venerdì 18 settembre 2015

Settant'anni e non sentirli

di Marco Travaglio   18 Settembre 2015
 
Ignoranza o menzogna?  probabilmente il saldo intreccio tra l'una e l'altra. Ma la questione è sempre la stessa, tragica per chi è nato qui: agli italiani piace cosí. Il Fatto quotidiano, 18 settembre 2015
Lo sapevate? “Questa riforma è attesa da 70 anni”. L’ha detto Matteo Renzi, che non sembra ma è il presidente del Consiglio e il segretario del Pd, parlando della legge costituzionale in conferenza stampa con il premier lussemburghese Xavier Bettel, che immaginiamo interessatissimo al tema. E l’aveva già detto sempre ieri Maria Elena Boschi, che non sembra ma è il ministro delle Riforme istituzionali, in una spassosa intervista al Corriere: “Sono 70 anni che stiamo aspettando la fine del bicameralismo paritario”.

Chissà quali libri hanno letto o quali sostanze hanno assunto i due somari che tengono in ostaggio la Costituzione, per farsi l’idea che 70 anni fa, cioè nel 1945, subito dopo la Liberazione dal nazifascismo e dalla guerra civile, gli italiani scendessero in strada scandendo slogan contro il bicameralismo paritario e contro il resto della Costituzione due anni prima che questa fosse scritta. Forse non guasterebbe la lettura di un manuale di storia, anche in formato Bignami, o qualche seduta in una comunità di recupero, per insegnare ai due padri ricostituenti qualche rudimento di cultura generale, utilissimo per colmare le loro lacune e risparmiare loro altre scemenze.

Il bicameralismo paritario – Camera e Senato con regole elettorali diverse, ma con funzioni analoghe – fu introdotto dalla Carta approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947, promulgata cinque giorni dopo dal capo dello Stato ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Cioè 67 anni e mezzo fa. E si può serenamente escludere che negli anni successivi qualcuno invocasse una riforma della Costituzione appena varata.

Fu negli anni 70-80 che i partiti cominciarono a scaricare sul Parlamento le colpe della loro inconcludenza, corruzione e rissosità, spacciando alla gente l’illusione che eliminando il Senato o privandolo del voto di fiducia l’Italia sarebbe diventata una democrazia efficiente. Ma nessuno abboccò: l’opinione pubblica seguitò a fregarsene bellamente e nessuno versò una sola lacrima dinanzi al naufragio delle orribili riforme costituzionali tentate dalle varie commissioni bicamerali (Bozzi, De Mita-Iotti, D’Alema-Berlusconi). Anche perché i dati parlano chiaro: se certe leggi impiegano tanto a uscire approvate dal Parlamento non è perché ci siano due Camere anziché una e mezza, ma perché da sempre i partiti litigano fra loro, o più spesso al proprio interno.

Quando invece le maggioranze vanno d’accordo, i tempi sono rapidissimi. In media, fra Camera e Senato, 53 giorni per le leggi ordinarie, 46 per i decreti e 88 per le Finanziarie. Solo la loro misera penuria di argomenti può portare Renzi & Boschi a gabellare la loro schiforma per un evento epocale “atteso da 70 anni”. Ma atteso da chi? Secondo l’ul timo sondaggio Ipsos per il Corriere, solo il 3% degli italiani conosce la riforma del Senato “nel dettaglio”, un altro 28% “a grandi linee” e tutti gli altri – la stragrande maggioranza – non ne sanno nulla, per dire con quanta ansia la attendono da 70 anni.

L’unica cosa che tutti hanno capito è che il Senato non sarà più eletto, infatti il 73% vuole continuare a eleggerlo, in piena sintonia con la minoranza Pd e i partiti d’opposizione. Evidentemente Renzi & Boschi frequentano gli unici due o tre squilibrati che non vedono l’ora di non eleggere più i senatori per farli nominare da quelle associazioni per delinquere che sono quasi tutti i consigli regionali, con l’aggiunta dell’immunità parlamentare.

Eppure la bella addormentata nei Boschi delira, sempre sul Corriere, di un non meglio precisato “impegno da mantenere con i cittadini”: e quando mai ha preso quell’impegno, e con quali cittadini, visto che il suo partito arrivò primo alle ultime elezioni del 2013 promettendo di far eleggere direttamente tutti i parlamentari dopo dieci anni di Porcellum? Poi vaneggia di una fantomatica “esigenza di rispettare la data del 15 ottobre” (fissata da chi? e perché non il 15 novembre, o dicembre, o gennaio?) dinanzi all’“Europa” che “ci riconosce spazi finanziari di flessibilità se in cambio facciamo le riforme”: come se la flessibilità sul rapporto deficit-Pil c’entrasse qualcosa col Senato.

