sabato 27 settembre 2014

Assalto allo Statuto dei Lavoratori

MARIA MANTELLO – L’assalto allo Statuto dei Lavoratori: verso una Repubblica fondata sul servaggio

http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/09/25/maria-mantello-l%e2%80%99assalto-allo-statuto-dei-lavoratori-verso-una-repubblica-fondata-sul-servaggio/


     Lo Statuto dei Lavoratori non è un capriccio, un puntiglio dei Sindacati, un privilegio da abbattere. È un baluardo contro gli assalti di quelle aree imprenditoriali e forze politiche con loro conniventi che vogliono cancellare diritti e tutele nella speranza di riportare i lavoratori a una situazione da medioevo, dove i padroni dell’industria e della finanza tornano a dominare senza Legge né Stato.

Quando infatti, nella grancassa ben orchestrata degli spot mediatici, la Costituzione sarà assoggettata agli interessi di chi comanda, la scuola statale privatizzata, le tutele e i diritti sul lavoro cassati, davvero l’Italia cambierà verso: non sarà più una Repubblica democratica fondata sul lavoro, ma sul servaggio.
In questo processo reazionario, lo scalpo della legge 300 ha un valore simbolico altissimo, da sbandierare come rivincita del padronato nella resa di conti antidemocratica.

Lo Statuto dei diritti dei lavoratori, legge 300 del 20 maggio 1970, non è una delle tante leggi del diritto del lavoro. È la Dichiarazione d’indipendenza dei lavoratori. L’orizzonte di demarcazione che la Repubblica democratica fondata sul lavoro ha voluto sancire come diritto umano alla dignità per una società affrancata da sfruttati e sfruttatori.
Una conquista formidabile, perché la Costituzione è entrata in fabbrica, come si disse giustamente allora, perché le libertà civili e democratiche non possono essere sospese sui posti di lavoro. Non più zone franche per la legge del padrone.

Con lo Statuto dei lavoratori si realizzava una fondamentale conquista di civiltà e di democrazia, che dava al “pane quotidiano” il sapore forte dell’emancipazione individuale e sociale nel lavoro e col lavoro. E proprio con l’art. 18 quell’emancipazione la si salvaguarda contro il ricatto del licenziamento ingiusto, introducendo il principio del reintegro del lavoratore, a cui dovevano essere versate le retribuzioni dalla data dell’illegale licenziamento azzerato dal magistrato.

Un formidabile paletto contro gli abusi di chi licenziava senza “giusta causa” (es. furti o altri reati) e “giustificato motivo” (notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento): «Il giudice… condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l’inefficacia o l’invalidità stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione».

E proteggendo il lavoratore dall’eventualità che possa essere liquidato con una somma sostitutiva del reintegro, l’art. 18 stabiliva che questa eventualità è possibile solo se lo richiede il lavoratore: «al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto».

La riforma Fornero, nel clima di esaltazione per il governo dei bocconiani che aveva contagiato anche la sinistra, riuscì a mettere mani sull’art.18, prevedendo il reintegro solo nei casi di discriminazione del lavoratore (es. appartenenza politica, orientamento religioso, sessuale, ecc.) ma sostituendolo con l’indennizzo in tutti gli altri casi. Insomma una mancia di benservito!

Ma Renzi vuole adesso lo scalpo non solo dell’art.18, ma dell’intero Statuto, additato come un privilegio e impedimento della ripresa occupazionale.
E ci ripropone la vecchia favola per cui solo se c’è più flessibilità (ovvero assenza di stabilità del lavoratore, come pur la Costituzione prevede) le imprese assumerebbero e l’Italia uscirebbe dalla crisi.
La flessibilità l’abbiamo vista, i posti di lavoro no. E neppure la ripresa economica.

Abbiamo visto solo la moltiplicazione pluridecennale delle tipologie di aggiramento del contratto a tempo indeterminato (lavoro a collaborazione, ripartito, intermittente, accessorio, a progetto, ecc.), che dal “pacchetto Treu” alla “legge Biagi al decreto di maggio scorso dell’attuale ministro Poletti hanno reso strutturale la precarietà.

Lo scandalo è questo e non basta per eliminarlo la battuta facile intrisa nella bivalenza renziana delle formule: “togliamo le garanzie dell’art.18, ma garantiamo la sicurezza ai precari”.

