giovedì 28 febbraio 2013

Riflessioni

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Napolitano, la Consulta e quel silenzio sulla Costituzione ...

Napolitano, la Consulta e quel silenzio sulla Costituzione ...


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di GUSTAVO ZAGREBELSKY .... (17 agosto 2012) © Riproduzione riservata ... "Quirinale contro pm è conflitto tra poteri dello Stato" 19 settembre 2012 ...



Eterogenesi dei fini. Delle nostre azioni siamo, talora, noi i padroni. Ma il loro significato, nella trama di relazioni in cui siamo immersi, dipende da molte cose che, per lo più, non dipendono da noi. Sono le circostanze a dare il senso delle azioni. È davvero difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani, abbia previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per assumere il significato d'un tassello, anzi del perno, di tutt'intera un'operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la "trattativa" tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia. Sulla straordinaria importanza di queste indagini e sulla necessità che esse siano non intralciate, ma anzi incoraggiate e favorite, non c'è bisogno di dire parola, almeno per chi crede che nessuna onesta relazione sociale possa costruirsi se non a partire dalla verità dei fatti, dei nudi fatti. Tanto è grande l'esigenza di verità, quanto è scandaloso il tentativo di nasconderla.

Questa è una prima considerazione. Ma c'è dell'altro. Innanzitutto, ci sono i riflessi sulla Corte costituzionale e sulla posizione che è chiamata ad assumere. Non è dubbio che il presidente della Repubblica, come "potere dello Stato", possa intentare giudizi, per difendere le attribuzioni ch'egli ritenga insidiate da altri
poteri. Ma non si può ignorare che la Corte, in questo caso, è chiamata a pronunciarsi in una causa dai caratteri eccezionali, senza precedenti. Non si tratta, come ad esempio avvenne quando il presidente Ciampi rivendicò a sé il diritto di grazia, d'una controversia sui caratteri d'un singolo potere e sulla spettanza del suo esercizio. Qui, si tratta della posizione nel sistema costituzionale del Presidente, in una controversia che lo coinvolge tanto come istituzione, quanto come persona.

Non è questione, solo, di competenze, ma anche di comportamenti. Questa circostanza, del tutto straordinaria, non consente di dire che si tratti d'una normale disputa costituzionale che attende una normale pronuncia in un normale giudizio. È un giudizio nel quale una parte getta tutto il suo peso, istituzionale e personale, che è tanto, sull'altra, l'autorità giudiziaria, il cui peso, al confronto, è poco. Quali che siano gli argomenti giuridici, realisticamente l'esito è scontato. Presidente e Corte, ciascuno per la sua parte, sono entrambi "custodi della Costituzione". Sarebbe un fatto devastante, al limite della crisi costituzionale, che la seconda desse torto al primo; che si verificasse una così acuta contraddizione proprio sul terreno di principi che sia l'uno che l'altra sono chiamati a difendere. Così, nel momento stesso in cui il ricorso è stato proposto, è stato anche già vinto. Non è una contesa ad armi pari, ma, di fatto, la richiesta d'una alleanza in vista d'una sentenza schiacciante.

A perdere sarà anche la Corte: se, per improbabile ipotesi, desse torto al Presidente, sarà accusata d'irresponsabilità; dandogli ragione, sarà accusata di cortigianeria. Il giudice costituzionale, ovviamente, è obbligato al solo diritto. Ma perché così possa essere, è lecito attendersi che gli si risparmi, per quanto possibile, d'essere coinvolto in conflitti di tal genere, non nell'interesse della tranquillità della Corte e dei suoi giudici, ma nell'interesse della tranquillità del diritto.

C'è ancora dell'altro. Sulla fondatezza di un ricorso alla Corte, chi di essa ha fatto parte è bene che si astenga dall'esprimersi. Ma, almeno alcune cose possono dirsi, riguardando il campo non dell'opinabile, ma dei dati giuridici espliciti, e quindi incontestabili. Questi dati sono esigui. Una sola norma tratta espressamente delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica e della loro intercettazione, con riguardo al Presidente sospeso dalla carica dopo essere stato posto sotto accusa per attentato alla Costituzione o alto tradimento.

"In ogni caso", dice la norma, l'intercettazione deve essere disposta da un tale "Comitato parlamentare" che interviene nel procedimento d'accusa con poteri simili a quelli d'un giudice istruttore. Nient'altro. Niente sulle intercettazioni fuori del procedimento d'accusa; niente sulle intercettazioni indirette o casuali (quelle riguardanti chi, non intercettato, è sorpreso a parlare con chi lo è); niente sull'utilizzabilità, sull'inutilizzabilità nei processi; niente sulla conservazione o sulla distruzione dei documenti che ne riportano i contenuti. Niente di niente.

A questo punto, si entra nel campo dell'altamente opinabile, potendosi ragionare in due modi. Primo modo: siamo di fronte a una lacuna, a un vuoto che si deve colmare e, per far ciò, si deve guardare ai principi e trarre da questi le regole che occorrono. Il presupposto di questo modo di ragionare è che si abbia a che fare con una dimenticanza o una reticenza degli autori della Costituzione, alle quali si debba ora porre rimedio. Secondo modo: siamo di fronte non a una lacuna, ma a un "consapevole silenzio" dei Costituenti, dal quale risulta la volontà di applicare al presidente della Repubblica, per tutto ciò che non è espressamente detto di diverso, le regole comuni, valide per tutti i cittadini. Il presidente della Repubblica, nel suo ricorso, ragiona nel primo modo, appellandosi al principio posto nell'art. 90 della Costituzione, secondo il quale egli, nell'esercizio delle sue funzioni, non è responsabile se non per alto tradimento e attentato alla Costituzione.

