sabato 25 luglio 2015

Crisi europea

Luciano Gallino

2015 Giugno 

Nome della Fonte: listatsipras.eu

 

Cambiare governo per affrontare la crisi

A otto anni di distanza dall’inizio della crisi economica in USA e in Europa, e a sei della sua fittizia trasformazione, per mano delle istituzioni e dei governi UE, da crisi del sistema finanziario privato a crisi del debito pubblico, l’Italia si ritrova con un governo che da un lato è allineato con le posizioni più regressive della Troika (la quale forma di fatto una quadriglia con Berlino); dall’altro non ha evidentemente la minima idea circa le cause reali della crisi, e meno che mai delle strade da provare o da costruire per uscirne.
Il gioco dei numeretti che i suoi ministri fanno circa la ripresa o l’occupazione, con la risonanza che vi danno quasi tutti i media, senza che questi tradiscano mai da parte loro un’ombra di spirito critico, appare penoso. In realtà la situazione del paese è drammatica, e l’inanità dilettantesca del governo non fa che peggiorarla. L’Italia ha bisogno urgente – diciamo, realisticamente, entro il 2016 – di un altro governo che abbia compreso le cause strutturali della crisi quale si presenta in Italia, nel quadro della crisi europea, e possegga per conto suo e sappia mobilitare nel paese le competenze per superarle. E’ una missione impossibile, è vero, ma è meglio immaginare l’impossibile che darsi alla disperazione.
La crisi ha tre facce. Proverò a delineare i loro tratti principali.

La crisi della UE e dell’euro.
La UE è stata fondata sulla base di una serie di gravi errori. Sbagliarono gli intellettuali e i politici che per primi concepirono l’unione come un sorta di abbraccio tra popoli che secondo loro avevano più cose in comune che differenze, a partire da una presunta “identità” o “cultura europea”, nonché dal comune orrore per le due “guerre civili” intervenute nel continente in poco più di trent’anni. Sbagliarono gli economisti nel credere e far credere che le grandi differenze di struttura industriale, produttività, composizione delle forze di lavoro, relazioni sindacali, ricerca e sviluppo, scambi con l’estero ecc. esistenti tra i vari stati membri sarebbero state colmate verso l’alto grazie ai benefici effetti di una moneta unica, l’euro. Infine sbagliarono i capi di stato e di governo nel credere che l’Unione, in quanto fondata sul principio “uno stato (piccolo o grande che fosse) uguale un voto”, sarebbe servita a contenere il predominio economico e politico della Germania.
Beninteso, non ci furono soltanto errori. In generale, a porre le basi del trattato di Maastricht sin dai primi anni del secondo dopoguerra fu il potere economico-finanziario europeo, tramite fior di associazioni neoliberali che rappresentavano e tuttora ne rappresentano la voce e il braccio politico. Tra di esse: la Società Mont Pelérin, la Trilaterale, la Bildeberg, la Tavola Rotonda degli Industriali, la Adam Smith Society, alle quali si è aggiunto più tardi il Forum Mondiale di Davos. Istituzioni internazionali come la Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), insediata a Parigi nel 1961, si sono impegnate senza tregua sin dall’inizio per far sì che il Trattato UE contenesse le più incisive norme possibili a favore della liberalizzazione dei movimenti di capitale. La componente monetaria dell’Unione, fondamentale per il suo funzionamento, è stata dettata sin nei particolari dalla Germania. Nei suoi colloqui con il presidente francese Mitterrand, il cancelliere Kohl fu irremovibile nel pretendere che l’euro fosse il più possibile simile al marco; che la BCE fosse dichiarata per statuto indipendente dai governi, una clausola mai vista negli statuti delle banche centrali di tutto il mondo: tant’è vero che essa si è presto rivelata essere un organo prettamente politico, che invia lettere durissime agli stati membri, Italia compresa, affinchè taglino sanità, pensioni e salari; che la BCE stessa avesse sede in una città tedesca (Francoforte). Su queste basi l’euro è stato giustamente definito il più efficace strumento mai inventato per tenere bassi i salari, demolire lo stato sociale e liquidare il diritto del lavoro.
A meno di venticinque anni dalla sua fondazione e meno di quindici dall’introduzione dell’euro, la UE sta andando verso il disastro. Tra il 2008 e il 2010 i governi UE hanno speso o impegnato 4.500 miliardi di euro per salvare le banche, ma non sono riusciti a trovarne 300 per salvare la Grecia, la cui uscita incontrollata dall’euro potrebbe far implodere l’intera UE. Gli squilibri tra gli stati membri sono aumentati anziché diminuire. Ad onta della normativa UE che impone di limitare l’eccedenza export-import, la Germania continua ad avere eccedenze dell’ordine di 160-170 miliardi l’anno, uno squilibrio che potrebbe contribuire al fallimento dell’Unione. La disoccupazione colpisce 25 milioni di persone. Le persone a rischio povertà sono oltre 100 milioni. In vari paesi – Grecia, Italia, Spagna – la inoccupazione giovanile oscilla tra il 40 e il 50 per cento, un tasso mai visto da quando essa viene censita. Le politiche di austerità imposte dai governi per conto delle istituzioni UE, nel mentre si sono rivelate fallimentari, hanno colpito con durezza i sistemi di protezione sociale e l’istruzione; bloccata pericolosamente la manutenzione delle infrastrutture di base (ponti, dighe, strade, trasporti locali, viadotti, corsi d’acqua: per risanarli ci vorranno migliaia di miliardi); spinto nella povertà altre masse di persone, anche in Germania che proprio dell’impoverimento dei vicini aveva fatto il perno della sua politica economica. Non basta: le politiche di austerità, secondo molti giuristi, hanno violato decine di articoli di tutte le leggi riguardanti i diritti umani e i crimini contro l’umanità, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 ad oggi: leggi, si noti bene, che i trattati UE hanno a suo tempo fatto proprie. La popolazione reagisce a quanto avviene in due modi: non andando a votare nella misura del 60 per cento per l’unico organo UE democraticamente eletto, il Parlamento europeo, con punte dell’80 per cento nei nuovi stati membri (dati 2014); e dando invece un largo e crescente consenso alle formazioni di estrema destra, in Francia, Italia, Polonia, Ungheria, ecc. Il che farebbe pensare che gli elettori non abbiano memoria del pericolo che esse rappresentano per la democrazia – se non fosse che nella UE la democrazia è stata già da tempo svuotata di senso dalla oligarchia politico-finanziaria di Bruxelles e dintorni.