Non argomenta il “giovane” Renzi, lui spara twitter-spot. Non vuole neppure essere disturbato a discutere con chi si oppone alla dismissione finale del diritto del lavoro. “O così o decreto”, ripete. Insomma “qui comando io”.
Eppure, all’epoca del governo Monti aveva detto “lo Statuto non si tocca”. Ma doveva conquistarsi il posto di capo-partito e quello di capo di Governo.

Adesso l’obbiettivo finale è avere in mano tutto il partito. E forse, l’attacco all’art. 18 gli serve per sbarazzarsi di quanto in esso resta di sinistra. Così alla fine si compirà l’ultima metabolizzazione del Pd: un partito qualunque. Un partito post ideologico, come usano dire quelli veramente di destra.
Chissà se anche tutto questo non rientri nel patto Berlusconi – Renzi.

Il Cavaliere intanto si gode la sua Resurrezione, e gongola in attesa di riprendersi tutto il palcoscenico della politica, mentre il suo ventriloquo gli fa il lavoro sporco.

Maria Mantello
(24 settembre 2014)



ARTICOLO 18 dello STATUTO dei LAVORATORI: testo






Ferme restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. 

Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro. Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale.
 
Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.
Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto.
 
Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell'indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti.
La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva.
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
 
L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.
 
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore.

Animantia Insieme

Una PREGHIERA di BASILIO il GRANDE


Signore e salvatore del mondo,
noi ti preghiamo per gli animali
che umilmente portano con noi
il calore e il peso del giorno
e offrono le loro misere vite
affinché noi viviamo bene …
Noi ti preghiamo
anche per le creature selvagge
che tu hai creato sapienti, forti, belle;
ti preghiamo per tutte le creature

e supplichiamo
la tua grande tenerezza di cuore
perché tu hai promesso
di salvare l’uomo
e gli animali (cfr. Sal, 36, 7)
e hai concesso loro il tuo amore infinito


*** arriva da un passato lontano questa preghiera, un passato "biblico" con il suo carico ideale e reale del senso di una "RELIGIO NATURALIS", che accomuna nel "SACRO" ogni animale umano agli animali non umani, e a tutti gli esseri viventi


*** per ricordare l'ORSA DANIZA e tutti noi ESSERI VIVENTI su un PIANETA AZZURROBLU, scintillante di BIANCO e turgido di VITA. Un immenso organismo meravigliosamente dinamico.
 


https://www.facebook.com/video.php?v=1498897020358218


Orso scherza schizzando acqua insieme al suo amico umano
Per me è uno dei video più belli e teneri mai visti!! *___*




Note:

Basilio il Grande cita il Salmo 36, in cui si dice: “Signore, tu che salvi gli esseri umani e gli animali”.



Basilio il Grande, Preghiera, da Uomini e animali visti dai padri della chiesa, a cura di E. Bianchi, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 1997, p. 26.

martedì 23 settembre 2014

Follia con logica



Incapaci perché intelligenti. Ignoranti perché saggi. Retorici perché ignoranti e incapaci. Le principali accuse che l’opinione pubblica rivolge alla classe politica hanno anche spiegazioni razionali. Che rivelano una malattia molto seria della democrazia italiana. E di molto difficile cura.


Se chiedete al cittadino italiano tipico cosa pensa del politico tipico ci sono buone probabilità che risponda che lo ritiene un ladro, un incapace, un ignorante e uno che dice solo vuote banalità[2]

La prima accusa è sovente ingenerosa e frutto di disinformazione e/o di indebita generalizzazione. Le ultime tre però corrispondono a un’evidenza empirica troppo ampia per potere essere ignorata.

Cosa spinge un politico a dire che non ci sarà una manovra economica salvo a contraddirsi pochi giorni dopo, o ad escludere categoricamente un’amnistia, salvo poi approvarla pochi giorni dopo, in entrambi i casi facendo la figura dell’incapace? Oppure a schierarsi decisamente a favore dell’Ucraina contro la Russia, salvo poi (cfr. "Le Iene" del 19 marzo) dimostrare di non sapere nulla del problema, e risultando quindi palesemente ignorante?

E cosa fa sì che i politici non dicano nulla, o dicano solo slogan, riguardo ai problemi più gravi del paese, in primo luogo la crisi economica?