La "irresponsabilità" comporterebbe "inconoscibilità", "intoccabilità" assoluta da cui conseguirebbero, nella specie, obblighi particolari di comportamento degli uffici giudiziari, fuori dalle regole e delle garanzie ordinarie del processo penale. La Corte costituzionale è chiamata ad avallare quest'interpretazione, che è una delle due: l'una e l'altra hanno dalla loro parte l'opinione di molti costituzionalisti. Le si chiede di dire che l'irresponsabilità, di cui parla la Costituzione, equivale, per l'appunto, a garanzia di intoccabilità-inconoscibilità di ciò che riguarda il presidente della Repubblica, per il fatto d'essere presidente della Repubblica.

Ma, in presenza di tanti punti interrogativi e di un'alternativa così netta, una decisione che facesse pendere la bilancia da una parte o dall'altra non sarebbe, propriamente, applicazione della Costituzione ma legislazione costituzionale in forma di sentenza costituzionale. Anzi, se si crede che il silenzio dei Costituenti sia stato consapevole, sarebbe revisione, mutamento della Costituzione. Per di più, su un punto cruciale che tocca in profondità la forma di governo, con irradiazioni ben al di là della questione specifica delle intercettazioni e con conseguenze imprevedibili sui settennati presidenziali a venire, che nessuno può sapere da chi saranno incarnati. Il ritegno del Costituente sulla presente questione non suggerisce analogo, prudente, atteggiamento in coloro che alla Costituzione si richiamano?

Coinvolgimento in una "operazione", inconvenienti per la Corte costituzionale, conseguenze di sistema sulla Costituzione: ce n'è più che abbastanza per una riconsiderazione. Signor Presidente, non si lasci fuorviare dal coro dei pubblici consensi. Una cosa è l'ufficialità, dove talora prevale la forza seduttiva di ciò che è stato definito il pericoloso "plusvalore" di chi dispone dell'autorità; un'altra cosa è l'informalità, dove più spesso si manifesta la sincerità. Le perplessità, a quanto pare, superano di gran lunga le marmoree certezze. Il suo "decreto" del 16 luglio, facendo proprie le parole di Luigi Einaudi (più monarchiche, in verità, che repubblicane), si appella a un dovere stringente: impedire che si formino "precedenti" tali da intaccare la figura presidenziale, per poterla lasciare ai successori così come la si è ricevuta dai predecessori.

Nella Repubblica, l'integrità e la continuità che importano non sono lasciti ereditari, ma caratteri impersonali delle istituzioni nel loro complesso. Col ricorso alla Corte, già è stato segnato un punto che impedirà di dire in futuro che un fatto è stato accettato come precedente, con l'acquiescenza di chi ricopre pro tempore la carica presidenziale. D'altra parte, da quel che è noto per essere stato ufficialmente dichiarato dal procuratore della Repubblica di Palermo il 27 giugno, le intercettazioni di cui si tratta sono totalmente prive di rilievo per il processo. Che cosa impedisce, allora, nello spirito della tante volte invocata "leale collaborazione", di raggiungere lo stesso fine cui, in ultimo, il conflitto mira - la distruzione delle intercettazioni, per la parte riguardante il presidente della Repubblica - attraverso il procedimento ordinario e con le garanzie di riservatezza previste per tutti? Che bisogno c'è d'un conflitto costituzionale, che si porta con sé quella pericolosa eterogenesi dei fini, di cui sopra s'è detto? Forse che i magistrati di Palermo hanno detto di rifiutarsi d'applicare lealmente la legge?




(17 agosto 2012)© Riproduzione riservata

La memoria difensiva della procura di Palermo - micromega-online - micromega

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Da Presidente a Monarca - micromega-online - micromega

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Stato-mafia, la Consulta accoglie il ricorso del Colle

