domenica 27 gennaio 2013

PER NON DIMENTICARE NESSUNO


Il numero esatto di persone uccise dal regime nazista è ancora soggetto a ulteriori ricerche.

Recentemente, documenti declassificati di provenienza britannica e sovietica hanno indicato che il totale potrebbe essere ancora superiore a quanto ritenuto in precedenza.[senza fonte].
 
 
 
CategoriaNumero di vittimeFonte del dato
Ebrei5,9 milioni[179][180]
Prigionieri di guerra sovietici2–3 milioni[181]
Polacchi non Ebrei1,8–2 milioni[182]
Rom e Sinti220.000-500.000[183]
Disabili e Pentecostali200.000–250.000[184]
Massoni80.000–200.000[185]
Omosessuali5.000–15.000[186]
Testimoni di Geova2.500–5.000[187]
Dissidenti politici1-1,5 milioni[senza fonte]
Slavi1-2,5 milioni[179][188][189][190]
Totale12,25 - 17,37 milioni

I triangoli [modifica]

Per approfondire, vedi la voce Simboli dei campi di concentramento nazisti.

 
I prigionieri, al loro arrivo, erano obbligati a indossare dei triangoli colorati sugli abiti, che qualificavano visivamente il tipo di «offesa» per la quale erano stati internati. I più comunemente usati erano:
  • Giallo: ebrei—due triangoli sovrapposti a formare una stella di David, con la parola Jude (Giudeo) scritta sopra
  • Rosso: dissidenti politici
  • Rosso con al centro la lettera S: repubblicani spagnoli
  • Verde: criminali comuni
  • Viola: Testimoni di Geova
  • Blu: immigranti
  • Marrone: zingari
  • Nero: soggetti "antisociali" e lesbiche
  • Rosa: omosessuali maschi
da WIKIPEDIA

mercoledì 9 gennaio 2013

La tristezza della politica ancella dell’algoritmo


di Guido Rossi, da Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2013 


 


La fine della legislatura si presenta particolarmente confusa. Il dibattito elettorale poi, nella forma, assume spesso i caratteri degradanti di un lessico che ha sostituito nella lotta politica il dualismo alleato-oppositore, che pur esige rispetto, con quello rivendicato e teorizzato da Carl Schmitt, amico-nemico. E così, la tentazione della pretesa oggettività tende a ridurre destra e sinistra, liberismo e riformismo, legalità e illegalità, conservatori e populisti, quali semplici parole di colore oscuro ma, nell'imperversare di un gioco mediatico ricolmo di sempiterni conflitti di interessi, espressioni ora di spocchiose autoesaltazioni, ora di insolente vilipendio del nemico. E le vecchie, scalcinate agende, diventano persino nuovi sostituti di veri programmi.

Intanto non si accettano discussioni né indispensabili riferimenti ai diritti fondamentali, allo sviluppo economico, alle disuguaglianze, alla disoccupazione, alla povertà, alle imprese soffocate fra fisco e credito negato, alla distruzione del nostro patrimonio culturale, a un'Europa che invece di essere sempre più tecnocratica, per sopravvivere dovrebbe diventare più democratica e federale. Insomma, è quel che un programma di governo dovrebbe veramente offrire ai cittadini.

L'atmosfera dominante trascura con alterigia i delicati comportamenti della democrazia, la quale in Italia quando non è espressamente negata, è sempre conflittuale o comunque aggirata. Essa, peraltro, non è né poteva essere tutelata e affidata al governo dei tecnici, già dileggiati da Benedetto Croce come "medici consultori" nelle splendide pagine sovente citate in questi giorni, omettendone questo indispensabile e prezioso riferimento.

Quel che più impressiona nei comportamenti, oltre alla mancanza di dialogo, è l'ineluttabilità degli slogan e delle formule, quasi si trattasse di divini comandamenti.
Così come l'austerity eterodiretta in modo occulto dai mercati del capitalismo finanziario e palese dalla troika (Commissione europea, Bce, Fmi), anche alcune forme della nuova (?) politica sembrano immodificabili, poiché dettate da qualche divinità, per ipoteticamente salvarci dal baratro, ma sicuramente precipitarci nella miseria.