Se chiedete a un politico del PD (ma anche di partiti non della maggioranza) cosa farebbe per rilanciare l’economia risponderà probabilmente che "bisogna fare le riforme e allentare l’austerità". Se gli si chiede quali riforme si spingerà forse fino a dire "riforma del mercato del lavoro", ma certo non dirà come vuole riformarlo, se non forse per qualche fumoso accenno a una maggiore flessibilità; e se gli si chiede cosa si fa una volta allentata l’austerità risponderà (se è onesto) che non lo sa. Interrogato sul perché di questi comportamenti l’uomo della strada, come abbiamo visto, tenderà a rispondere che il motivo è che i politici sono incapaci e/o che pensano solo a prendere lo stipendio e a niente altro. Ma questi comportamenti sono troppo diffusi perché queste risposte possano essere soddisfacenti, anche se la seconda, come vedremo, contiene un bel po’ di verità. Deve esserci qualche motivo razionale. La ricerca di questo motivo è l’argomento di questo articolo.

Incapaci perché intelligenti

La figura cruciale per capire il comportamento di un partito come il PD è quella che possiamo chiamare il quadro. Costui è un soggetto il quale può ottenere una carica o una posizione amministrativa utile grazie a un processo a due stadi:
  1. la designazione da parte del partito e la successiva nomina da parte dell’autorità competente (o dell’elettorato); 
  2. il secondo passaggio presuppone il primo. L’esempio più ovvio è il candidato al parlamento che diviene parlamentare; ma ce ne sono molti altri – il possibile dirigente di una ASL, il possibile consigliere d’amministrazione di una banca, ecc.  In effetti, tutti i politici professionisti sono in questa condizione, tranne che nel caso –una volta relativamente comune, e oggi molto marginale- che la militanza sia diffusamente sostenuta da una scelta etica (o da un patrimonio famigliare) in misura tale da rendere il soggetto indifferente alle sue fortune personali. Se escludiamo questi casi, un politico professionista non può fare a meno dell’appoggio del partito. Si potrebbe obbiettare che potrebbe farne a meno se potesse "correre da solo", ma in una democrazia moderna tale possibilità è remota.
Nella situazione attuale (ma "attuale" qui significa "da parecchi anni") il quadro di un partito di governo (o che pensa di avere buone possibilità di divenire tale alle elezioni successive), come il PD, si trova ad operare in una situazione difficile. Le difficoltà nascono dalla necessità imposta dalla situazione economica di fare delle scelte che scontentano dei soggetti importanti, dal punto di vista del numero di voti e/o da quello del potere economico. In una crisi come quella attuale i soldi sono pochi, e diminuiscono: bisogna inevitabilmente scontentare qualcuno, e questo qualcuno potrà effettuare ritorsioni dannose per chi è responsabile delle politiche relative. Ho sottolineato il termine "responsabile" perché è cruciale per il nostro ragionamento.

Il problema del quadro è evitare di essere ritenuto responsabile della politica che causa malcontento. Infatti se ciò succede le sue possibilità di carriera saranno inevitabilmente compromesse, e tanto più quanto la situazione è grave (e quindi, presumibilmente, il malcontento è profondo): il partito preferirà promuovere, quale che sia la carica in questione, un soggetto non esposto al malcontento piuttosto che qualcuno che lo è (costui anzi sarà un ottimo candidato a diventare il capro espiatorio, come nel caso, per esempio, di Tremonti sotto Berlusconi).

Se poi il partito non è composto da gentiluomini e gentildonne di elevata moralità (e che di solito non lo sia sembra indubbio), allora si aggiunge un problema ulteriore: creare conflitti di opinione entro il partito espone al rischio di essere fatto fuori dalla concorrenza interna. E tutto questo senza contare l’astio che inevitabilmente suscitano i "whistlebowers" fin dai tempi di Cassandra. Quando le cose vanno male conviene stare zitti.

Il nostro quadro, proprio in quanto non incapace, preferirà allora evitare di fare proposte che possano dispiacere a qualcuno: sarebbe inutile per la sua causa e dannoso per lui. E dal momento che questo sarà il comportamento tipico dei quadri, il partito non potrà elaborare e proporre politiche efficaci. L’unico che potrà farlo sarà il Capo, purché sia sufficientemente immune dalla concorrenza. Le analogie fra Renzi e Stalin, ovviamente in situazioni molto diverse dal punto di vista della gravità della crisi, del conflitto e delle sanzioni comminate, non sono casuali.