Da Presidente a Monarca

Qualche telefonata di troppo. Una procura dall’orecchio attento. L’ordine di distruggere i nastri. Magistrati accusati di ordire un colpo di Stato. Sofismi e argomenti tautologici e infondati. Uno scontro tra magistratura e capo dello Stato senza precedenti nella storia della Repubblica. Una vicenda (e una sentenza) che stravolge la nostra democrazia, nell’analisi lucida e imparziale di uno dei più grandi giuristi.
di Franco Cordero, da MicroMega 8/2012
1. La storia comincia da una gaffe. Teme gl’indaganti l’ex ministro N.M., testimone su affari oscuri tra Stato e mafia: quindi spera che il procedimento passi in sedi meno ostiche; e volendo anche schivare un antipatico confronto, manda appelli al Quirinale. La risposta corretta sarebbe: «nihil de hoc». Il presidente non è organo censorio d’atti giudiziari, quali erano i monarchi francesi, forti del residuo d’un originario carisma giurisdizionale («justice retenue»), estinto nel collasso dell’ancien régime. Nemmeno Sua Maestà Carlo Alberto, sovrano bigotto costretto alla riforma costituzionale (5 febbraio 1848), oserebbe mettere becco nei processi brandendo una formula statutaria (art. 68: «La giustizia emana dal re»), ma 164 anni dopo, da Monte Cavallo spirano arie rétro. Anziché declinare l’improponibile argomento, il consigliere all’altro capo del filo sta al gioco: corrono dialoghi solidali; e siccome N.M. era sottoposto a controllo telefonico, ogni sillaba va nei nastri. Otto colloqui, dal 25 novembre 2011 al 5 aprile 2012. Spigoliamo qualche punto. L’altissima persona «s’è presa la questione a cuore» (24 febbraio). «Non vediamo molti spazi, purtroppo», e quanto al temibile confronto, affiora l’idea d’una versione concertata (12 marzo). «È orientato a fare qualcosa» (3 aprile). L’assillante manda una memoria, trasmessa dal Quirinale al procuratore generale della Cassazione affinché gli uffici lavorino «coordinati»: «Lui sa tutto»; «voglio che» quella «lettera sia inviata… con la mia condivisione» (5 aprile»). La procura palermitana era in regola, sicché le indagini proseguono lì, chiuse dalla richiesta d’un rinvio a giudizio: l’ex ministro vi compare ai margini quale falso testimone; l’udienza preliminare dirà se esista materia d’accusa e relativo dibattimento. Nastri e testi degli otto colloqui stanno agli atti. Segreti, invece, i quattro in cui parla l’Homo in fabula, irrilevanti, secondo il pubblico ministero, quindi obliterabili, nel senso d’una distruzione fisica: disporla spetta al giudice che ha ordinato la misura investigativa; ed è materia soggetta al contraddittorio (art. 269, c. 2), incluso il ricorso in Cassazione. No, afferma il presidente: l’ascolto ledeva una sua prerogativa; l’empio materiale sia subito distrutto; nessuno lo veda o ascolti. Gli fanno eco varie platee (intrusione «eversiva», s’è persino detto). Tali i petita davanti alla Consulta.
2. Niente da obiettare sugli otto dialoghi in cui interloquiva il consigliere; ed è particolare curioso: se l’immunità esistesse, vi sarebbe incluso l’intero staff, rispetto agli atti d’ufficio. L.D’A. svelava dei retroscena, in chiave veridica, stando alla lettera 19 luglio direttagli dal presidente (sette giorni dopo, il destinatario muore), resa pubblica nell’arringa 15 ottobre alla scuola dei magistrati. Che quel soccorso esorbitasse dalle funzioni, è rilievo ovvio ma la domanda proposta alla Corte sarebbe infondata quando anche allargassimo il concetto della funzione a tali scambi verbali (ipotesi temeraria). Nessuna delle due norme invocate dal ricorrente risulta applicabile alla fattispecie. Art. 90 cost.: Il Presidente non risponde degli atti compiuti en titre, esclusi alto tradimento e attentato alla Costituzione; ebbene? Nessuno gli muove accuse. Stiamo discutendo l’uso processuale del dialogo con persone sottoposte a controllo telefonico: argomenti diversi; confonderli è il sofisma che i dottori chiamavano «ignoratio elenchi», ossia «prouver autre chose que ce qui est en question» (Logique de Port-Royal, 1683, Parte III, Cap. I, § 1), espediente consueto nelle dispute viziose (vedi gli stratagemmi 1-3 dei trentotto esposti nella schopenhaueriana Arte d’ottenere ragione). Dove sta scritto che siano adoperabili in sede investigativa o istruttoria le sole parole implicanti una responsabilità? Né interessa l’art. 7, c. 3, l. 5 giugno 1989 n. 219: l’intercettazione può essere disposta solo quando versi in stato d’accusa, votato dal parlamento, e la Corte l’abbia sospeso dalla carica; nihil sequitur perché l’intercettato era N.M. L’inquirente sorveglia i canali attraverso cui comunica l’imputato virtuale o effettivo: i collocutori sono incogniti nel momento in cui il provvedimento è emesso, più o meno identificabili poi; nessuno immaginava che nel fiume vocale captato (9.295 pièces) quattro volte risuonasse l’augusta voce; ed è assurdo pretendere operatori fulminei nell’interrompere l’ascolto, quasi fosse nefas. Roba da fiaba o rituali primitivi (ormai lavorano le macchine, senza intervento umano). Col permesso del giudice l’indagante controlla gli apparecchi d’un tale: il sèguito è futuribile; forse restano muti o vi passano mille voci; quali, quante, se utili o no, consterà post auditum.
3. Discorso chiuso, tra interlocutori fedeli alla sintassi: l’immunità processuale non fiorisce spontaneamente; esiste in quanto una norma la regoli; e non se ne vede il più pallido segno. I soli due testi addotti dicono tutt’altro. Siamo alle prese con una tautologia del tipo: «P non morrà mai»; «dimmi perché», «ovvio, gl’immortali non muoiono». Il ricorso postula un presidente la cui persona sia «sacra e inviolabile», qual era Carlo Alberto (art. 4 dello Statuto), quindi indenne da ogni servitus iustitiae, ma non è più tempo d’arie mistiche e re taumaturghi. Siamo in Italia, anno Domini 2012: vige una Carta votata dalla Costituente lunedì 22 dicembre 1947; perso ogni connotato monarchico, il presidente assume un’identità laica, da commis de l’Etat. Chi osi definirsi «sacro e inviolabile» riscuote lievi sorrisi. Ricordiamo però un incidente, quando Camere servizievoli lavoravano pro domino Berluscone, tirando in ballo ex aequo il capo dello Stato. L’obiettivo era renderli immuni da qualunque processo (salvo i due casi previsti dall’art. 90 cost.), finché durino in carica; e l’Uomo del Colle segnalava «profonde perplessità»: tale regime affievolirebbe uno status del quale afferma d’essere già investito (nota 22 ottobre 2009). Nossignore, non esiste l’asserita prerogativa. Se ne convinca consultando i precedenti, su fino ai lavori preparatori della Costituente: a parte gli atti coperti dalla funzione (spetta al giudice stabilire se ricorra tale caso), è justiciable come lo siamo tutti; e non chiamiamola lacuna rimediabile dall’interprete; i costituenti compivano una scelta d’alto valore etico, imposta dal principio capitale d’eguaglianza davanti alla legge. Quanto pesante anacronismo rintocca nel coro monarcofilo.
4. Ripetiamolo, è incongruo volo nel passato remoto pretendere che, udita la Voce, gl’inquirenti rompano l’ascolto mandando subito in cenere i materiali sacrileghi. A parte ogni questione ideologica, l’assunto ignora norme positive. L’art. 271, c. 3, vieta la distruzione del reperto fonico costituente corpo del reato (ad esempio, parole d’estorsore o mandato a uccidere, magari allusivo: «Chi mi libera da quel maledetto oppositore?; vedi Enrico II Plantageneto contro Thomas Becket, o Mussolini sul conto del pericoloso Giacomo Matteotti). Idem è arguibile quando disco o nastro costituiscano notitia criminis. Infine, l’art. 269 subordina la distruzione dei reperti irrilevanti al vaglio camerale, nel contraddittorio degl’interessati: operata segretamente sarebbe illegale; né sono pensabili varianti contro l’art. 111 cost., cc. 2 e 4. Può darsi che i materiali de quibus siano prove importanti, nel giudizio in atto o altrove, perciò gl’interessati devono potervi interloquire. Ad esempio, Alfred Dreyfus sconta l’ergastolo nell’Isola del Diavolo: l’accusavano d’avere venduto segreti militari; ed emergono cose enormi dal dialogo d’una altissima persona col sottoposto ad ascolto telefonico; il galeotto è innocente; i felloni erano gli autori delle false prove d’accusa. Lasciamo le cose come stavano «a tutela della riservatezza», mandando al diavolo nell’omonima isola verità storica e giustizia? Semmai, l’attuale disciplina appare perfettibile: non è detto che quel giudice sia infallibile; la critica delle decisioni avviene in Appello e Cassazione; gli artt. 268, c. 2, e 271, c. 3, tagliano il contraddittorio escludendo un secondo grado (valgono le norme sui procedimenti camerali); ed eseguita la decisione distruttiva, l’ipotetico errore emerso nel sèguito del processo forse risulta irrimediabile.
5. Tiriamo le somme: il ricorrente postula un’immunità della quale non esiste l’ombra nelle fonti; e vìola l’art. 111 cost. la pretesa d’annientamento occulto della possibile prova, né vista né udita dagl’interessati; bel salto indietro, nella cupa gnoseologia inquisitoria. Viene in mente un quesito teologal-filosofico (in logica novecentesca liquidabile come mal formulato): se l’Onnipotente lo sia al punto d’evocare un triangolo i cui angoli, sommati, non diano 180° (nello spazio euclideo, beninteso: tolto il quinto postulato, niente glielo impedisce). Sì, risponde Cartesio; Spinoza lo nega. Ora, chi dica fondato nelle norme vigenti (Carta inclusa) quel ricorso, postula l’equivalente giuridico d’un triangolo dagli angoli abnormi, fermo restando il quinto postulato: l’incenerimento occulto dei nastri su cui pesa il tabù, presuppone un mondo diverso dall’attuale, dove non viga l’art. 111 cost., cc. 2 e 4; se l’impresa le riesce senza evadere dal sistema qual è, la Corte risulta più potente del Dio pensato da Baruch Spinoza.
(5 dicembre 2012)


