dei corpi dello Stato che agiscono nell’illegalità si son moltiplicate, bersagliando ripetutamente la persona di Romano Prodi. La magistratura dirà se queste operazioni, che hanno come protagonisti Guardia di finanza, Sismi e servizi privati, hanno risposto a ordini del centrodestra che ha governato nel ’94 e nel 2001-2006. Fin da ora sappiamo tuttavia che le manovre hanno colpito soprattutto l’opposizione a Berlusconi, e che hanno fatto di tutto per inquinare o svuotare contropoteri indispensabili in democrazia (stampa e magistratura). Colpisce il piano del Sismi, che risalirebbe all’inizio del governo Berlusconi del 2001 e che Guido Ruotolo ha portato alla luce su La Stampa di giovedì. Il dossier cui si fa riferimento è stato trovato il 5 luglio dagli uomini della Digos, nella sede distaccata del Sismi diretta da Pio Pompa, uomo molto legato a Pollari, e conferma l’esistenza di un’eversione circostanziata. Colpisce soprattutto a causa del linguaggio: i redattori del piano d’azione si propongono di «colpire e disarticolare una struttura nemica del centrodestra con azioni anche traumatiche», è scritto nel dossier.
Disarticolare, struttura nemica, azioni traumatiche: chi ricorda i comunicati delle Brigate Rosse ritrova qui un vocabolario immondamente familiare. Un vocabolario che rimanda al linguaggio terroristico di servizi come il Kgb, rinato dalle ceneri grazie a Putin. Paralleli storici di questo tipo sono stati evocati da personalità note per la loro circospezione, in Italia. Degno di menzione è il discorso tenuto a Torino dal procuratore capo Marcello Maddalena, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2006. Il magistrato si riferiva a una legge ad hoc del governo Berlusconi, che aveva impedito a Gian Carlo Caselli di divenire procuratore nazionale antimafia, e disse così: «L’episodio mi ha fatto venire in mente un motto tristemente famoso: colpirne uno per educarne cento. Hanno sbagliato i conti: siamo in novemila (tanti quanti sono i magistrati, ndr)». Colpirne uno per educarne cento era un motto di Mao Tse-Tung, fatto proprio dalle Brigate Rosse. Chi disarticola con azioni traumatiche ha questo in mente: colpisce per educare, cioè per avvertire ricattando, impaurendo. Chi opera in tal maniera vuol educare chi ancora serve lo Stato, scoraggiando la sua fedeltà. Vuole educare i giudici abolendone l’autonomia, educare i cittadini abolendo la fiducia che vorrebbero avere nel proprio Stato. Vuol educare infine l’opposizione, ricordandole che l’alternanza è - in Italia - la più pericolosa, stravagante, sconveniente delle avventure.
Questo si è inteso e s’intende ferire e demolire, usando i corpi dello Stato per azioni illegali. Non è questione solo di Prodi, nei cui conti si è spiato 128 volte con la speranza di eliminarlo come candidato alla successione di Berlusconi. Berlusconi stesso pare sia stato spiato. Il senso generale di queste operazioni destabilizzanti, che dopo Mani Pulite e la fine dei vecchi partiti non sono diminuite ma si son dilatate e hanno attinto forza nell’anti-politica, è quello di demolire due cose congiuntamente: l’alternanza intesa come alternativa, e il bipolarismo che ne è la premessa. In uno Stato slabbrato e sistematicamente aggirato - Aldo Schiavone lo spiega bene, nel libro Italiani senza Italia - il bipolarismo non può funzionare, o funziona appunto così: sempre alle prese con azioni eversive, e con un potere che fugge il più lontano possibile dalla politica, sino a divenire totalmente opaco e a smaterializzarsi.
L’azione eversiva di corpi che formalmente appartengono allo Stato ma in realtà rendono servizi a chi se n’è impossessato ha come scopo quello di creare una situazione in cui cambiare le cose (il funzionamento dell’amministrazione pubblica, la forma più meno trasparente della politica, la giustizia) diventa impossibile. Più crescono le forze di chi vuol cambiare, più i poteri paralleli fuggono per irrobustire lo status quo e impedire riforme profonde d’ogni tipo. Una volta era il denaro a fuggire, destabilizzando l’Italia, quando si annunciavano cambiamenti politici sostanziosi. Oggi è il potere stesso a mettersi in fuga: fuga dalla politica, dalla giustizia, dalla buona amministrazione. Dalla P2 è sempre la stessa storia: è la storia di poteri che investono tutto sulla debolezza della cosa pubblica, rendendola sempre meno pubblica e sempre più privata. Berlusconi forse non è all’origine di tali manovre. Ma senz’altro è all’origine di questa confisca-privatizzazione della politica, del prevalere metodico dell’interesse particolare su quello generale, di una retorica che critica lo Stato per meglio estenderne le violenze arbitrarie. Il suo stesso ingresso in politica avvenne all’insegna di tale privatizzazione. Lui stesso spiegò a Enzo Biagi la molla che nel ’94 lo fece scendere in campo: «Caro Biagi, se non entro in politica mi fanno fallire».
Una delle cose più perturbanti in queste ore è la reazione intimorita, lenta, di molti politici: non son pochi, nell’opposizione e fuori, che proprio a causa di questi scandali sostengono la necessità di larghe intese, più che di vero risanamento. Proprio ora urgerebbe rinunciare a quel bipolarismo e a quelle chiare alternanze che i poteri paralleli intendono da decenni disarticolare, traumatizzare. Parlare in queste condizioni di larghe intese significa prender atto della disarticolazione, cedere alla sua pressione eversiva, farsi metter paura, scegliere non il compromesso ma la compromissione. Significa riconoscere che in Italia, a differenza dei Paesi dove la democrazia cammina, non sono praticabili alternanze autentiche perché non esiste una struttura dello Stato che sopravviva integra, con i suoi leali e neutrali servitori, ai mutamenti di maggioranza. Significa convincere gli italiani che tutti i politici si equivalgono, che nessuno servirà qualcosa di diverso dall’interesse privato.
Può darsi che un giorno l’Italia avrà bisogno di larghe intese (o non potrà far altro che questo, come ha dovuto Angela Merkel, senza volerlo, in Germania). Ma le larghe intese come risposta a quel che sta accadendo, è congedo dal bipolarismo e vittoria dell’eversione. Due sono infatti le conclusioni che si possono trarre dagli odierni avvenimenti. O il bipolarismo e l’alternanza sono improponibili in Italia, perché lo Stato non esiste, e allora le larghe intese sono la via, anche se la via dell’abdicazione. Ci sono pessimisti che condividono quest’opinione e parlano di alleanze tra volenterosi, senza mai chiarire cosa i volenterosi debbano volere. Oppure si riforma lo Stato non limitandosi a far cadere qualche testa, ben sapendo che minacciati - dunque da salvare - sono sia le alternanze sia il bipolarismo. Stare in bilico ed esitare è la terza via, tante volte imboccata e tante volte perdente. Quando scoppiano scandali di questo genere si sente sempre solo un’esclamazione: «È inaccettabile!». La parola è vana: andrebbe bandita dal dizionario dei politici rispettabili. Il politologo francese Raymond Aron diceva che nel momento stesso in cui prendi tempo per pronunciare l’aggettivo - inaccettabile - hai già accettato. Vuol dire che la minaccia oscura ha funzionato. Che cerchi un accomodamento con l’eternità dell’illegalità. Che hai rinunciato a combatterla, e non credi già più né nella politica, né nell’alternanza.