C'è in tutto ciò alcunché di déjà vu analogo alla recente trasformazione operata dalla "téchne", dell'economia politica, quasi un altro ossimoro, nell'economia matematica ed elettronica. È pur vero che fin dai tempi di Adam Smith, l'economia ha costantemente cercato di rendersi nei suoi principi una disciplina scientifica, ancorandosi il più possibile alle scienze esatte. La stessa teoria della concorrenza ha un'evidente analogia con la teoria dell'evoluzione biologica, mentre l'ultima fase è certo quella dell'economia matematica, precisa e predittiva, che implicitamente svaluta, come regina del capitalismo finanziario, ogni risvolto politico, morale o filosofico.

Orbene, gli strumenti adottati nei mercati pretendono di essere validi nell'analisi dei dati passati, attraverso applicazioni econometriche che utilizzano a discrezione parametri e variabili rilevanti, sempre quantificabili. Tuttavia le scelte sono operate da matematici, che ovviamente trascurano completamente il motore imprenditoriale degli "animal spirits" di John Maynard Keynes o l'"esuberanza irrazionale" di Robert Shiller, nonché ogni altra valutazione politico-sociale. Keynes voleva gli economisti affidabili e umili come i dentisti, ma non poteva immaginare che sarebbero stati sostituiti dai matematici e dagli ingegneri. Sono questi, infatti, che valutano i mercati e, attraverso algoritmi, ne determinano l'andamento, massimizzando velocemente la propria utilità sulla base di regole fornite dalla nuova figura del programmatore, l'ingegnere o meglio ancora il "computer scientist".

Identiche strategie algoritmiche simulano il futuro, ad evitare che su di esso il passato abbia influenze rischiose o contraddittorie. Tuttavia questo sistema, qualificato High frequency trading, che introduce a velocità irrilevabili domande e offerte in quantità esorbitanti e spesso tra loro contraddittorie, nasconde nella totale confusione i suoi risultati anche alle autorità di controllo e così manipola i mercati, creando a volte incalcolabili ricchezze e altre volte disastri, come anche di recente capitato al Knight Capital Group e alla ancor più nota offerta al pubblico di Facebook nel maggio scorso.

L'impressionante quadro, con riferimento alle varie opinioni e alle discussioni in corso al Congresso degli Stati Uniti, per trovare una disciplina al fenomeno, è ampiamente documentato sul numero del primo gennaio scorso del The Wall Street Journal. Ma prima ancora nell'Inferno dantesco al canto II, versi 37-39 "E quale è che disvuol ciò che volle,/E per novi pensier cangia proposta,/Sì che dal cominciar tutto si tolle". Questa è l'ultima fase dell'occulta etica dei mercati.

È doveroso che ogni programma politico debba allora proteggersi dalla téchne del capitalismo finanziario, privo di regole, al fine di rivendicare i diritti fondamentali e la protezione dei meno abbienti, come ha iniziato finalmente a fare all'esordio del suo secondo mandato il presidente Obama, ad evitare il fiscal cliff, con un'operazione in accordo con il partito repubblicano, che nessuno si è vergognato di qualificare politicamente di sinistra.

Su questa strada debbono allora prospettarsi le nuove proposte per un futuro governo in Italia e in Europa, che nell'eliminare le disuguaglianze contrasti l'arricchimento progressivo dei centri del capitalismo finanziario, ancora oggi difeso e favorito da chi ironicamente sostiene il raggiungimento dell'"Ottimo paretiano", che si realizza quando l'accrescimento dei vantaggi di qualcuno non va a svantaggio di altri. E in effetti, lo sbalorditivo presupposto sarebbe che l'aumento della ricchezza dei pochi non pregiudicherebbe la posizione di chi peraltro è già in miseria. La battaglia elettorale in corso offre dunque alternative ben diverse rispetto a quelle proposte da qualche tecnico, economista, matematico o ingegnere che sia.