da il Fatto quotidiano, 5 dicembre 2012
Dalle motivazioni della sentenza si capirà come abbia potuto la Consulta accogliere un conflitto di attribuzioni cervellotico, protervo e infondato come quello sollevato dal capo dello Stato contro la Procura di Palermo. Dal comunicato emesso ieri dopo 4 ore di Camera di Consiglio (segno forse di una discussione piuttosto accesa), si desume solo che si è deciso di piegare una norma pensata per tutt’altre evenienze al caso che tanto angustia Napolitano: la captazione casuale, anzi inimmaginabile di 4 sue telefonate sulle utenze intercettate di Nicola Mancino, un privato cittadino coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia.
L’art. 271 del Codice di procedura non c’entra nulla col capo dello Stato: riguarda le intercettazioni fuorilegge o quelle di conversazioni che svelino “fatti conosciuti per ragione del ministero, ufficio o professione” della persona ascoltata (il difensore che parla col cliente, il confessore col penitente). Ora, non esiste alcuna norma che proibisca di intercettare un cittadino che parla col capo dello Stato (né che vieti tout court di intercettare direttamente l’uomo del Colle, immune solo nell’esercizio delle sue funzioni). Dunque le intercettazioni sono perfettamente legali. In ogni caso la Procura, ritenendole irrilevanti, aveva già detto che avrebbe chiesto al Gup di distruggerle nell’apposita udienza a fine procedimento. Dunque non si comprende il comunicato della Consulta, là dove farfuglia con italiano malfermo e logica zoppicante: “Non spettava alla Procura di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione”. E chi l’ha detto che ha omesso, visto che anzi aveva preannunciato che l’avrebbe fatto?
Ma c’è di peggio: la Procura, secondo la Corte, avrebbe dovuto “escludere la sottoposizione” delle telefonate “al contraddittorio tra le parti”. Cioè: la Corte costituzionale rimprovera ai pm di non aver violato il principio costituzionale del contraddittorio. Non resta, purtroppo, che ricordare l’oracolo del presidente emerito Gustavo Zagrebelsky su Repubblica: “L’esito è scontato”. Cioè la Corte avrebbe dato ragione a Napolitano anche se aveva torto, pena una “crisi costituzionale”. Così, oltre ai pm, sarebbe uscita sconfitta la stessa Corte: “Se, per improbabile ipotesi, desse torto al Presidente, sarà accusata d’irresponsabilità; dandogli ragione, sarà accusata di cortigianeria”. Ecco: da ieri abbiamo una Corte cortigiana.
(5 dicembre 2012)