E’ importante notare che non è sempre stato così in altre crisi economiche di gravità paragonabile. La Long Depression di fine ottocento è stata affrontata dall’Inghilterra e dalla Francia con la creazione degli imperi coloniali; Hitler ha "risolto" la crisi della Germania espropriando gli ebrei[3]. In entrambi questi casi (e in altri) la crisi è stata pagata da qualcuno esterno alla collettività, e quindi senza particolari sacrifici per i membri di essa (donde la popolarità dell’imperialismo e del nazismo). Oggi, fortunatamente, soluzioni di questo tipo sono impraticabili, almeno in Italia; non è detto che lo siano anche domani.

Ignoranti perché saggi
Abbiamo quindi trovato la spiegazione della prima delle accuse che l’opinione pubblica rivolge alla classe politica, l’incapacità. Veniamo alla seconda, l’ignoranza.
Supponiamo che il nostro quadro tipico sappia che esistono politiche praticabili e utili, che però necessariamente scontentano qualcuno. Sa anche, come abbiamo visto, che se proponesse di attuarle non verrebbe ascoltato, e sarebbe emarginato (o peggio) all’interno del partito. Egli si trova evidentemente in una posizione scomoda, quanto meno nei confronti della propria coscienza; ma probabilmente anche nei confronti dell’opinione pubblica. A maggior ragione se è un esperto: in un eventuale confronto con altri esperti, per esempio in un dibattito, questi gli segnaleranno l’esistenza di quelle politiche, e lui dovrà scegliere se dirsi d’accordo con le conseguenze che abbiamo visto o danneggiare seriamente la sua reputazione d’esperto. Potrei citare parecchi esempi in cui mi sono imbattuto personalmente. Il più vistoso probabilmente è quello di un deputato PD che è anche un maître à penser abbastanza noto. Ha scritto alcuni importanti articoli contro l’Italicum, da lui giustamente ritenuto un attentato alla democrazia; salvo poi votare a favore. Quando, durante un dibattito, gli ho chiesto il perché di questa evidente contraddizione ha risposto, con ovvio imbarazzo e poca logica, che la legge sarebbe stata modificata al Senato.
C’è però un modo di risolvere il dilemma: e cioè ignorare che una politica praticabile (ma che scontenta qualcuno) esiste. Nessuno obbliga il funzionario a ricevere informazioni. Se non sa le cose non avrà problemi di coscienza; e messo di fronte a una proposta interessante potrà dire, credibilmente, che ci penserà, salvo poi non farlo. Si potrebbe ritenere che questo machiavellismo di secondo ordine non esclude il problema della coscienza in quanto il nostro protagonista deve attivarsi per non ricevere informazioni, ma non è così. La sua giornata è piena di impegni improrogabili: gli sarà facile e spontaneo "non avere tempo" per approfondire certi argomenti, avendo molte cose serie e importanti di cui occuparsi. Lui non c’entra con quella questione - quale che essa sia. Deve occuparsene qualcun altro. Leggiamo in Guerra e Pace che alla vigilia della battaglia di Austerlitz il più alto in grado degli aiutanti dello zar dice a un disperato Kutuzov che lui si occupa delle cotolette e del riso, e tocca a qualcun altro occuparsi della guerra. Il guaio è che nel nostro caso questo qualcun altro semplicemente non esiste.
Anche su questo punto posso citare un esempio, particolarmente drammatico, che ho vissuto -o meglio sto vivendo- personalmente.
Uno dei problemi più gravi oggi in Italia è il sottodimensionamento del settore pubblico. Nel nostro paese ci sono circa 3.300.000 pubblici dipendenti; la Francia e il Regno Unito, paesi paragonabili come abitanti e (sempre meno) come livello di sviluppo ne hanno quasi il doppio. Persino gli USA hanno un numero di dipendenti pubblici rapportato alla popolazione sensibilmente più alto dell’Italia, anche escludendo il personale militare[4]. Questi dati indicano che molto probabilmente il sottodimensionamento del settore pubblico è uno dei principali ostacoli alla ripresa dell’economia e dell’occupazione, ed è chiaro che in queste condizioni le politiche di spending review devono essere molto caute. Un gruppo di economisti e sociologi delle Università del Piemonte Orientale e di Torino sta lavorando sui questo tema; quando abbiamo cercato di parlarne con qualche politico della maggioranza abbiamo ricevuto risposte che andavano da un offensivo "non è vero" a "ho cose più urgenti per la testa."
E’ molto importante notare che l’ignoranza e l’incapacità interagiscono a spirale. Un ignorante è per ciò stesso anche incapace; e un incapace non sa dove prendere le informazioni che occorrono per smettere di essere tale, anzi abbiamo visto che preferisce non farlo. Non a caso, ma paradossalmente, l’inettitudine del governo è assunta dal governo stesso come un vincolo insuperabile. E questo non sempre in mala fede: quando si dice per esempio che non si possono colpire i paradisi fiscali è ovvio che c’è chi preferisce non colpirli; ma ottenere questo risultato gli sarà tanto più facile quanto più il parlamentare tipico ignorerà cosa voglia dire "paradiso fiscale".
Retorici perché ignoranti e incapaci

