lunedì 31 dicembre 2012

Patria

Patriottismo e antipatriottismo
 
 
qui la salvatrice è donna, per la precisione
 
 
La PATRIA USA si trova sul bordo di un precipizio (cliff) per una questione di soldi dei ricchi, dai medi agli stratosferici.
E' stata trascinata fin là da un decennio di Bush junior, cristiano rinato e guerriero col sangue altrui, nonché sostenitore di giochi finanziari criminali e quindi autore o non attento difensore del popolo americano, per non parlare del resto del mondo e di tutti i complici più o meno visibili della crisi che stiamo vivendo.

Obama è stato osteggiato assai e comunque non era possibile in un sol colpo tagliare i nodi malati dell'iniquo sistema, peraltro ben diffuso su quasi tutto il pianeta.

Comunque sia, ora la PATRIA, quella che fu difesa con ben due guerre dal comandante BUSH, senza che qualcuno potesse fiatare senza rischiare l'accusa di ANTIPATROTTISMO, è in pericolo.
Ora i patrioti repubblicani di ieri sono alle spalle della PATRIA sull'orlo di un precipizio fiscale: possono tirarla indietro, possono darle la spallata giusta per farla precipitare. Discutono all'infinito, fino all'ultimo momento come in un film dell'orrore.
Per una manciata di DOLLARI dei ricchi e degli straricchi.
 
Contro il proprio  popolo.
 
Contro la giustizia e la libertà, perché non si dà libertà senza giustizia, anche fiscale e di distribuzione della ricchezza.
E però hanno avuto i voti costoro, i voti di chi non riesco a capirlo, se i cittadini in difficoltà sono la maggioranza. Comunque.
Spingeranno la patria nel cliff (fiscale) i repubblicani?

CURIOSITA' e PEDANTERIA
"corsa contro il tempo per fermare il Fiscal Cliff"
Il "cliff", cioè il dirupo o la scogliera o il baratro, è fermo, quindi non so come si possa fermarlo di più. Scherzo, ma m'incuriosisce che non sia nei titoli più evidenti un dramma statunitense che quasi sicuramente coinvolgerà anche noi (un po' di sano egoismo).
E ancora: tutti gli italiani sono in grado di capire "fiscal cliff"? Già "baratro fiscale" non è molto chiaro se non viene spiegato bene, con chiarezza e semplicità. In televisione, soprattutto.
Ci vorrebbe un maestro Manzi per i fondamenti di economia e finanza. Per non parlare di tutto il resto. Tanti maestri Manzi, prego.

venerdì 28 dicembre 2012

Elezioni, Ingroia e Grasso si candidano: perché non dovrebbero? - Alessio Liberati - Il Fatto Quotidiano

Elezioni, Ingroia e Grasso si candidano: perché non dovrebbero? - Alessio Liberati - Il Fatto Quotidiano


SE TOCCA ALLA FRANCIA SALVARE VENEZIA


     IL MOSTRO della Laguna ha fatto la sua prima vittima. È il sindaco di Venezia Orsoni, che firmando pochi giorni fa il patto scellerato con Pierre Cardin entra nella storia delle Serenissima come un seguace non dei Dogi, ma dei barbari, per immolarsi (dice lui) sull’altare del “patto di stabilità”.

     Il Palais Lumière di Cardin, coi suoi 250 metri di altezza, sarebbe alto due volte e mezzo il campanile di San Marco, 110 metri oltre i limiti di sicurezza Enac per il vicino aeroporto. Visibile da ogni angolo della città, l’ecomostro è un “dono” alla terra d’origine di Pietro Cardin (nato in provincia di Treviso 90 anni fa), per “risanare Porto Marghera” e creare lavoro nei suoi 65 piani abitabili, con appartamenti di lusso e attività commerciali e ricreative.

     Autore del progetto è Rodrigo Basilicati, «nipote ed erede stilistico di Cardin », laureatosi a Padova nel 2011: il più alto grattacielo d’Italia sarà dunque l’opera di un neolaureato quarantenne, ma il nepotismo, si sa, giustifica tutto. In commovente idillio, Orsoni (Pd) è d’accordo con le giunte leghiste di provincia e regione per approvare a tappe forzate un progetto «strategico e prioritario».