sabato 2 febbraio 2013

silvio-il-nostalgico di Barbara Spinelli

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Infelicità delle istituzioni europee di Amartya Sen

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Pubblichiamo la versione integrale dell'intervento su "Infelicità e istituzioni europee" tenuto dal Premio Nobel per l'Economia Amartya Sen al Festival della Scienza di Roma.

di Amartya K. Sen, da Il Sole 24 Ore
, 27 gennaio 2013




Il tema "Felicità e disuguaglianze" suggerito dagli organizzatori di questo meraviglioso festival è molto più ampio di queste circostanze specifiche. Provo a fare il mio dovere parlando prima di una questione più ampia: il posto e la rilevanza della felicità non solo per la vita individuale ma anche per quella della società, per la vita sociale insomma. Ci rientreranno le disuguaglianze, perché in effetti parlerò di "Felicità e istituzioni sociali" - o di "Infelicità e istituzioni europee" - e in questo quadro più ampio, la disuguaglianza conta. Dopo un'analisi generale tornerò alla crisi economica europea per illustrare alcuni aspetti collegati al tema che mi era stato assegnato.

«O gente umana, per volar sù nata, perché a poco vento così cadi?» lamenta Dante nel canto XII del Purgatorio. Perché questo contrasto tra la vita limitata della maggior parte delle donne e degli uomini e le grandi imprese che riescono a compiere? La domanda posta all'inizio del Quattrocento è ancora attuale. Le nostre potenzialità di avere una vita buona, di essere appagati, felici, liberi di scegliere il tipo di vita che vogliamo, eccedono di lunga quelle che riusciamo a realizzare.

La vulnerabilità umana deriva da svariate influenze, ma una delle fonti principali del nostro limite - e anche della nostra forza, dipende dalle circostanze – è che la nostra vita individuale dipende dalla natura della società in cui stiamo. La natura del problema è ben illustrata dalla crisi che ha colpito l'Europa negli ultimi anni, dalla sofferenza e dalle privazioni che incidono sulla vita in Italia e in Grecia, in Portogallo e in Gran Bretagna, in Francia e in Germania, in quasi tutta l'Europa. Non solo per l'Europa di oggi ma anche per quella futura, è un disastro dalle cause complesse e dobbiamo sondarne la genesi, l'accentuarsi e la persistenza.
Sarebbe difficile capire la condizione degli esseri umani coinvolti in questa tragedia senza studiare come ci abbia contribuito, in modi diversi, il malfunzionamento delle istituzioni che ne governano la vita: il ruolo dei mercati e delle istituzioni a essi collegati, ma anche delle istituzioni statali e delle autorità regionali.

Non c'è dubbio che la felicità sia un'ottima cosa ed è ovvio che abbiamo ottime ragioni per perseguirla. Ma non è l'unica e un problema sorge quando cerchiamo di occuparci di etica sociale basandoci soltanto sul criterio della felicità, come fa l'utilitarismo. Di recente questa prospettiva è tornata in auge, ma è una visione molto limitata dell'etica sociale. Presenta due problemi distinti: anche se il metro della felicità è un buon mezzo per misurare il benessere individuale, l'etica sociale non può concentrarsi esclusivamente su tale benessere, e non è affatto chiaro che la felicità ne sia un indicatore affidabile.

Un limite di questo approccio, di cui l'utilitarismo è un esempio, sta nel fatto che uno stesso insieme di forme di benessere può accompagnarsi a dispositivi sociali, opportunità, libertà e conseguenze molto diverse di cui la valutazione di utilità, o di felicità, non tiene direttamente conto. Eppure un insieme con pari valori di utilità può accompagnarsi o meno a gravi violazioni dei diritti individuali. Qualunque cosa accada però, negli esercizi di valutazione l'approccio utilitaristico richiede di ignorare le disuguaglianze e le violazioni dei diritti e delle libertà personali, e di giudicare le alternative soltanto dai totali di felicità generati da ciascuna. Pare strano questo tenace rifiuto di attribuire un'importanza intrinseca a qualunque cosa esuli dal benessere o dalla felicità nel valutare stati o politiche alternative.

Il limite della prospettiva utilitaristica è aggravato inoltre dall'interpretazione del benessere individuale in base alla sola felicità o al "piacere meno il dolore" (per dirla con Jeremy Bentham), una visione angusta e restrittiva in particolare degli aspetti interpersonali delle privazioni. Per esempio paragonare la felicità – o la forza dei desideri – può essere una guida parecchio ingannevole ai confronti interpersonali tra la nostra vita e quella altrui, poiché aspettative e sopportazione, sofferenze e piaceri tendono tutti a venir adattati alle nostre circostanze, in particolare per renderci tollerabile la vita in mezzo alle avversità.