Alla fine però la Boschi confessa: “Faccio sogni molto più belli che quello di fare il premier”. Ecco svelato l’arcano. Le boiate che dice e purtroppo scrive nella nuova Costituzione deve avergliele dettate in sogno qualcuno che a noi pare di conoscere: crapa pelata, mascella volitiva, mento e labbro inferiore sporgenti. La trovata delle riforme attese da 70 anni può venire soltanto da lui. Fu proprio 70 anni fa che l’Italia abolì il bicameralismo imperfetto creato da Mussolini: cioè la Camera dei Fasci e delle Corporazioni (membri non eletti, ma nominati dal Gran Consiglio del Fascismo presieduto dal Duce, dal Consiglio nazionale del Partito fascista presieduto dal Duce e dal Consiglio nazionale delle Corporazioni presieduto dal Duce) e il Senato del Regno (membri non eletti, ma nominati a vita dal Re su input del governo). Due Camere di nominati con funzioni diverse, ma relegate a un ruolo ancillare del governo.

Mutatis mutandis, è quello che ci aspetta con la Camera dei nominati (i capilista bloccati dell’Italicum) e il Senato dei nominati (i senatori paracadutati dalle Regioni). Manca solo l’articolo 2 della legge fascistissima 19.1.1939 n. 129: “Il Senato del Regno e la Camera dei Fasci e delle Corporazioni collaborano col governo alla formazione delle leggi”. Ma questo, oggi, è sottinteso.

venerdì 11 settembre 2015

Senatus servandus est

Intorno al Senato elettivo

Riforme, Alessandro Pace: 

“Dalla Boschi solo sofismi. Il Senato rimanga elettivo”