     La direzione regionale dei Beni Culturali, su parere dell’Ufficio legislativo del Ministero, ha dichiarato (27 novembre) che l’area è sottoposta ex lege a vincolo paesaggistico a tutela dell’ecosistema lagunare, ma secondo Orsoni il Consiglio comunale ratificherà comunque l’accordo, e per la cessione dei suoli Cardin verserà 40 milioni, indispensabili per «affrontare le imposizioni del patto di stabilità».

Invano Italia Nostra stigmatizza le «distorsioni della prassi amministrativa » di un Comune che si arroga i poteri di autorizzazione paesaggistica, mentre le professionalità utilizzate (due geometri e un perito industriale) sono palesemente inadeguate. Intanto, le banche francesi rifiutano a Cardin il prestito di 40 milioni, e mentre lui giocando al ribasso propone di versare “a fondo perduto” solo il 3% (1.200.000 euro), il cardinal nepote Basilicati dichiara che il documento firmato «è solo una bozza».

In tanta confusione, qualche punto è chiaro:
  1. primo, i dati sull’inquinamento sono truccati. Nel documento Cardin presentato in Conferenza dei servizi, si vanta una bonifica delle aree destinate al grattacielo (ad opera della Provincia) che non è mai avvenuta, si parla a vanvera di valori nei limiti tabellari di legge, senza precisare che si tratta di valori previsti per le aree industriali e non per quelle residenziali, e si ignora che le fondamenta dovrebbero attraversare tre falde acquifere; intanto la stessa Direzione Ambiente del Comune assicura che farà rispettare le norme contro il dissesto idrogeologico, cioè condanna il progetto senza appello.
  2. Secondo: se non avrà i permessi, Cardin minaccia di trasferire in Cina il suo palazzo, con ciò mostrando con quanta attenzione a Venezia esso sia stato concepito, se può indifferentemente stare anche a Shanghai.
  3. Terzo: mentre un ex sindaco di Venezia dichiara cinicamente che «il progetto è orribile, ma a caval donato non si guarda in bocca», Cardin monetizza la vista su Venezia, mettendo in vendita a prezzi altissimi gli appartamenti dei piani alti, destinati ai ricchi, «perché ci saranno sempre ricchi e poveri ». Insomma, il suo “dono” è quello che Manzoni chiamerebbe “carità pelosa”, fatta non per amore del prossimo ma per proprio interesse.
 
     Ma mentre il ministro dell’Ambiente Clini ed altri notabili esultano per l’imminente disastro, una dura mozione della massima accademia francese di scienze umane Académie des Inscriptions et Belles Lettres

«esprime viva inquietudine per le minacce che pesano su Venezia e la laguna. Deplora che navi di grande tonnellaggio continuino a entrare nel bacino di San Marco, sfidando la fragilità di un sito unico al mondo e mettendolo alla mercé di possibili incidenti.
Si stupisce che possano esser presi in considerazione progetti architettonici offensivi e assurdi, e osa sperare che il “Palais Lumière” previsto a Marghera, a causa della sua smisuratezza, non venga mai realizzato. Unisce la sua voce a chi disapprova queste iniziative e chiede che vengano respinte ».

      Dalla Francia viene dunque un forte monito e una lezione di civiltà, coerente con la recente decisione, dopo un referendum popolare, di bloccare il progetto (non di un neolaureato, ma dell’archistar Jean Nouvel) di costruire cinque grattacieli sull’isola Seguin, già sede di stabilimenti Renault (sulla Senna, a 8 km dalla torre Eiffel), riducendolo a un solo edificio, e più basso.

Ma perché Cardin, se davvero vuol dar lavoro ai veneti, non può edificare, nei 200.000 metri quadrati che avrebbe a disposizione, cinque torri da 50 metri, con la stessa volumetria totale? Perché l’inquinamento dell’area viene trattato con tanta leggerezza, proprio mentre il patriarca di Venezia Moraglia dichiara che «non è accettabile contrapporre il lavoro alla salute o all’ambiente, come si è fatto a Taranto»?

Perché si favoleggia di “risanare Porto Marghera”, quando l’area interessata è di soli 20 ettari su 2.200? Perché i notabili della città fomentano la frattura fra i contrari al progetto e chi con l’acqua alla gola (letteralmente) è pronto a svendere tutto? Perché non rispondere nel merito e passare agli insulti?