Data la situazione attuale della UE, se non si fa nulla per affrontarla il futuro propone soltanto due scenari, al momento ugualmente probabili:
a) la UE crolla all’improvviso e in malo modo a causa di un incidente che trascina con sé tutta la barcollante struttura dell’Unione: ad esempio, un paese è costretto a uscire dall’euro perché a causa del suo bilancio pubblico strangolato dalle politiche di austerità non riesce a pagare i suoi creditori privati. I quali sono tanto stupidi da non rendersi conto che è sempre meglio un debitore che paga poco, in ritardo e a rate, di un debitore che non può pagare niente perché è stato imprigionato a causa del suo debito. (Lo scrittore Daniel Defoe, ch’era stato imprigionato per debito nel 1692, verso il 1705 riuscì a convincere con un suo scritto il governo inglese a introdurre una riforma che permetteva al debitore di continuare a lavorare e produrre reddito, in modo da poter rimborsare almeno in parte i suoi creditori piuttosto che marcire inoperoso in prigione. Al confronto, la Troika è in ritardo di tre secoli. Oppure potrebbe accadere che una grande banca europea fallisca, trascinandone altre con sé. Dall’inizio della crisi alcune delle maggiori banche europee, a cominciare dalla britannica HSBC, hanno pagato in complesso decine di miliardi di dollari a causa di varie penalità che hanno accettato di pagare alle autorità americane ed europee per non arrivare a un processo relativo a innumeri violazioni delle leggi finanziarie che esse hanno compiuto in mezzo mondo. Ma è possibile che a un certo punto un processo arrivi, e le sue conseguenze siano tali che la banca interessata fallisce perché né il suo governo né le istituzioni europee dispongono più dei mezzi per salvarla, da cui un effetto domino che travolge sia la UE che l’euro.
b) Il secondo scenario prevede che la UE e l’euro sopravvivano alla meglio per altri venti o trent’anni, cucendo rappezzo su rappezzo istituzionale per far fronte ai sempre più diffusi segni di malcontento di nove decimi della popolazione, impoverita e tartassata dal lavoro che manca, dalla distruzione dei sistemi di protezione sociale, dai continui diktat oligarchici della Commissione Europea e delle BCE che esautorano totalmente i governi nazionali senza dare nulla in cambio. Intanto il decimo al vertice della stratificazione sociale continua ad arricchirsi a spese degli altri nove: dopotutto, è per esso che i trattati UE sono stati confezionati.
Nel caso invece che qualcosa si volesse fare, una soluzione potrebbe esserci. La UE convoca una Conferenza sul Sistema Monetario Europeo, il cui punto principale all’ordine del giorno dovrebbe essere la soppressione consensuale dell’euro, ed il ritorno alle monete nazionali con parità iniziale di 1 rispetto all’euro. Altri punti dovrebbero riguardare la preparazione tecnica della transizione e una estesa campagna di informazione pubblica prolungata per mesi. Si potrebbe anche prevedere che l’uscita dall’euro sia decisa paese per paese, di modo che se qualche stato membro lo volesse fare ne avrebbe facoltà, mentre altri potrebbero tenersi l’euro.
E’ innegabile che anche la soppressione consensuale dell’euro presenta dei rischi. Com’è vero che in ogni caso essi sarebbero inferiori a quelli che oggi corre la UE sia per i suoi difetti strutturali, sia per la possibilità che l’uscita improvvisa di un paese – si tratti della Grexit, della Brexit (sebbene la Gran Bretagna non abbia l’euro) o altro – rechi seri danni agli altri. Ma di certo i rischi sarebbero accentuati dai paesi – in primo luogo la Germania – che dall’euro hanno tratto i maggiori vantaggi. Una variante che ridurrebbe i rischi potrebbe consistere nel mantenere in vita l’euro, mentre ogni stato emette e fa circolare sul proprio territorio una moneta fiscale parallela. Da moneta unica l’euro diventerebbe così una moneta comune. Il predicato “fiscale” significa qui che il valore della nuova moneta sarebbe assicurato dal fatto che essa verrebbe accettata per il pagamento delle imposte – il maggior riconoscimento che una moneta possa ottenere dallo stato – e sarebbe comunque garantita dalle entrate fiscali. Si noti che progetti di una moneta parallela all’euro che ogni stato emette per conto proprio sono assai numerosi in Francia, nel Regno Unito, e soprattutto in Germania.
La richiesta di una Conferenza sull’Unione Monetaria dovrebbe essere presentata alla UE da alcuni paesi di primo piano, con il sottinteso che un rifiuto netto potrebbe indurre ognuno di essi o all’uscita dall’euro o al disconoscimento di numerose norme UE che violano i diritti umani o addirittura si configurano come foriere di crimini contro l’umanità. Non mancano nella UE i giuristi in grado di predisporre la documentazione necessaria. Al presente, i soli paesi disponibili a tal fine sono forse la Grecia, ammesso che “al presente” essa sia ancora nell’euro o il governo Tsipras non sia stato strangolato dalla Troika; e la Spagna, nel caso di una vittoria di Podemos alle elezioni dell’autunno 2015. Da parte del governo italiano in carica un atto simile è inimmaginabile, essendo il medesimo del tutto allineato sui rovinosi dogmi di Bruxelles. Per questo è necessario sostituirlo al più presto con un governo orientato diversamente, e dotato di competenze post-neoliberali di cui nel governo attuale non v’è la minima traccia.