di Silvia Truzzi, Il Fatto Quotidiano, 13 agosto 2015 
Diciamo che Alessandro Pace – professore emerito di Diritto costituzionale a La Sapienza di Roma– non ha molti dubbi: “L’attuale Parlamento, mentre doveva approvare le leggi elettorali secondo le indicazioni della Consulta (sentenza n. 1 del 2014), non avrebbe dovuto porre mano alla revisione costituzionale”.
Questo governo si comporta come un esecutivo di legislatura e ha tutta l’intenzione di concludere l’iter di riforma. È vero. Ma le Camere elette nel 2013 in forza di una legge elettorale poi dichiarata incostituzionale (perché non garantiva la rappresentatività) non possiedono la legittimità necessaria per modificare la Costituzione. Inoltre dalle battute finali della sentenza numero 1 si evince chiaramente che il “principio di continuità degli organi costituzionali” (che, per la Consulta, era ciò che consentiva alle Camere di continuare a operare) poteva essere invocato solo per un breve periodo di tempo, non per un’intera legislatura, come subito preteso da Renzi. Con la conseguenza (voluta?) di poter condizionare la volontà dei parlamentari “nominati”, mediante il costante “ricatto” del possibile scioglimento delle Camere.
Ormai è cosa fatta. O no?
Vedremo. Tenga però presente che, al momento, abbiamo, quanto alla forma di governo, un testo che solleva forti perplessità, in quanto, anche grazie all’Italicum, persegue un obiettivo ben preciso: eliminare i contropoteri interni ed esterni alla Camera dei deputati al fine di assicurare la governabilità dell’esecutivo, e cioè al partito più votato, e quindi, in palese ulteriore contrasto con la sentenza n. 1. Che a proposito del Porcellum, aveva esplicitamente sottolineato come la governabilità non possa essere garantita a discapito della rappresentatività.
Ma il Senato potrebbe modificare l’articolo 2 del disegno già approvato in seconda lettura a Montecitorio?
Sì. Perché si tratta di una modifica della Costituzione e già nel 1993 la giunta del regolamento della Camera – presieduta da Giorgio Napolitano – ammise degli emendamenti ad articoli già approvati da entrambi i rami del Parlamento, e ciò proprio perché modificavano la Costituzione.
Che ci dice del nuovo Senato che uscirebbe dal testo della riforma?
Il testo attuale è contraddittorio. Pur dovendo rappresentare le istituzioni territoriali, il Senato viene privato del potere di legiferare su materie relative proprio alle autonomie territoriali, di verificare la corretta attuazione delle leggi statali e regionali concernenti le autonomie e di valutare l’impatto che tali autonomie territoriali subirebbero in conseguenza di decisioni del governo concernenti l’Unione europea. Per contro, il Senato conserva sia la funzione legislativa ordinaria, sia la funzione di revisione costituzionale, ancorché non sia elettivo. Il che costituisce un grave errore. L’articolo 1 della nostra Costituzione, proclamando la sovranità popolare “nella forme e nei limiti della Costituzione”, intende infatti garantire, per i due rami del Parlamento (e non solo), il suffragio popolare diretto, come sottolineato dalla Corte nella sentenza numero 1.
Ma quella in discussione è una legge costituzionale che perciò può modificare la Carta. Non è così?
No. Perché la Corte costituzionale, nella famosa sentenza numero 1146 del 1988, ha affermato di poter giudicare la legittimità costituzionale anche delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale quando queste violino “i valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”, tra cui, secondo la Corte, rientra il principio della sovranità popolare. Anche per questa ragione gli emendamenti dell’articolo 2 del disegno di legge dovrebbero ritenersi pienamente ammissibili.
Il ministro Boschi sostiene che se il Senato venisse eletto dal popolo, non gli si potrebbe negare il potere di votare la fiducia al governo, con la conseguenza che verrebbe meno il punto più qualificante della riforma: la spettanza alla sola Camera della titolarità del rapporto fiduciario col governo.
Quello del ministro Boschi è un sofisma. Mentre è l’articolo 1 della Costituzione a imporre che la funzione legislativa debba essere esercitata da rappresentanti del popolo direttamente eletti, il conferimento alla sola Camera della titolarità del rapporto fiduciario costituisce una scelta politica del tutto libera.
Se Palazzo Madama riconfermasse l’elettività del Senato, il testo attuale potrebbe passare?
Nemmeno per sogno. Ho già accennato alla grave carenza di contropoteri che caratterizza il ruolo della Camera dei deputati nel testo finora approvato. Una carenza che dovrebbe in qualche modo essere attenuata: penso alla previsione del potere della minoranza di richiedere l’istituzione delle commissioni parlamentari d’inchiesta e all’introduzione, in Costituzione, di un qualche principio direttivo per i regolamenti parlamentari che, secondo l’attuale testo, dovrebbero garantire i diritti delle minoranze. Quanto al Senato mi limito a osservare che prevedere che il Parlamento sia costituito da un Senato composto da 100 senatori e da una Camera che continuerebbe a essere composta da 630 deputati, implica che il Senato non svolgerebbe alcun ruolo rilevante, nel Parlamento in seduta comune: per le elezioni del presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali e dei componenti laici del Csm. È la cartina di tornasole del ruolo effettivo che svolgerebbe il Senato.
Il bicameralismo non verrebbe superato?
Gaetano Silvestri ha giustamente rilevato che il modello di Senato previsto dal testo attuale non è idoneo “a superare il bicameralismo paritario in direzione di un efficace contrappeso territoriale all’ interno del Parlamento nazionale”, ma configurerebbe un’assemblea politica con minori funzioni, competenze e numero di componenti rispetto alla Camera dei deputati, e quindi con “inferiore legittimazione democratica” ma con tutte le “beghe esistenti nei micro-sistemi politici regionali”. Senza dimenticare gli scandali che coinvolgono la politica locale, che costituirebbero una ragione più che sufficiente contro il Senato eletto dai consigli regionali. Meglio, allora, sarebbe passare decisamente al monocameralismo, a patto però che siano previsti forti contropoteri interni, configurando il Senato come mero organo consultivo privo di poteri legislativi.
Cosa pensa delle ultime dichiarazioni di Giorgio Napolitano, pubblicate ieri da Repubblica?
Rispetto sempre le tesi opposte alle mie, quale che sia l’autorevolezza di chi le abbia sostenute. Mi permetto però un rilievo secondario: Leopoldo Elia – le cui parole sono state correttamente riportate – avrebbe decisamente avversato l’abnorme concentrazione di potere di questa riforma, come già nel 2006 aveva duramente criticato il “premierato assoluto” della riforma Berlusconi.

da Il Fatto Quotidiano del 12 agosto 2015