(8 gennaio 2013)

Il baratro fiscale dell’Agenda Monti


 di Luciano Gallino, da Repubblica, 8 Gennaio 2013 


Non ci sono solo gli Stati Uniti. Anche l’Italia ha il suo baratro fiscale, come quello Usa di natura politica prima che economica. L’agenda Monti vi dedica ampio spazio, sebbene usi altri termini. 

In realtà il baratro l’ha aperto il Parlamento quando ha ratificato mesi fa – su proposta del governo Monti – il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento ecc. imposto da Consiglio europeo, Commissione e Bce. L’art. 4 prescrive: “Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore.. del 60%... tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno”. Il Trattato è già in vigore, ma in base a un precedente regolamento del Consiglio, l’inizio della riduzione del debito verso la meta del 60 per cento dovrebbe aver luogo solo dal 2015.

L’agenda Monti riprende quasi alla lettera tale prescrizione (punto 2, comma c). Si tratta a ben guardare del tema più importante sia della campagna elettorale che dell’azione del prossimo governo, quale esso sia. Il motivo dovrebbe esser chiaro. Ridurre davvero il nostro debito pubblico nella misura e nei tempi richiesti dal Trattato in questione è un’operazione che così come si presenta oggi ha soltanto due sbocchi: una generazione o due di miseria per l’intero Paese; aspri conflitti sociali; discesa definitiva della nostra economia in serie D. Oppure la constatazione che il debito ha raggiunto un livello tale da essere semplicemente impagabile, per la ragione che esso deriva sin dagli anni ‘60 non da un eccesso di spesa, bensì dalla accumulazione di interessi troppo alti. Quindi si dovrebbero trovare altre strade rispetto alle politiche attuate da Monti e riproposte dalla sua agenda.

Al fine di ripagare un debito a lunga scadenza in rate annuali è infatti essenziale una condizione: che il debitore, al netto di quanto spende per il proprio sostentamento, abbia ogni anno delle entrate, per tutta la durata prevista, che siano almeno pari in media a quella di ciascuna rata del debito. Nel caso del debito pubblico italiano tale condizione base non esiste. Il Pil supera i 1650 miliardi, per cui il 60 per cento di esso ne vale circa 1000. Mentre il debito accumulato ha superato i 2000. Al fine di farlo scendere al 60 per cento del Pil come prescrive il Trattato, si dovrebbe quindi ridurre il debito di 50 miliardi l’anno per un ventennio.

La cifra è di per sé paurosa, tale da immiserire tre quarti della popolazione. Ma il problema non è solo questo. È che l’interesse sul debito, al tasso medio del 4 per cento, comporta una spesa di 80 miliardi l’anno, la quale si somma ogni anno al debito pregresso. Ne segue che quest’ultimo non smette di crescere. Ora, se riduco il debito di 50 miliardi, avrò sì risparmiato 2 miliardi di interessi; però sui restanti 1950 miliardi dovrò pur sempre pagarne 78. Risultato: il debito è salito a 2028 miliardi (2000-50+78).

L’anno dopo taglio il debito di altri 50 miliardi e gli interessi di 2. Però devo pagarne 76, per cui il debito risulterà salito a 2054. Chi vuole può continuare. Magari inserendo nel calcoletto un dettaglio: l’art. 4 del Trattato prescinde del fatto che il debito di un paese potrebbe col tempo aumentare di molto, per cui l’entità del ventesimo di rientro andrebbe alle stelle. L’Italia, per dire, potrebbe ritrovarsi a fine 2015 con un Pil di poco superiore all’attuale, ma con un debito che a causa dell’accumulo degli interessi ha raggiunto i 2200 miliardi. Così i miliardi annui da tagliare passerebbero da 50 a 60.

Le obiezioni da opporre a quanto rilevato sopra le sappiamo. Il raggiungimento di un discreto avanzo primario ha già permesso di ridurre la spesa degli interessi di 5 miliardi: lo ricorda anche l’agenda Monti. La riduzione del differenziale di rendimento a confronto dei titoli tedeschi permetterà altri risparmi. Dalla dismissione di grosse quote del patrimonio pubblico arriveranno fior di miliardi. Le spese dello Stato possono venire ridotte di parecchi altri punti; qualcuno parla addirittura di 5 punti per più anni, alla luce di una profonda teoria politica che si compendia col dire “bisogna affamare la bestia” (cioè lo Stato, cioè quasi tutti noi). Per finire con l’immancabile “a fine 2013 arriverà la crescita e il Pil riprenderà a salire”.