La crisi economica ed occupazionale. Nei paesi più sviluppati del mondo, USA e UE, che da soli producono circa la metà del Pil globale, l’economia capitalistica ha imboccato da tempo un periodo di stagnazione che secondo molti esperti potrebbe durare anche cinquant’anni. In Usa, nel decennio degli anni 50 i trimestri in cui il Pil reale cresceva di almeno il 6 per cento l’anno sono stati 40. Negli anni 70 erano scesi a 25. Nei ’90, a meno di dieci. Infine nel periodo 2000-2013 sono stati in tutto tre. Sebbene sia difficile fare una stima aggregata del Pil dei paesi oggi membri della UE, visto che in settant’anni hanno avuto storie politiche ed economiche diverse, si stima che l’andamento del Pil nella UE sia stato all’incirca il medesimo. Al presente, un altro indicatore di stagnazione è il forte e prolungato rallentamento degli investimenti nell’economia reale. Essi rendono poco rispetto alle attività speculative svolte nel sistema finanziario, il quale peraltro all’economia reale non reca alcun beneficio (al punto che in realtà non ha nessun senso chiamarli “investimenti”). Risultato numero uno: si stima che circa il 70 dei capitali circolanti sia destinato alle seconde. Il capitalismo ha posto così le premesse per una sorta di suicidio al rallentatore. Mediante l’automazione ha ridotto drasticamente il numero dei produttori nell’economia reale (servizi compresi). Con la forsennata compressione dei salari reali, (in aggiunta alla riduzione dei produttori) ha ridotto il potere d’acquisto dei consumatori. Per investire l’impresa capitalistica deve poter stimare quanti sono quelli a cui venderà i suoi beni o servizi, e più o meno per quanto tempo. Nei nostri paesi si è messa in condizione di non poterlo più fare.
La riduzione degli investimenti è anche dovuta al fatto che da decenni il capitalismo non inventa più nulla che possa diventare un consumo di massa. Al contrario di quanto asseriscono gli economisti neoclassici, il capitalismo non vive affatto di una continua innovazione endogena. Ha bisogno di robusti e ripetuti stimoli esterni. Negli anni 50 e 60 li hanno forniti, nei nostri paesi, i consumi di massa di auto, elettrodomestici, televisori. La diffusione in atto dei cellulari, dei tablets, dei PC – tutti fabbricati in Asia – non ha avuto né potrà mai avere effetti paragonabili sulla crescita e sull’occupazione di un paese europeo. Inoltre tanto la produzione quanto il consumo dei beni e dei servizi proprosti dall’attuale modello produttivo si fondano su energie tratte da risorse fossili, mentre gli scienziati del mondo intero avvertono che l’inversione dell’attacco all’ambiente, che presuppone una drastica riduzione di tali fonti energetiche, dovrebbe avvenire ormai entro breve tempo se si vuole evitare una catastrofe. In sintesi: l’idea di una ripresa paragonabile al passato – la famosa luce in fondo al tunnel – è una illusione priva di fondamento. E se mai dovesse verificarsi, sarebbe ancora peggio, perché avvicinerebbe il momento di un disastro ambientale irreversibile.
Non basta. Il termine “automazione” si riferisce da cinquant’anni alla sostituzione di lavoro fisico da parte di macchine. Ma la microinformatica ha anche enormemente esteso sia le capacità delle macchine operatrici, sia le capacità dei computer di svolgere attività intellettuali che fino a pochi anni fa si sosteneva non fossero automatizzabili. Risultato numero tre: in Usa si stima che il 47 per cento degli attuali posti di lavoro, finora occupati da esseri umani a causa del loro contenuto intellettuale e professionale medio-alto, possano venire svolte entro pochi anni da una qualche combinazione di macchine, computer e programmi intelligenti. In altre parole potrebbero scomparire più di 60 milioni di posti di lavoro. Un processo analogo di sostituzione di esseri umani da parte dei computer è in corso anche in Europa. Una politica che non si occupi primariamente di questo problema, come avviene nella UE e in modo ancor più marcato in Italia, non soltanto è da buttare per la sua inefficienza; è una minaccia per milioni di cittadini.