Abbiamo visto quindi che a un politico conviene essere ignorante. La terza caratteristica, la vuota retorica, è una conseguenza ovvia e diretta delle prime due: se non si possono fare proposte e se si deve nascondere la propria ignoranza cosa si può dire, visto che dire qualcosa fa parte del mestiere di un politico? Occorre esprimersi con una forma che mascheri l’assenza di sostanza, e fare promesse per domani che nascondano l’inadempienza di oggi: "il possibile non lo facciamo, ma l’impossibile ve lo prometto fin d’ora" diceva anni fa un politico in un intelligente fumetto (Le cronache di Fra Salmastro, di Enzo Lunari). Un autentico capolavoro da questo punto di vista è lo slogan totalmente privo di significato della Festa Nazionale Democratica di Genova (2013): Perché l’ Italia vale. E’ facile immaginare un acceso dibattito in cui frasi come "dalla parte dei lavoratori" o "per un Italia giusta" venivano escluse per non dispiacere ai padroni o, rispettivamente, ai delinquenti.

Che fare?

Fin qui ho usato un tono faceto, ma è evidente la gravità di quanto sopra: abbiamo a che fare con una malattia molto seria della democrazia. I sintomi e la diagnosi sono evidenti; lo è anche la terapia, come ora vedremo. Ma per continuare con la metafora, tale terapia è troppo costosa, l’Italia non è in grado di pagarla, e quindi la prognosi è probabilmente infausta.
La terapia richiede infatti che venga ridata ai politici la libertà di parola, nel senso che dire le cose giuste non implichi una penalizzazione ma una promozione; e che ciò li induca quindi a rimettersi a pensare e a studiare. Ma il ripristino della libertà di parola implica a sua volta due cose.
In primo luogo occorre che il mercato politico torni ad essere concorrenziale. Bisogna che chi fa delle proposte giuste e ragionate possa essere ascoltato e premiato dagli elettori. Come abbiamo visto, esiste un circolo vizioso che fa sì che sia non solo inutile ma dannoso elaborare proposte sensate (cosa che tra l’altro richiede impegno e tempo, necessariamente sottratti ad altre attività), se non altro perché non si sarebbe comunque ascoltati[5]. Una maggiore concorrenza fra i politici richiede a sua volta un sistema elettorale in cui la partecipazione di molti partiti, lungi dall’essere ostacolata, sia incoraggiata[6]. Il circolo vizioso deve diventare un circolo virtuoso in cui i partiti sono incentivati a produrre buone idee (e quindi realistiche: un’idea non realistica non può essere buona), perché queste saranno valutate e premiate dagli elettori. Non da tutti, sopratutto in periodi di crisi, quando un’idea realistica richiede che qualcuno venga danneggiato; ma da un numero sufficiente perché valga la pena proporla.
In secondo luogo occorre spezzare il legame fra fedeltà a un partito e accesso alle cariche amministrative. Ciò renderebbe meno costoso per un funzionario intelligente prendere le distanze dall’ortodossia del partito. Anzi, avere idee buone e originali potrebbe addirittura convenire se questo propiziasse la nomina a posti di responsabilità, anziché ostacolarlo, come avviene ora.
Le due proposte sono sostanzialmente ovvie. Ma altrettanto ovviamente ci sono forze potenti e, ahimè, vincenti che ne impediscono l’adozione. L’occupazione delle amministrazioni da parte dei partiti è giunta a un punto tale che difficilmente può esistere qualcuno che abbia acquisito le competenze necessarie senza essere organicamente legato a uno di essi, con le conseguenze che abbiamo visto. E i due partiti maggiori stanno riuscendo a blindare le elezioni in modo tale da potere scegliere i candidati che saranno eletti, obbligando così chiunque voglia competere per una carica politica (e amministrativa) a passare attraverso di essi. E’ possibile, e secondo me probabile, che gli storici futuri vedranno nell’approvazione dell’Italicum il punto di non ritorno nel processo di abrogazione della democrazia rappresentativa nel nostro paese. Fermare l’Italicum è condizione necessaria per il mantenimento della democrazia; non è però condizione sufficiente.