Ciascuna delle suddette obiezioni o è fondata sull’acqua, come la previsione di ricavare alla svelta decine di miliardi dalla dismissione di beni pubblici – vedi la sorte delle cartolarizzazioni di Tremonti – oppure sull’accettazione per i prossimi venti o trent’anni di politiche lacrime e sangue, ancora peggiori di quelle che hanno afflitto gli ultimi anni all’insegna dell’austerità.

Naturalmente il problema non riguarda soltanto l’eventuale ritorno al governo di Monti con la sua agenda. Riguarda più ancora i partiti come Pd e Sel, che le elezioni potrebbero pure vincerle, ma che hanno dichiarato di voler rispettare nell’insieme l’agenda in parola. Sono essi per primi a dover scegliere la strada per uscire dalle strettoie attuali. Da un lato si profila una grave regressione sociale e politica, oltre che economica, indotta dalla ricerca coattiva del mezzo per ripagare un debito ormai impagabile. Dall’altro bisogna riconoscere questa sgradevole realtà, e aprire con decisione una trattativa su scala europea per trovare modi meno iniqui socialmente per uscire dall’impasse del debito pubblico, il che non riguarda ovviamente solo l’Italia.

Un riconoscimento al quale potrebbe seguire la ricerca dei modi per superare una contraddizione in verità non più tollerabile: una Bce che presta migliaia di miliardi alle banche (lo ha fatto, per citare un solo caso, tra novembre 2011 e febbraio 2012) all’1 per cento, ma non può fare altrettanto con gli stati. Per cui questi vendono obbligazioni alle banche, sulle quali esse percepiscono interessi tripli o quadrupli. È vero, l’art. 123 del Trattato Ue vieta alla Bce di prestare denaro direttamente agli Stati. Ma a parte il fatto che prima o poi tale articolo dovrà essere modificato, posto che esso fa della Bce l’unica banca centrale al mondo che non può svolgere le funzioni proprie di una banca centrale, si dovrebbe d’urgenza porre rimedio a tale inaudita contraddizione.

Con il baratro fiscale di mezzo, la riduzione del debito pubblico a meno della metà è inconcepibile. Ma se l’Italia, per dire, potesse prendere in prestito dalla Bce, in forma obbligazionaria o altra, 1000 miliardi al tasso dell’1 per cento, come han fatto le banche europee nel caso precitato, allora potrebbe diventarlo. Pensiamoci. E magari proviamo a spiegare ai cittadini come si pone realmente per il prossimo futuro la questione del debito pubblico.

(8 gennaio 2013)

 

lunedì 7 gennaio 2013

IL MALAFFARE


di CARLO ALBERTO BRIOSCHI 



CITAZIONI DAL POLITICO PORTATILE

 

BESTIARIO


Le metafore animali utilizzate nelle favole morali di De la Mare o nelle rime di Trilussa:  cani e porci, camaleonti e uccelli da preda, la volpe  di Esopo o il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, il lupo di Hobbes e le api di Mandeville, cervi, ragni, orsi e mosconi, illuminano l’istinto bestiale che governa l’uomo forse più di mille severi tomi sull’etica e il suo tradimento, riassumendo in modo esemplare buona parte dei vizi capitali. La selezione naturale e la legge del più forte (l’aquila, il leone) o del più scaltro (la volpe, la mosca) reggono infatti il consesso dell’uomo civile come guidano il regno animale. E non è chiaro, tra animali antropomorfi e uomini che assumono le sembianze di animali dove stia il peccato originale: se l’uomo l’abbia appreso dalla bestia, la bestia dall’uomo, o il contagio sia piuttosto vicendevole.