Da quanto precede se ne trae che l’Italia dovrebbe progettare al più presto un piano pluriennale di transizione a un diverso modello produttivo, che abbia come caratteristiche principali l’essere fondato su progetti o settori ad alta intensità di lavoro; elevata qualificazione; tecnologie avanzate; consumi ridotti di energie fossili; elevata utilità pubblica; massima attenzione ai beni comuni. Esso dovrebbe inoltre prevedere il passaggio regolato di milioni di lavoratori dai settori in declino ai nuovi settori. Non è il caso per ora di inoltrarsi in un elenco di questi ultimi: si rimanda alla ragguardevole letteratura esistente sulla trasformaziome industrial-ecologica dell’economia. Qui basti dire che il riassetto idrogeologico dell’intero territorio, il miglioramento del rendimento energetico delle abitazioni, gli interventi anti-sismici nelle zone più a rischio, la tutela dei beni culturali assorbirebbero da soli milioni di posti di lavoro. La complessità e l’ampiezza di un simile piano renderebbe necessario l’impiego delle migliori competenze tecniche ed economiche, pubbliche e private, di cui il paese disponga. E soltanto un governo totalmente rinnovato quanto a cultura politica e competenze professionali sarebbe capace di guidarne la realizzazione. Inutile aggiungere che un simile piano deve poter inziare entro pochi mesi, per essere via via sviluppato e rettificato.
Il caso italiano. Una delle cause strutturali per cui la crisi europea ha colpito l’Italia più di altri paesi sono le sue antiche carenze quanto a istruzione e ricerca e sviluppo (R&S). In vista di una transizione a un diverso modello produttivo e occupazionale sarebbe essenziale aumentare in misura considerevole la spesa pubblica per la scuola secondaria e l’università. Con il 22 per cento dei diplomati contro una media del 36 per l’intera UE l’Italia occupa l’ultimo posto in tale classifica. E’ una percentuale scandalosamente bassa; e ancora più scandaloso è il fatto che dinanzi all’obbiettivo proposto dalla Commissione Europea di raggiungere il 40 per cento entro il 2020 come media UE, uno dei nostri recenti governi abbia risposto chel’Italia punta nientemeno che al 27 per cento. Dati analoghi valgono per i laureati. L’obiezione per cui diplomare o laureare un maggior numero di giovani non serve allo sviluppo, o è addirittura un danno, perché tanto non trovano lavoro, è priva di senso. I giovani non trovano lavoro perché non esistono politiche economiche capaci di creare nuovo lavoro nel momento in cui il lavoro tradizionale scompare.
Anche in tema di R&S siamo messi male. Tra i 32 paesi Ocse l’Italia occupa il penultimo posto quanto a spesa in R&S, con un misero 1,25 per cento tra pubblico e privato. Le statistiche delle richieste di brevetto depositate presso l’Ufficio Brevetti europeo, che vedono l’Italia in coda ai maggiori paesi UE sia quanto a numero sia quanto a contenuto tecnologico, riflettono tale povertà di spesa. Come minimo occorrerebbe raddoppiare quest’ultima nel più breve tempo possibile.
Di fronte ai problemi sopra richiamati, alla pericolosità della crisi UE, ed alla addizionale gravità di quella italiana, il governo Renzi non esiste. Non che, per ora, le opposizioni offrano gran che di meglio. Moltiplicare invettive contro il dominio della finanza, oggi ben rappresentato dall’euro, non serve: anche il Mein Kampf ne era pieno (dieci anni dopo, non a caso, il suo autore giunto al potere impiegò poche settimane per accordarsi con la grande finanza). Il dominio bisogna prima seriamente studiarlo, per poi smontarlo pezzo per pezzo con strumenti politici e legislativi appropriati. Né serve a molto inveire contro la casta. Una volta stabilito che si tratta di una intera classe politica che ha fatto da decenni il suo tempo, nonché di buona parte della classe imprenditoriale, si tratta di sostituirla con una classe avente una concezione del mondo diversa e opposta, che sappia amministrare il paese e ogni sua parte in nome dei diritti al lavoro e del lavoro; dell’uguaglianza (in una economia dove gli amministratori delegati guadagnino magari 50 volte i loro dipendenti e facciano bene il loro mestiere invece di guadagnare 500 volte e farlo male); dei beni comuni da sottrarre alle privatizzazioni; di una economia che non distrugga l’ambiente nel quale dovrebbero vivere e prosperare i nostri discendenti.
Allo scopo di far emergere dal paese, che da più di un segno appare in grado di farlo, una nuova classe dirigente all’altezza del compito, occorrono i voti. Per moltiplicare i voti necessari occorre che il maggior numero possibile di elettori comprenda qual è l’enormità della posta in gioco, in Italia come nella UE, e la relativa urgenza. E se è vero che l’opinione politica si forma per la massima parte sotto l’irradiazione dei media, è di lì che bisogna partire. Supponendo che la traccia proposta sopra sia qualcosa di assimilabile a uno schema di programma politico a largo raggio, bisognerebbe quindi avviare una campagna di comunicazione estesa, incessante, capillare, volta a mostrare che la rappresentazione che il governo e i media fanno di quanto avviene è una deformazione della realtà, e poco importa se non è intenzionale. Insistendo su pochi punti essenziali, siano essi quelli qui indicati o altri – purchè siano pochi e di peso analogo. Lo scopo è semplice: ottenere che alle elezioni del 2016 parecchi milioni di cittadini votino per una società migliore di quella verso cui stiamo rotolando, a causa dei nostri governi passati e presenti, non meno che della deriva programmata della UE verso una oligarchia ottusa quanto brutale.