Tra le non poche finezze di Basilicati c’è infatti anche questa: secondo lui, chi ha firmato contro l’ecomostro (come Dario Fo, Stefano Rodotà, Carlo Ginzburg, Vittorio Gregotti) «usa il nome di Cardin per finire sui giornali». E lo zio Pietro, di rincalzo: «il mio palazzo sarà un faro che illuminerà la città, per giunta gratis».

Questi segnali di degrado civile, particolarmente intensi a Venezia, si avvertono in tutta Italia sotto il giogo del “patto di stabilità”. Costringendo i Comuni agli stessi introiti che avevano prima dei drastici tagli dei contributi statali (nel caso di Venezia, anche della Legge Speciale), queste norme inique spingono dappertutto verso la svendita e la privatizzazione dei patrimoni pubblici.

Anzi, secondo una fresca intesa tra Demanio e Confindustria, immobili pubblici «di particolare pregio» possono essere venduti «anche per utilizzi industriali» (Corriere della Sera, 20 dicembre). Abbiamo dunque dimenticato che i beni pubblici sono il portafoglio proprietario dello Stato-comunità, sono la garanzia della sovranità e dei diritti costituzionali dei cittadini, lo «strumento privilegiato delle grandi libertà pubbliche» (Gaudemet)?

     Il mostro della Laguna succhia a Roma i suoi veleni, e la sua vittima non è Orsoni, è Venezia. La vittima di una “stabilità” cieca che ignora i diritti è la nostra Costituzione. La vittima è l’Italia, che si pretende di salvare condannandola a mettersi in vendita, in balia di avventurieri e nepotismi. Le vittime siamo noi, i cittadini.

giovedì 27 dicembre 2012

Conservatori e Progressisti

Conservatorismo o RETROGRADISMO?

Onesti conservatori e conservatrici non sono un problema in sé per chi è liberale e progressista, a condizione che abbiano fermi i "principi" della giustizia e della libertà sui quali si fonda la realizzazione concreta della dignità di donne e uomini, principi di recente affermazione giuridica internazionale (60-70 anni sono meno di un soffio rispetto ai tempi storici). Senza giustizia non c'è pienezza degli altri diritti e senza libertà è la stessa cosa.

Il problema diventa terribile quando il termine "CONSERVATORE" equivale a "RETROGRADO", nel senso di colui che si oppone al progresso civile e, al contrario, propugna un ritorno non ai valori ma ai disvalori del passato.

"Conservatore" e "destra conservatrice" possono avere al stessa dignità di "progressista" e "sinistra progressista" ed è giusto che ogni persona scelga le idee e i metodi che sente più affini. Sempre a condizione, però, che non si intenda ritornare al prima della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo e a tutte le Convenzioni successive. Ci sono voluti millenni di progresso del pensiero e di lotte di ogni genere per arrivarci, infatti ci siamo arrivati da poco, solo dopo il secondo massacro mondiale.

Una domanda: si sta affermando un nuovo conservatorismo o un nefasto retrogradismo? Ho molti esempi per chiarire il mio pensiero e le mie preoccupazioni dempocratiche, ma penso che non ce ne sia bisogno. Nel caso contrario, sono qui.

Declino di una democrazia parlamentare

Sputo il rospo

 Marco Revelli

 
     Constatare che quanto sta accadendo in questi giorni al vertice delle nostre istituzioni è quantomeno irrituale è dir poco. In realtà, in questa affrettata fine di legislatura un altro pezzo di quel che resta del nostro ordinamento costituzionale è andato in pezzi. Siamo – o meglio dovremmo essere – una «democrazia parlamentare»: una forma di governo, cioè, in cui il fulcro del sistema politico è il Parlamento. È in Parlamento che dovrebbero nascere e finire i governi. Con un voto di fiducia nel primo caso. E con un voto di sfiducia nel secondo, quando la legislatura non sia giunta alla propria fine naturale.

     Qui, invece, è bastato che il presidente del consiglio in carica annunciasse le proprie dimissioni – in assenza di un voto di sfiducia, anzi, nonostante avesse appena incassato la fiducia sulla Legge di stabilità – perché il Presidente della Repubblica, dopo una fulminea consultazione di qualche ora, sciogliesse anticipatamente le camere. Correttezza avrebbe voluto che, di fronte alle dimissioni del capo del governo, il capo dello stato lo rinviasse alle camere perché, con un dibattito chiaro, in cui ogni parte politica assumesse in pubblico e nella sede naturale le proprie responsabilità, si misurasse con un voto l’esistenza o meno di una maggioranza.
Invece no. Per la seconda volta nel giro di un anno si è consumata una soluzione extra-parlamentare.