Un’Aquila diceva: Dar momento
Che adesso c’è er suffragio universale,
bisognerà che puro l’animale
ciabbia un rappresentante ar Parlamento
Per conto mio la sola che sia degna
De bazzica’ la Cammera e la conosca
L’idee de l’onorevoli è la Mosca
Perché vola, s’intrufola, s’ingegna,
e in fatto de partiti, sia chi sia,
passa sopra a qualunque porcheria
 
                                                        Trilussa

(senza offesa per la mosca)

 ....... continua nel blog e nel libro

sabato 5 gennaio 2013

Il grande deserto dei diritti



 Il grande deserto dei diritti
micromega-online - micromega



Si può avere una agenda politica che ricacci sullo sfondo, o ignori del tutto, i diritti fondamentali? Dare una risposta a questa domanda richiede memoria del passato e considerazione dei programmi per il futuro.

Ma bilanci e previsioni, in questo momento, mostrano un’Italia che ha perduto il filo dei diritti e, qui come altrove, è caduta prigioniera di una profonda regressione culturale e politica. Le conferme di una valutazione così pessimistica possono essere cercate nel disastro della cosiddetta Seconda Repubblica e nelle ambiguità dell’Agenda per eccellenza, quella che porta il nome di Mario Monti. Solo uno sguardo realistico può consentire una riflessione che prepari una nuova stagione dei diritti.

Vent’anni di Seconda Repubblica assomigliano a un vero deserto dei diritti (eccezion fatta per la legge sulla privacy, peraltro pesantemente maltrattata negli ultimi anni, e alla recentissima legge sui diritti dei figli nati fuori del matrimonio). Abbiamo assistito ad una serie di attentati alle libertà, testimoniati da leggi sciagurate come quelle sulla procreazione assistita, sull’immigrazione, sul proibizionismo in materia di droghe, e dal rifiuto di innovazioni modeste in materia di diritto di famiglia, di contrasto all’omofobia. La tutela dei diritti si è spostata fuori del campo della politica, ha trovato i suoi protagonisti nelle corti italiane e internazionali, che hanno smantellato le parti più odiose di quelle leggi grazie al riferimento alla Costituzione, che ha così confermato la sua vitalità, e a norme europee di cui troppo spesso si sottovaluta l’importanza.

La considerazione dei diritti permette di andare più a fondo nella valutazione comparata tra Seconda e Prima Repubblica, oggi rappresentata come luogo di totale inefficienza. Alcuni dati. Nel 1970 vengono approvate le leggi sull’ordinamento regionale, sul referendum, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, sulla carcerazione preventiva. In un solo anno si realizza così una profonda innovazione istituzionale, sociale, culturale. E negli anni successivi verranno le leggi sul diritto del difensore di assistere all’interrogatorio dell’imputato e sulla concessione della libertà provvisoria, sulla delega per il nuovo codice di procedura penale, sull’ordinamento penitenziario; sul nuovo processo del lavoro, sui diritti delle lavoratrici madri, sulla parità tra donne e uomini nei luoghi di lavoro; sulla segretezza e la libertà delle comunicazioni; sulla riforma del diritto di famiglia e la fissazione a 18 anni della maggiore età; sulla disciplina dei suoli; sulla chiusura dei manicomi, l’interruzione della gravidanza, l’istituzione del servizio sanitario nazionale. La rivoluzione dei diritti attraversa tutti gli anni ’70, e ci consegna un’Italia più civile.

Non fu un miracolo, e tutto questo avvenne in un tempo in cui il percorso parlamentare delle leggi era ancor più accidentato di oggi. Ma la politica era forte e consapevole, attenta alla società e alla cultura, e dunque capace di non levare steccati, di sfuggire ai fondamentalismi. Esattamente l’opposto di quel che è avvenuto nell’ultimo ventennio, dove un bipolarismo sciagurato ha trasformato l’avversario in nemico, ha negato il negoziato come sale della democrazia, si è arresa ai fondamentalismi. È stata così costruita un’Italia profondamente incivile, razzista, omofoba, preda dell’illegalità, ostile all’altro, a qualsiasi altro. Questo è il lascito della Seconda Repubblica, sulle cui ragioni non si è riflettuto abbastanza.
Le proposte per il futuro, l’eterna chiacchiera su una “legislatura costituente” consentono di sperare che quel tempo sia finito?