 

domenica 12 luglio 2015

La Germania in due libri

La politica tedesca letta attraverso due libri

www.sbilanciamoci.info. 

11/07/2015
Gli sviluppi recenti del gigante europeo nel volume del politologi britannico Hans Kundnani e in quello del deputato Ue Jean Luc Mélenchon
Negli ultimi tempi abbiamo segnalato, in diversi articoli pubblicati in questo stesso sito, una decina di studi sulla Germania. E le librerie di tutta Europa si vanno riempiendo di ulteriori volumi sul soggetto, tanto la necessità di capire il paese sembra farsi pressante, in relazione al progressivo aumento del suo peso nei destini del nostro continente. Ora i recenti avvenimenti greci acuiscono ancora il desiderio di capire.
Oggi vogliamo aggiungere all’elenco due studi, uno francese e, per la prima volta, anche un testo scritto da uno studioso inglese. L’autore del primo libro è un ben noto politico della sinistra radicale transalpina, Jean Luc Mélenchon (Mélenchon, 2015); egli è stato ministro dal 2000 al 2002, è oggi deputato europeo, cofondatore nel 2008 del partito della sinistra; alle presidenziali del 2012 ha preso l’11% dei voti. Nel secondo caso si tratta invece di un politologo britannico, Hans Kundnani (Kundnani, 2014). Egli è direttore della ricerca presso il Consiglio Europeo per le Relazioni Estere, collabora con l’Università di Birmingham, scrive infine su alcuni noti giornali britannici. Il suo libro sta per essere pubblicato anche da noi.
Due caratteristiche che accumunano i volumi è da una parte il loro approccio fortemente politico, dall’altra le conclusioni sostanzialmente molto negative con cui essi guardano agli sviluppi recenti del paese. Ma molte cose li distinguono.
Il testo di Kundnani
Il libro di Kundnami, che sta suscitando un ampio dibattito nel mondo anglosassone e nella stessa Germania, è in sostanza una rassegna di 150 anni di politica economica tedesca, con l’attenzione comunque focalizzata sulle attuali strategie del paese.
Molti studiosi pensano che la Germania, dopo la catastrofe del 1945, abbia decisamente imboccato una strada totalmente nuova, abbracciando decisamente la democrazia e i valori occidentali, sposando in pieno il progetto europeo e contemporaneamente perseguendo una politica di stretta alleanza con gli Stati Uniti. Per tali studiosi “la questione tedesca”, lo spettro che si era aggirato per l’Europa così a lungo dopo la creazione dell’impero tedesco nel 1871 e la guerra franco-prussiana, è ormai stata seppellita.
Ma H. Kundnani non è dello stesso parere. Dopo la guerra, afferma l’autore, all’inizio la questione tedesca sembrava accantonata per la debolezza stessa del paese. La sua politica era vincolata dal suo passato nazista e dalla guerra fredda, fattori che spingevano al rispetto di tre principi di base, “mai di nuovo”, “mai da soli”, “la politica prima della forza”.
Ma la riunificazione e l’affermazione della piena sovranità del paese dopo la fine della guerra fredda hanno presto portato, per l’autore, a una riconsiderazione dell’identità nazionale e ad una rivisitazione delle opzioni politiche.
Così Kundnani pensa che almeno dal 1999 in poi, a partire dalla costituzione del governo rosso-verde di Schroeder, il paese abbia di nuovo cominciato a sviluppare delle preoccupanti tendenze nazionalistiche. D’altro canto, egli valuta anche che la Germania sta anche progressivamente allentando i legami con i paesi occidentali e con gli Stati Uniti.
Essa ha sempre più presente in particolare quanto le sue fortune economiche dipendano da una parte dell’importazione del gas russo, dall’altra dalle sue esportazioni verso la Cina, paese in particolare verso cui le attenzioni si fanno sempre più rilevanti.
I suoi atteggiamenti egoistici in materia economica hanno portato ad un nuovo e duro atteggiamento verso l’Europa, atteggiamento che minaccia ora di distruggere l’eurozona e l’intero progetto europeo. I politici tedeschi, ossessionati dalla questione del potere e della prosperità economica, sono in effetti concentrati in una visione di breve termine e non si curano del disastro verso il quale stanno portando il loro paese, l’Europa e forse l’intero occidente. In altri termini, la Germania è oggi un paese sempre più potente, ma nello stesso tempo esso appare incapace di guidare l’Europa; così, dopo la crisi, la situazione che emerge nel nostro continente non è tanto quella di un’egemonia tedesca, ma di caos. Il paese è diventato di nuovo come in passato una potente fonte di instabilità.