Alla metrica utilitaristica succede di essere profondamente ingiusta verso le persone che subiscono privazioni persistenti, i perdenti delle società stratificate, le minoranze oppresse da società intolleranti, i lavoratori precari che vivono in un mondo di incertezza e quelli sfruttati da certe industrie, le casalinghe sottomesse in culture profondamente sessiste. Ai più miseri può mancare il coraggio di desiderare un cambiamento radicale e tendono spesso ad adattare le proprie aspettative e aspirazioni a quanto sembra loro fattibile. Si allenano a trarre piacere da ogni grazia ricevuta.

Gli adattamenti hanno però l'effetto incidentale di falsare la scala delle utilità. Nella metrica del piacere, o dell'appagamento dei desideri, gli svantaggi di chi si accontenta delle proprie sventure possono apparire minori di come emergerebbero da un'analisi più oggettiva delle privazioni e dell'assenza di libertà. Riconciliarsi con i propri svantaggi o accontentarsene è ben diverso dal non avere svantaggi. Perciò, come ho scritto in Lo sviluppo è la libertà e L'idea di giustizia, gli indicatori della performance sociale basati sulla felicità sono così problematici.

Però trascurare simili valutazioni delle società e della vita sociale crea a sua volta un problema perché, fuori dalla filosofia utilitaristica, usiamo spesso il termine "felicità" in sensi più ampi. L'espressione "un paese felice" riflette una forte approvazione e lungo tutta la nostra storia la felicità è stata evocata come la cosa più importante della vita. Ne parla Socrate e, con il suo sigillo, Aristotele ha sancito il perseguimento dell'eudemonia. C'è forse un conflitto con la mia precedente critica all'affidarsi alla felicità per giudicare dell'andamento di una società? Direi di no, perché l'ideale di felicità può essere interpretato in modi diversi. Qui è utile ricordare quella che Gramsci chiamava "filosofia spontanea" per capire la natura complessa di quello che intendiamo quando usiamo la parola "felicità" nella comunicazione quotidiana.
Le diamo un senso più generale della definizione utilitaristica "piacere meno dolore".

Se vi chiedo, per esempio, se volete pranzare con me e rispondete "ne sarei felice", non vi obietto che la domanda era un'altra e che volevo sapere se eravate d'accordo o meno per venire a pranzo. Sarebbe assurdo, perché nel dichiarare che ne sareste felici avete già comunicato il vostro assenso. Certo, si può dare una definizione tecnica di felicità, come gli utilitaristi e chiunque altro, ma se una persona risponde "ne sarei felice", non è detto che si riferisca a quella definizione e le sue parole vanno esaminate nel loro contesto, secondo le regole che ne governano l'uso nella normale conversazione.

Molti filosofi riterrebbero una simile attenzione alle regole sull'uso del linguaggio in linea con il pensiero di Ludwig Wittgenstein nelle opere più tardive, come le Ricerche filosofiche. Sarebbe corretto, tutto sommato, ma come ho già avuto occasione di dire, le radici si trovano nella ricerca filosofica svolta con notevole potenza da Antonio Gramsci, che ne è stato il pioniere e ha influenzato Wittgenstein attraverso il grande economista Piero Sraffa, amico di entrambi (e, per una felice coincidenza, mio insegnante a Cambridge). L'interesse filosofico di Sraffa risaliva alla sua collaborazione con Gramsci all'Ordine nuovo, il famoso settimanale fondato da Gramsci e chiuso da Mussolini. Ci accorgiamo delle regole che governano la nostra comunicazione, sosteneva Gramsci, attraverso il linguaggio che impariamo ad usare e questo rientra in quella che chiamava "filosofia spontanea".

Distinguerei quindi il senso benthamiano ristretto di felicità reso popolare dalla filosofia utilitaristica dal senso che ha nella filosofia spontanea. C'è un rapporto, ovviamente tra provare piacere nel fare qualcosa (tutto ben considerato) e la felicità nell'accezione benthamiana. L'infelicità in senso stretto può essere il risultato della frustrazione dovuta al non poter fare quello che desideriamo, anche se la ragione del nostro desiderio ha poco o nulla a che fare con il perseguimento della felicità definita come piacere. Volete aiutare, mettiamo, una persona poverissima perché pensate che sia la cosa giusta. Non è la ricerca della vostra felicità a motivarvi e neppure l'idea che fare la costa giusta tenderà a rendervi più felici. C'è una differenza tra aiutare qualcuno perché è la cosa giusta e aiutarla per procurarsi, anche indirettamente, una gioia personale. Nel primo caso, la gioia è un aspetto secondario mentre l'etica non lo è: la felicità in senso benthamiano può essere implicata indirettamente, ma non perché essa sia il vostro unico scopo, e nemmeno quello principale: procurare un aiuto a chi ne ha bisogno.

L'infelicità che proviamo oggi per il tremendo disastro economico in Europa e altrove non ha soltanto una componente benthamiana nella mancanza di piacere e nella presenza di dolore, ma anche svariati motivi di disapprovazione: la libertà umana negata da fenomeni come la disoccupazione di massa; l'oltraggio etico davanti a vite maltrattate da banche e istituti finanziari e anche la profonda delusione per l'incapacità dei governi nazionali e delle istituzioni internazionali di adottare politiche al contempo intelligenti e compassionevoli. Se dico che quanto accade in Europa mi rende infelice, non sto comunicando per forza una mia personale perdita di utilità benthamiana, ma un paniere ben più capiente di consapevolezze e di conoscenze che mi fanno disapprovare la gestione della crisi in questi ultimi anni.