     Il governo Monti finisce così come era incominciato: per un atto d’imperio del secondo ramo del potere esecutivo (quello costituzionalmente meno pregnante sul piano dell’indirizzo politico), nella marginalità del potere legislativo. E questa seconda volta senza neppure la possibile giustificazione dell’emergenza (il rischio di default, lo spread alle stelle, il crollo dell’Eurozona…) su cui motivare un qualche «stato d’eccezione». Come se l’eccezione fosse, in questi tredici mesi, diventata la regola.

     In entrambi i casi al centro dello strappo ci sono i partiti (l’intero sistema dei partiti), con la loro crisi. La loro impotenza o fragilità. La loro impossibilità di trasparenza e verità. A novembre dello scorso anno perché si fecero precipitosamente di lato, anzi fuggirono mentre il paese era in caduta libera, ben felici di passare la patata bollente al Presidente. Ora perché, probabilmente, si sono fatti fin troppo avanti, per chiedere a quello stesso Presidente una chiusura al buio della legislatura.

     E quindi un’apertura al buio della campagna elettorale, che evitasse loro di mettere fin da subito, nella sede istituzionale adeguata, le carte in tavola. Il proprio giudizio sull’anno passato e il proprio programma per il quinquennio futuro.

     In un dibattito parlamentare sulla fiducia, ad esempio, e nel voto finale, il Pdl si sarebbe probabilmente spaccato in misura ben più evidente di quanto lo sia già, anticipando lo scenario che lo attende dopo le urne e accelerando i propri processi decompositivi. Ed il Pd avrebbe dovuto motivare, a sua volta in pubblico, la propria politica di quest’anno nei confronti di Monti, esponendosi anch’esso alla responsabilità della fiducia: l’avrebbe confermata anche ora, ipotecando il proprio atteggiamento in campagna elettorale? O l’avrebbe negata, mostrando in pubblico un’opzione diversa dall’Agenda Monti? O forse anch’esso si sarebbe diviso, lungo le linee che già si intuiscono, ma che si vorrebbe tenere nascoste fino all’esito elettorale.

     E poi Monti. Abbiamo dovuto decifrare le ragioni del capo del governo dimissionario da una conferenza stampa, in un fulmineo passaggio in cui si affermava che non c’erano alternative alla fine del suo Gabinetto e della Legislatura. Non in un’aula parlamentare, ma in una sede mediatica.

     E dobbiamo ora intuire i suoi progetti da un «cinguettio», anzi da due. Proprio così, per grottesco che possa apparire: su twitter! E anche, si dice, su una pagina di facebook. Altro che Grillo! E anti-politica. E democrazia telematica. Due messaggini di 77 e 59 caratteri. «Monti su twitter: ‘Saliamo in politica’» titola il Corriere, senza sarcasmo, come se fosse un modo normale di trattare la cosa pubblica.

     La campagna elettorale che ci aspetta sarà dunque «sotto copertura». Forse non sarà convulsa come temuto, ma sicuramente opaca. Nel senso che la verità – il «sottostante», potremmo dire con linguaggio da broker finanziari – verrà fuori solo dopo. A babbo morto (cioè a elettore liquidato). E quella verità sarà quella adombrata in sala stampa di Palazzo Chigi: che l’agenda Monti, chiunque vinca, sarà al centro del tavolo. Che le linee guida europee sono invalicabili. Che il lavoro – eufemismo per dire i lavoratori e i loro salari e le loro garanzie – sarà, in misura crescente, il materasso su cui scaricare il peso dell’infinito Salva Italia, in un processo di redistribuzione dal basso verso l’alto e dall’economia reale al circuito finanziario che continua a restare il dogma infrangibile di questa Europa (e di questo Occidente).

     Che probabilmente questo avverrà per via diretta – con il taglio delle ali dei due «poli» e la convergenza al centro delle rispettive componenti «moderate». O, in alternativa, con l’ascensione di Mario Monti sul colle più alto – forse per questo parla di «salita» in politica – trasformato in vero baricentro del sistema e la delega al rappresentante della rinnovata maggioranza parlamentare di farsene esecutore.