Sin qui l’analisi di Kundnani.
Le questioni trattate dall’autore appaiono certamente cruciali e a chi scrive le tesi esposte appaiono nella sostanza condivisibili. In particolare, l’ipotesi che le attuali politiche tedesche portino al possibile disastro nel nostro continente appare largamente accettabile e testimoniata da tanti recenti episodi. Il problema cruciale ci sembra quello che per portare avanti il progetto di un’unione politica ed economica europea ci vorrebbe una forte capacità di spinta e di guida che oggi solo la Germania potrebbe fornire; ma tale paese non è oggi in grado di farlo e quando peraltro riesce ad imporre le sue tesi esse vanno nella direzione sbagliata.
Su di un altro fronte, ci sembra invece non pienamente condivisibile la critica al fatto che il paese voglia sviluppare quanto più possibile gli affari, oltre che con la Russia, con la Cina. In realtà ci stanno provando quasi tutti, solo che la Germania ci riesce meglio per una certa complementarietà esistente tra le due economie. Che da questo possa poi nascere un allentamento dei legami con l’occidente è ipotesi forse plausibile, ma certamente soggetta a qualche dubbio; comunque il problema se lo deve essere posto anche Obama se, come sembra, egli ha portato avanti la questione Ucraina anche per tentare di bloccare a una nuova politica verso l’est del paese teutonico.
Un libro comunque da leggere.
Il libro di Mélenchon
Quanto il testo di Kundnani appare rigoroso e approfondito, tanto quello di Mélenchon è invece sostanzialmente sommario ed affrettato, quasi fosse stato preparato per qualche occasionale scadenza politica interna. In sintesi il volumetto si configura come un pamphlet violentemente antitedesco; esso appare condizionato dal vecchio demone antigermanico così presente ancora oggi in Francia. Le sue tesi sono anche presentate con un tono molto aspro.
Le riassumiamo sommariamente.
L’autore afferma nell’introduzione di essersi deciso a scrivere il libro dopo aver visto come la nomenclatura tedesca abbia trattato il nuovo governo greco e il popolo a nome del quale esso parla.
Mélenchon mette subito l’accento sull’affermazione che oltre Reno è nato un mostro, sottolineando l’idea che la Germania è diventata un pericolo per i suoi vicini e i suoi partner. Essa manifesta, per il politico transalpino, una crescente arroganza ed essa cerca di imporre il suo modello soltanto a suo profitto. Una nuove e crudele stagione della storia comincia in Europa, continente tedesco. L’imperialismo tedesco è di ritorno. L’abito europeo è la sua nuova uniforme, l’ordoliberismo il suo credo.
Il testo affronta molti temi specifici, da quelli economici a quelli sociali, a quelli politici. Così, sul fronte sociale il libro ricorda come il 20% dei lavoratori tedeschi siano oggi poveri, come 7 milioni di persone guadagnino meno di 450 euro al mese, come ormai ci siano ormai nel paese due volte di più contratti precari che in Francia. Al netto dell’inflazione un salariato medio guadagnava nel 2013 meno che nel 1999.
L’autore sottolinea anche come il made in Germany oggi sia in gran parte dovuto ai lavoratori polacchi, cechi, ungheresi, slovacchi, con i loro paesi praticamente annessi alla Germania in un ruolo ampiamente subordinato. I piromani tedeschi hanno in effetti per Mélenchon guidato a loro vantaggio la spinta militare dell’occidente verso est, a partire dal Kossovo e dalla Serbia, per trarne poi ampi vantaggi economici.
Oggi quindi per l’autore cambiare il nostro modello sociale e cambiare la Germania sono diventati una sola cosa. Nella conclusione del testo Mélenchon, dopo aver distinto nettamente, con toni quasi razzisti, i due mondi che si collocano rispettivamente di qua e di la del Reno, incita la Francia a rompere l’accerchiamento dell’ordoliberismo, ad avviare un confronto franco e duro con la Germania e a cercare di avviare un progetto alternativo, mettendosi alla testa di una rifondazione dell’Europa dei popoli.
Alla fine, il libro di Melenchon ci sembra troppo affrettato, caratterizzato da un tono molto dogmatico, basato su dati molto parziali, fatto più di slogan che di analisi approfondite, anche se alcune della sue conclusioni, ma certamente non tutte, appaiono condivisibili.