Abbiamo ragione di essere molto infelici per l'Europa anche dal punto di vista della ben più capiente filosofia spontanea di Gramsci. Il lamento di Dante può esprimere l'infelicità per quanto siamo vulnerabili oggi, sennonché il "poco vento" è un'immane bufera causata dal cattivo operato dei mercati e da una lunga serie di cattive politiche adottate dagli stati e da istituzioni statali e regionali. Siamo caduti, certo, ma abbattuti da una violenta tempesta di mercati manipolati e di madornali errori dei nostri governanti.

Quanto alla disuguaglianza, vicende contrastanti e disparate hanno spaccato la popolazione. Nella brutale recessione che il mondo, e l'Europa in particolare, sta attraversando, c'è un numero enorme di persone disoccupate, dai redditi drasticamente ridotti, che non possono permettersi beni e servizi essenziali e hanno poca libertà di gestire la propria vita, mentre altre prosperano. E' tipico di una crisi economica suscitare forti divisioni, eppure il senso di infelicità per qualcosa di molto sbagliato può essere provato sia da quelli colpiti dalla lunga recessione che da quelli immuni che ne sono comunque oltraggiati. La povertà, la miseria non si condividono, l'oltraggio sì e, per l'infelicità in senso lato, basta e avanza.

Perché l'Europa è tanto nei guai? In effetti ha due problemi da affrontare: l'inflessibilità della moneta unica nella zona euro e la gestione della recessione attraverso la politica di austerità scelta da potenti leader politici e finanziari europei. Ne ho già scritto altrove ("Cosa ti è successo, Europa?" Domenica - Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2012, ndr) e sarò breve. Nella zona euro, l'integrazione e l'unione monetaria realizzate prima di avere il sostegno di una più stretta unione politica e fiscale non suscitano solo infortuni economici ma anche rapporti ostili tra i popoli dei vari paesi.

Di conseguenza, lo scenario di crisi e di salvataggi in cambio di tagli draconiani ai servizi pubblici – questioni economiche sulle quali tornerò – ha suscitato malumori. Se errori nella successione delle misure prese e nelle decisioni politiche contingenti hanno peggiorato il disamore internazionale per l'Europa (è stato così, a giudicare dalla retorica politica sentita di recente con forme diverse da nord a sud), è il pegno da pagare per la via che si è imboccata. La visione di un'unità europea crescente che era nata a Ventotene e a Milano negli anni Quaranta è stata assecondata male da piani di salvataggio che non solo hanno precipitato milioni di cittadini in una miseria nera, ma hanno anche generato una divisione di cui si poteva far a meno tra tedeschi prepotenti, secondo i greci, e greci fannulloni, secondo i tedeschi.

L'analogia, spesso invocata, con i sacrifici dei tedeschi per unire le due Germanie è del tutto fuorviante. In parte perché i sacrifici coordinati dal cancelliere Kohl erano intelligenti e progettati bene, e soprattutto perché al momento tra i paesi europei non esiste il senso di unità nazionale che predisponeva i tedeschi ad accettarli. Inoltre ricadevano sulla parte ricca del paese dove il cancelliere era basato: questo fatto ha una qualità politica assai diversa dei tentativi di imporre una rigida austerità ai paesi più poveri dell'Europa meridionale da parte di leader politici che vivono in regioni più prospere.

Vengo ora alla crisi economica globale e agli sforzi europei per rimediare alla propria con l'austerità. La crisi che ha travolto il mondo nel 2008 non è nata in Europa, ma negli Stati Uniti e la recessione che ne è conseguita negli Stati Uniti ha avuto ripercussioni sul resto del mondo, in particolare in Europa. E' iniziata negli Stati Uniti, dove il settore finanziario si era comportato in modo estremamente irresponsabile e avventato. Il mondo aveva molte ragioni di essere infelice e scontento dell'economia statunitense, data l'eliminazione graduale - dai tempi del presidente Reagan – di quasi tutti i controlli sensati che regolamentavano le istituzioni finanziarie e le assicurazioni. Nel settore finanziario, i giocatori di serie A fecero un sacco di soldi, per se stessi innanzitutto, con esiti scintillanti ai quali corrispondevano prassi inaccettabili. Gli americani hanno causato la crisi, ma sono stati più veloci degli europei a temperarne l'intensità con uno stimolo fiscale. Contagiata dalla recessione, l'Europa adottò invece una filosofia immensamente contro-produttiva di redenzione attraverso l'austerità.

E' difficile vedere nell'austerità una soluzione economica assennata all'attuale malaise europeo. Non è neppure un buon mezzo per ridurre il deficit pubblico. Il pacchetto di provvedimenti richiesto dai leader finanziari è stato decisamente anti-crescita. Nella zona euro, la crescita è stata così tentennante e il prodotto interno lordo è calato così tanto che l'annuncio di una crescita zero sembra addirittura una "buona notizia". Sebbene la Gran Bretagna non sia sotto il potere finanziario dei leader della zona euro, ha scelto deliberatamente la strana filosofia della ripresa attraverso l'austerità, con lo stesso triste risultato. E' una politica fallimentare in Europa come lo è stata negli Stati Uniti negli anni Trenta e più recentemente in Giappone (una politica di contrazione che il primo ministro neo-eletto Shinzo Abe sta cercando di ribaltare).