NOTE
[1] Professore ordinario di Politica Economica e di Teoria delle Scelte Collettive presso l’Università del Piemonte Orientale.
[2] Si veda, come un esempio far i tanti, il sito https://it.toluna.com/opinions/1090237/Le-vostre-opinioni-sui-politici-italiani.
[3] Come dimostrato conclusivamente da A. Gotz, Lo stato sociale di Hitler, Einaudi 2007.
[4] Queste differenze non sono influenzate in modo significativo da eventuali diversi pesi del settore privato e di quello pubblico nella produzione dei servizi, come è facile verificare sui dati OCDE e ILO.
[5] Su questo punto le responsabilità dei media filogovernativi è enorme. Al punto che è lecito pensare che anche essi facciano in realtà capo a "quadri" nel senso indicato da questo articolo. Ma approfondire questo discorso ci porterebbe troppo lontano.
[6] Esiste un diffuso pregiudizio secondo cui sarebbe opportuno ridurre il numero dei partiti per motivi di "governabilità". Questo pregiudizio non trova riscontro (ma trova obiezioni) nella letteratura scientifica, sia empirica che teorica. In particolare, negli anni in cui in Italia vigeva un sistema proporzionale non è mai successo che un partito minore (cioè con meno del 10% dei voti) avesse il potere di fare perdere la maggioranza alla coalizione di governo abbandonandola; non solo, non è nemmeno mai successo che l’eventuale abbandono di un partito minore desse a un altro partito minore tale potere.

MICROMEGA, 18 settembre 2014

domenica 21 settembre 2014

Parlamento Italiano Oggi



TRA BRUNO E VIOLANTE

Il nostro triste e muto Parlamento senza qualità
di Furio Colombo
da Il Fatto Quotidiano del 21/09/2014


Il Parlamento è bloccato e non può funzionare. Il Parlamento fermo vuol dire che è fermo il motore del Paese, persino se i giri del motore governo fanno pensare a una velocità impazzita. Quello che sfugge è il disegno che si manifesta con ostinazione in una forma molto strana.
1.    Primo, si impongono al Parlamento decisioni ineludibili.
2.    Secondo, il Parlamento recalcitra.
3.    Terzo, il governo insiste nella imposizione e il Parlamento insiste nel rifiuto. Tredici volte (ricordare che le votazioni per la presidenza della Repubblica sono state solo due “per non fermare il Paese”).
4.    Quarto, il presidente della Repubblica rimprovera il Parlamento e dichiara futili e faziose le sue ragioni. Ovvero non offre un pensiero o una preoccupazione ma un giudizio sulla disciplina di un Parlamento in cui la disciplina riguarda il regolamento ma non l’obbedienza ai partiti o al governo, rispetto ai quali è autonomo.
5.    Quinto, si impone al Parlamento di continuare con lo stesso ordine del giorno (che non è del Parlamento ma dell’esecutivo) e si dichiara in anticipo che non sottomettersi è una sorta di tradimento. 


Sembra sfuggire, anche ai costituzionalisti silenziosi che intervengono con fervore se è in discussione la soglia di sbarramento della legge elettorale, che nessuno può imporre un ordine del giorno al Parlamento se non il Parlamento stesso. Questa non è una esaltazione del Parlamento. È la descrizione della legalità in normali condizioni di vita istituzionale e politica. Importa poco analizzare le cause interne, fatte di opinioni, giudizi e decisioni di gruppi parlamentari contro altri gruppi parlamentari, che hanno portato a questo disastro (fermata assoluta e per ora irrisolvibile delle Camere) perché non si tratta di un braccio di ferro tra Parlamento e governo.