Testi citati nell’articolo
-Kundnani H., The paradox of german power, Hurst, Londra, 2015
-Mélenchon J.-L., Le hareng de Bismark (le poison allemand), Plon, Parigi, 2015
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giovedì 2 luglio 2015

Referendum in Grecia

Perché il referendum 'eccezionale' di Tsipras ha impresso una svolta nelle trattative

di Nadia Urbinati   01 Luglio 2015
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«Il desiderio del governo greco, espresso fin dall'inizio, è stato quello di alterare la politica di austerità, non di rinnegare l'Europa. Forse questo desiderio era utopistico ma non illegittimo; forse ha fallito nell'efficacia, ma la visione non era sbagliata». Huffington post, 30 giugno 2015

Ogni referendum ha una storia sua propria. Quello greco è politico nei suoi fondamenti ed eccezionale. Non nasce dalla volontà del governo di Atene di scaricare la responsabilità di una decisione ardua sui suoi cittadini. Nasce da un coacervo di circostanze che hanno creato un'oggettiva situazione di stallo nella trattativa tra il governo greco, i partner europei e i rappresentanti del FMI volta ad approntare un iter realistico verso il ripiano del debito che non uccida i debitori o non li renda così impotenti da annullare la loro capacità di darsi una vita dignitosa. Si tratta di un referendum in ultima istanza; per superare la situazione di stallo o uscire dal binario morto nel quale le parti di questa lunga trattativa si sono cacciate.