Nella storia del mondo abbondano invece le prove che il modo migliore per ridurre il deficit non è l'austerità, ma una rapida crescita economica che generi reddito pubblico con il quale colmare il deficit. Dopo la seconda guerra mondiale, gli enormi deficit europei sono in gran parte spariti grazie a un veloce sviluppo; è successo qualcosa di simile durante gli otto anni della presidenza Clinton, iniziata con un deficit enorme e conclusasi senza, e in Svezia tra il 1994 e il 1998. Oggi la situazione è diversa, perché in aggiunta alla recessione la disciplina dell'austerità viene imposta per ridurre il deficit a molti paesi con un tasso di crescita zero o negativo. Creare sempre più disoccupazione laddove c'è una capacità produttiva inutilizzata è una strategia bizzarra, e non basta ai padroni della politica europea dire che non si aspettavano forti cali di produzione e alti e crescenti tassi di disoccupazione. Perché mai non se l'aspettavano? Da quale idea dell'economia si fanno guidare? Di sicuro la qualità intellettuale del loro pensiero è un motivo di infelicità. Non si tratta soltanto di avere un'etica solidale, ma anche un'epistemologia decente.
Dire che in caso di recessione la politica dell'austerità rischia di essere contro-produttiva può sembrare una critica sostanzialmente "keynesiana".

John Maynard Keynes ha sostenuto in modo convincente che durante un eccesso di capacità produttiva dovuto alla scarsa domanda del mercato, tagliare la spesa pubblica rallenta l'economia e accresce la disoccupazione invece di diminuirla. Gli va riconosciuto il grande merito di aver fatto capire questo punto fondamentale ai responsabili politici di ogni tendenza. Sarebbe sensato avvalerci delle buone ragioni di Keynes, ormai fanno ormai parte del pensiero economico comune (anche se sono ignote ai leader europei), ma per quanto riguarda la totale inadeguatezza dell'austerità in Europa, ce ne sono altre.

Dobbiamo andare oltre Keynes e chiederci a che cosa serva la spesa pubblica, oltre a rafforzare la domanda del mercato, qualunque ne sia il contenuto. Il risentimento – l'infelicità – di tanti europei per i tagli feroci ai servizi pubblici e per l'austerità indiscriminata non si basa soltanto e neppure primariamente su un ragionamento keynesiano. Fatto altrettanto importante, se non di più, quella resistenza esprime un'opinione costruttiva interessante dal punto di vista sia politico che economico. Parla di giustizia sociale, di ridurre l'ingiustizia invece di aumentarla. I servizi pubblici sono apprezzati per ciò che forniscono in concreto alle persone, soprattutto alle più vulnerabili, e in Europa sono stati ottenuti con decenni di lotta. Tagliarli spietatamente significa rinnegare l'impegno sociale degli anni Quaranta che ha portato alla previdenza e alla sanità pubblica in un periodo di cambiamento radicale. Questo continente ne è stato il pioniere, ha dato una lezione di responsabilità sociale poi imparata nel resto del mondo, dal Sud-est asiatico all'America latina.

Keynes parlò pochissimo di disuguaglianza economica; sugli orrori della povertà e delle privazioni fu di una reticenza straordinaria. Non lo interessavano granché le esternalità e l'ambiente, trascurò del tutto "l'economia del benessere" di cui si occupava invece il suo rivale e antagonista A.C. Pigou. Come ho scritto sulla New York Review of Books - persino Bismarck nell'Ottocento si interessò di sicurezza e di giustizia sociale più di quanto avrebbe fatto Keynes. Gli amici keynesiani mi accusarono di irriverenza (anche quelli della Banca d'Italia), di aver insultato Keynes e vollero farmi ritrattare. Dimenticavano che, sebbene fosse un leader conservatore, Bismarck aveva molto da dire sull'importanza dei servizi sociali.

Per finire, vorrei accennare alla riforma economica di cui molti paesi europei, e non solo la Grecia o l'Italia, hanno senz'altro un gran bisogno. Uno degli aspetti peggiori dell'austerità è stato di rendere questa riforma impraticabile confondendo due programmi: l'austerità dei tagli spietati e la riforma di una cattiva amministrazione (evasione fiscale diffusa, favori concessi da funzionari pubblici per lucro personale e anche insostenibili convenzioni sull'età pensionabile). I requisiti della presunta disciplina finanziaria li hanno amalgamati, sebbene qualunque analisi della giustizia sociale porti a politiche distinte per ciascun programma.

L'amalgama è il frutto di una confusione intellettuale che porta al disastro politico perché collega un bisogno forte e sensato a una follia intempestiva, e nelle campagne politiche unisce gli oppositori dell'austerità a quelli delle riforme indispensabili. L'Europa deve cambiare ora. Nessun paese scaccerà da solo la potente illusione di cui i leader politici sembrano prigionieri, né la Grecia, né il Portogallo e nemmeno l'Italia, eppure bisognerà trovare una voce collettiva per porre fine a tanta miseria e a tanta infelicità.

Chiedo scusa, mi sono dilungato sull'economia mentre volevate sentir parlare di felicità. Mi dispiace, a mia difesa però va detto che per arrivare a un'Europa felice, dobbiamo prima discutere di molte cose infelici. Avrei preferito che non fosse così.

(28 gennaio 2013)