Si tratta di un Parlamento da molti anni assoggettato al governo   – ovvero ai partiti di maggioranza – che non decide ma riceve gli ordini del giorno di ciò che deve fare. Attenzione.

L’impossibilità di decidere non è né legge né Costituzione né regolamento.   È TRISTE PRASSI dettata, in altri contesti, dalla partitocrazia, e denunciata già in tempi lontani (nel cuore della Prima Repubblica) dalla pattuglia dei deputati Radicali allora presenti alla Camera, che arrivavano al punto di autoconvocarsi al mattino presto per discutere ciò che altrimenti, nell’orario regolare di seduta, era vietato discutere.

Questa volta i parlamentari in dissenso (prevalentemente il Movimento Cinque Stelle) contro l’imposizione dell’esecutivo, hanno meno fantasia dei Radicali (ora si protesta di solito solo con cartelli e dichiarazioni) oppure meno prestigio (i deputati della Lega Nord).   Però l’evidenza ci dice che, accanto a nuclei identificati di opposizione (che sono comunque parte essenziale della vita di un Parlamento) , c’è un vagare di parlamentari zombie che sembrano non sapere da dove vengono e dove vanno e chi rappresentano e perché. Insomma il lungo massacro del Parlamento, mai rispettato nelle sue prerogative di indipendenza da un potere e dall’altro, sta dando i suoi frutti.

Infatti né Camera né Senato hanno mai discusso chi e perché doveva andare alla Corte costituzionale o al Csm. I nomi ti appaiono sul cellulare non per essere discussi ma per eseguire.

Se vogliamo parlare di dolorosi ed esemplari precedenti italiani, possiamo ricordare il trattato di fraterna e perenne amicizia con Gheddafi, votato in pochi giorni da un Parlamento già deformato da “larghe intese” (tutto il Pd meno due, tutto il Popolo delle libertà, tutta la destra, tutta la Lega) prima delle vere larghe intese, volute dalla stessa ditta, mentre tutti i votanti sapevano dell’orrore che fra poco avrebbe fatto crollare il regime con cui si votava il perenne legame. Anche in quella occasione solo il gruppetto di Radicali (con un paio di deputati Pd, poi prontamente esclusi da ogni attività di quel partito) si sono appassionatamente e inutilmente opposti. E anche in quel raro episodio si toccava con mano il fastidio creato da parlamentari che mettono in discussione decisioni già prese altrove da adulti che sanno. “I trattati non si discutono, si ratificano” ti dicevano fermi e autorevoli coloro che facevano da cerniera fra partito (dove gli adulti prendono le decisioni) e il parco giochi delle Camere.  

SE VOGLIAMO parlare di altri Paesi, in cui i partiti, come organizzazione e come centro di decisione politica, non mettono piede in aula, ricordiamo gli Stati Uniti. In piena presidenza Reagan (una presidenza forte e popolare) la nomina presidenziale del giudice Thomas a giudice a vita della Corte suprema (nomina che richiede l’approvazione della Commissione giustizia del Senato) ha dovuto attendere mesi di pubbliche testimonianze, di denunce, di violenta opposizione contro la decisione di Reagan, prima di spuntarla, con un solo voto di maggioranza.

Per parafrasare Humphrey Bogart nel suo celebre film, “È la politica, bellezza”.   Non da noi.

Da noi ordini incoerenti, confusi e ostinati bloccano e umiliano un Parlamento senza qualità. Infatti non ha l’iniziativa e il coraggio (sarebbe bello se avvenisse sotto la guida dei due presidenti) di autoconvocarsi, di stilare e votare una sua lista di candidati per la Corte costituzionale e il Csm, e poi di decidere da quale parte della disordinata matassa di Renzi, ricominciare il lavoro per non fermare il Paese.

venerdì 19 settembre 2014

tutte le storie


Paolo me lo ripeteva sempre:
 

« L'amore si mantiene fresco con una novità ogni giorno. Che non è il fiore, o un regalo qualsiasi.
Ti racconterò tutte le storie che potrò. Così la nostra Favola non finirà mai, finché vivrò.»


Agnese Borsellino, Ti racconterò tutte le storie che potrò , Feltrinelli