Per un governo rappresentativo si tratta di una decisione determinante, una di quelle gravide di conseguenze non rivedibili per questa generazione e quelle a venire. La consultazione dei diretti interessati sul Memorandum politico dell'austerità è per questo legittima. Ma è anche ragionevole in vista proprio della continuazione della trattativa. Segno di un governo che rischia e ha il senso della gravità del momento. Del resto, nonostante sia identificato come un governo di sinistra radicale, la maggioranza dei greci che lo hanno votato, ha scritto Stathis Gourgouris, non é composta di persone ideologiche, ma di cittadini stanchi delle impotenze dei governi precedenti, della mancanza di coraggio delle leadership tradizionali. Il voto a Syriza ha espresso una richiesta di coraggio, di mutamento di percorso. E la sua classe politica giovane e nuova ha anche per questo avuto il sostegno di persone politicamente distanti.

Un fatto va sottolineato, e che non appare nei resoconti catastrofisti di questi giorni: Syriza ha pensato che per uscire dallo stallo della trattativa a Bruxelles solo l'appello al popolo poteva rimettere in moto le cose. Gli scienziati politici hanno in varie occasioni messo in evidenza come la scelta radicale, per esempio il ricorso diretto alla voce del popolo, ha precisamente la funzione di imprimere una svolta che dia nuovo vigore e immaginazione alle forze in campo. Non è il referendum che le erode, del resto.

L'erosione deriva semmai dal far trascinare la trattativa troppo a lungo perché questo rischia di generare una crescente incomprensione nei partner in quanto mette in moto emozioni ostruttive, come la diffidenza e perfino il disprezzo personale tra i contraenti. Le trattative faccia-a-faccia sono cruciali quando vi é la volontà di risolvere il contenzioso in modo che tutti abbiano covenienza. Ma la lunghezza dei tempi gioca contro perché apre lo spazio alla guerra psicologia, che mira non a trovare una soluzione equa o non a somma zero, ma ad annientare l'avversario.

In questo senso, il referendum puó avere la funzione di stemperare gli umori psicologici spostando il problema sul terreno della procedura e dell'aspettativa assolutamente impersonale, quale é l'esito di un voto segreto. Sappiamo del resto che in molti casi, forme di democrazia diretta hanno il merito di stabilizzare le relazioni pubbliche perché orientano chi deve subire le conseguenza di una decisione all'accettazione delle scelte, anche le più ostiche (il caso esemplare é quello della Svizzera, che si é consolidata con i referendum). A giudicare dai movimenti della diplomazia mai interrotta a Bruxelles, è probabile che il referendum greco abbia il merito di rianimare la scena e mettere in campo proposte nuove e intenzioni meno macchinose e fatali. Sia che Syriza perda o vinca, il referendum potrà forse stabilizzare anziché destabilizzare le relazioni tra Grecia e Europa, poiché il popolo greco si fa direttamente responsabile.

Sarebbe desiderabile valutare positivamente l'onestà e il coraggio di questo governo, virtù determinanti in una fase di grande difficoltà come l'attuale. Virtù politiche che hanno il potere di tenere insieme una situazione difficilissima e aprire vie d'uscita.

Il desiderio del governo greco, espresso fin dall'inizio, è stato quello di alterare la politica di austerità, non di rinnegare l'Europa. Forse questo desiderio era utopistico ma non illegittimo; forse ha fallito nell'efficacia, ma la visione non era sbagliata come ha commentato Paul Krugman. Il referendum é a ben guardare il gesto di una politica europeista non anti-europeista. Solleva direttamente una questione che vale per tutti gli europei: che Europa é questa che tratta il debito secondo una logica contrattualistica privata e non sa comprendere la legittimità democratica che un popolo ha di tentare strade meno dolorose e ingiuste? Su quali basi e con quale logica la dirigenza europea pensa di poter evadere una richiesta democratica di mutare rotta per avviare una diversa strategia di risoluzione del debito che faccia perno sulla crescita e non sui tagli?

Il referendum greco ha posto un problema all'Europa, un problema che deve essere risolto in e con l'Europa: quello di un modo diverso di affrontare le politiche del debito - cioé come politiche di risanamento e di crescita, non di punizione. Così è stato in Europa dopo la distruzione lasciata dalla guerra, così dovrebbe essere oggi dopo la distruzione lasciata da questa crisi economica. E la scossa del referendum, nella sua tragicità può aiutare a intraprendere questo percorso.
Del resto la democrazia è un governo del rischio e della crisi. Da onorare sia quando la fortuna arride sia in tempi duri che richiedono un surplus di saggezza e di coraggio. Nel linguaggio di Aristotele, ai cui scritti la scienza e la pratica politica europee sono debitrici, la democrazia é modo politico di vivere insieme nel quale tutti hanno un egual condivisione di potere. Senza di che ci sono relazioni di dominio; senza di che non c'è posto per alcuna trattativa, ma solo per la non-scelta del prendere o lasciare.