     Meglio saperlo fin d’ora. Perché solo una straordinaria impennata d’orgoglio dell’elettorato, oggi difficile da misurare, potrà smentire questa forse troppo facile profezia.
 

lunedì 17 dicembre 2012

Mahler: Kindertotenlieder (Thomas Hampson, Wiener Philharmoniker, Leonar...





Canti per i bambini morti - MAHLER

PER TUTTE LE BAMBINE E TUTTI I BAMBINI

Kindertotenlieder

 (Canti per i bambini morti) per voce e orchestra

MAHLER


Testo delle parti vocali (nota 1)


1.
Nun will die Sonn' so hell aufgeh'n,
Als sei kein Unglück die Nacht geschehn.
Das Unglück geschah auch nur mir allein,
Die Sonne, sie scheinet allgemein.

Du musst nicht die Nacht in dir verschränken,
Musst sie ins ewige Licht versenken.
Ein Lämplein verlosch in meinem Zelt, Heil sei dem Freudenlicht der Welt!
1.
Ora il sole osa sorgere e splendere ancora,
come se una sciagura nella notte non fosse avvenuta.
La sciagura è avvenuta: certo, a me solo è toccata,
e il sole splende ovunque e per tutti gli altri, là fuori.

Non devi in te la notte rinchiudere, e nasconderla,
ma lasciarla affondare e perdersi nella luce eterna.
Si è spenta nella mia tenda una piccola lucerna,
ma sia gloria alla luce cara e gioiosa del mondo!

2.
Nun seh' ich wohl, warum so dunkle Flammen
Ihr sprühtet mir in manchem Augenblicke,
0 Augen! Gleichsam um voll in einem Blicke
Zu drängen eure ganze Macht zusammen.

Doch ahnt ich nicht, weil Nebel mich umschwammen,
Gewoben vom verblendenden Geschicke,
Dass sich der Strahl bereits zur Heimat schicke,
Dorthin, von wannen alle Strahlen stammen.

Ihr wolltet mir mit eurem Leuchten sagen:
Wir möchten nah dir bleiben gerne,
Doch ist uns das vom Schicksal abgeschlagen.

Sieh uns nur an, denn bald sind wir ferne!
Was dir nur Augen sind in diesen Tagen,
In künft'gen Nächten sind es dir nur Sterne.
2.
Ora so finalmente perché fiamme così oscure
mi lanciavate, occhi, in certi istanti!
Per raccogliere e stringere in un solo attimo
tutte le vostre forze, e farle piene e sicure.

Ma non presentivo, ovattato da nebbia e da caligine,
preso dentro la rete e accecato dal destino,
che il raggio già si piegava a riprendere il cammino,
verso quella dimora dove ogni raggio ha origine.

Voi volevate dirmi, col vostro luccicare:
Vicino a te sarebbe bello per noi restare,
ma questo, a noi, il destino l'ha voluto impedire.

Solo guardaci: noi saremo lontani, presto!
Quelli che per te sono soltanto occhi, in questo
giorno, saranno stelle nelle notti a venire.

3.
Wenn dein Mütterlein
Tritt zur Tür herein
Und den Kopf ich drehe,
Ihr entgegensehe,
Fällt auf ihr Gesicht
Erst der Blick mir nicht,
Sondern auf die Stelle
Näher nach der Schwelle,
Dort wo würde dein
Lieb Gesichtchen sein,
Wenn du freudenhelle
Trätest mit herein,
Wie sonst, mein Töchterlein.

Wenn dein Mütterlein
Tritt zur Tür herein
Mit der Kerze Schimmer,
Ist es mir, als immer
Kämst du mit herein,
Huschtest hinterdrein
Als wie sonst ins Zimmer.
0 du, des Vaters Zelle,
Ach zu schnelle
Erloschner Freudenschein!
3.
Quando la tua mammina
entra da quella porta
ed io giro la testa
e guardo verso lei,
sul suo volto non cade
in principio il mio sguardo,
ma là, proprio in quel punto
dove potrebbe essere
la tua cara faccina,
se tu, raggiante gioia,
entrassi qui con lei,
piccola figlia mia, come una volta.