Divenuta riferimento obbligato, l’Agenda Monti può offrire un punto di partenza della discussione

Nelle sue venticinque pagine, i diritti compaiono quasi sempre in maniera indiretta, nel bozzolo di una pervasiva dimensione economica, sì che gli stessi diritti fondamentali finiscono con l’apparire come una semplice variabile dipendente dell’economia. 

Si dirà che in tempi difficili questa è una via obbligata, che solo il risanamento dei conti pubblici può fornire le risorse necessarie per l’attuazione dei diritti, e che comunque sono significative le parole dedicate all’istruzione e alla cultura, all’ambiente, alla corruzione, a un reddito di sostentamento minimo. Ma, prima di valutare le questioni specifiche, è il contesto a dover essere considerato.

In un documento che insiste assai sull’Europa, era lecito attendersi che la giusta attenzione per la necessità di procedere verso una vera Unione politica fosse accompagnata dalla sottolineatura esplicita che non si vuole costruire soltanto una più efficiente Europa dei mercati ma, insieme una più forte Europa dei diritti. Al Consiglio europeo di Colonia, nel giugno del 1999, si era detto che solo l’esplicito riconoscimento dei diritti avrebbe potuto dare all’Unione la piena legittimazione democratica, e per questo si imboccò la strada che avrebbe portato alla 

Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. 

Questa ha oggi lo stesso valore giuridico dei trattati, sì che diviene una indebita amputazione del quadro istituzionale europeo la riduzione degli obblighi provenienti da Bruxelles a quelli soltanto che riguardano l’economia. Solo nei diritti i cittadini possono cogliere il “valore aggiunto” dell’Europa.

Inquieta, poi, l’accenno alle riforme della nostra Costituzione che sembra dare per scontato che la via da seguire possa esser quella che ha già portato alla manipolazione dell’articolo 41, acrobaticamente salvata dalla Corte costituzionale, e alla “dissoluzione in ambito privatistico” del diritto del lavoro grazie all’articolo 8 della manovra dell’agosto 2011. Ricordo quest’ultimo articolo perché si è proposto di abrogarlo con un referendum, unico modo per ritornare alla legalità costituzionale e non bieco disegno del terribile Vendola. Un’agenda che riguardi il lavoro, oggi, ha due necessari punti di riferimento: la legge sulla rappresentanza sindacale, essenziale strumento di democrazia; e il reddito minimo universale, considerato però nella dimensione dei diritti di cittadinanza. E i diritti sociali, la salute in primo luogo, non sono lussi, ma vincoli alla distribuzione delle risorse.

Colpisce il silenzio sui diritti civili. Si insiste sulla famiglia, ma non v’è parola sul divorzio breve e sulle unioni di fatto. Non si fa alcun accenno alle questioni della procreazione e del fine vita: una manifestazione di sobrietà, che annuncia un legislatore rispettoso dell’autodeterminazione delle persone, o piuttosto un’astuzia per non misurarsi con le cosiddette questioni “eticamente sensibili”, per le quali il ressemblement montiano rischia la subalternità alle linee della gerarchia vaticana, ribadite con sospetta durezza proprio in questi giorni? Si sfugge la questione dei beni comuni, per i quali si cade in un rivelatore lapsus istituzionale: si dice che, per i servizi pubblici locali, si rispetteranno “i paletti posti dalla sentenza della Corte costituzionale”, trascurando il fatto che quei paletti li hanno piantati ventisette milioni di italiani con il voto referendario del 2011.

Queste prime osservazioni non ci dicono soltanto che una agenda politica ambiziosa ha bisogno di orizzonti più larghi, di maggior respiro. Mostrano come un vero cambio di passo non possa venire da una politica ad una dimensione, quella dell’economia

Serve un ritorno alla politica “costituzionale”, quella che ha fondato le vere stagioni riformatrici.