Quando la tua mammina
entra da quella porta
col baglior di candela,
mi pare che tu entri
qui con lei, come sempre,
scappandole da dietro,
come allora, qui in camera.
Tu, parte di tuo padre,
raggio di gioia, ahimè,
troppo presto già spento.

4.
Oft denk' ich, sie sind nur ausgegangen!
Bald werden sie wieder nach Hause gelangen!
Der Tag ist schön! 0 sei nicht bang!
Sie machen nur einen weiten Gang.

Ja wohl, sie sind nur ausgegangen
Und werden jetzt nach Hause gelangen.
0 sei nicht bang, der Tag ist schön!
Sie machen nur den Gang zu jenen Höhn!

Sie sind uns nur vorausgegangen
Und werden nicht wieder nach Haus gelangen!
Wir holen sie ein auf jenen Höhn
Im Sonnenschein! Der Tag ist schön
Auf jenen Höhn.
4.
Io penso spesso: sono solo usciti,
presto saranno di ritorno a casa!
Il giorno è bello. No, non angosciarti,
fanno solo una lunga passeggiata.

Ma sì: semplicemente sono usciti,
ora, vedrai, ritorneranno a casa.
Non angosciarti, la giornata è bella!
Fanno due passi, là, su quelle alture!

Sì, sono usciti un po' prima di noi,
e non faranno più ritorno a casa!
Su quelle alture li raggiungeremo,
in pieno sole! La giornata è bella
su quelle alture.

5.
In diesem Wetter, in diesem Braus,
Nie hält ich gesendet die Kinder hinaus;
Man hat sie hinausgetragen.
Ich durfte nichts dazu sagen.

In diesem Wetter, in diesem Saus,
Nie hätt ich gelassen die Kinder hinaus,
Ich fürchtete, sie erkranken,
Das sind nun eitle Gedanken.

In diesem Wetter, in diesem Graus,
Nie hätt ich gelassen die Kinder hinaus,
Ich sorgte, sie stürben morgen,
Das ist nun nicht zu besorgen.

In diesem Wetter, in diesem Braus,
Sie ruhn als wie in der Mutter Haus,
Von keinem Sturme erschrecket,
Von Gottes Hand bedecket.
5.
Con questo tempo, in questo finimondo,
non avrei mai fatto uscire i bambini;
li hanno portati fuori.
lo non riuscii a dir nulla.

Con questo tempo, in questo nubifragio,
non avrei mai fatto uscire i bambini:
avrei temuto che si ammalassero.
Ma questi sono, ora, pensieri inutili.

Con questo tempo, tempo spaventoso,
non avrei mai fatto uscire i bambini:
avrei detto: Potrebbero morire!
Ma non val più darsi pena per questo.

Con questo tempo, in questo finimondo,
riposan come a casa, dalla mamma:
più nessuna tempesta li atterrisce,
e la mano di Dio li custodisce.

(Traduzione di Quirino Principe)

(1)Testi tratti dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 5 maggio 2002


Questo testo scritto da Terenzio Sacchi Lodispoto è di proprietà di ©LA MUSICA FATTA IN CASAche ne autorizza l'uso, ed è stato prelevato sul sito htpp://www.flaminioonline.it

mercoledì 5 dicembre 2012

E adesso Mancino parli - micromega-online - micromega

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Ingroia: “Legittimo criticare la Consulta. La sentenza è un pasticcio politico” - micromega-online - micromega

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La memoria difensiva della procura di Palermo - micromega-online - micromega

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Da Presidente a Monarca - micromega-online - micromega

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Una Corte cortigiana - micromega-online - micromega

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mercoledì 28 novembre 2012

Le domande di Ignazio Marino
 

Care amiche e cari amici,
nelle primarie è giusto crederci e io ci credo. L’ho ribadito sull’Unità di oggi in una lettera che ho indirizzato a tutti i candidati (potete leggerla
qui).

Questa volta il voto servirà per scegliere il candidato del centrosinistra alla Presidenza del Consiglio: una donna o un uomo che, se vinceremo le elezioni, deve avere preparazione tecnica ma anche personale autorevolezza nazionale ed internazionale per affrontare la crisi economica. Quel candidato dovrà lavorare per convincere gli italiani ad andare a votare, e a votare centrosinistra.


 Su alcuni temi sarebbe importante conoscere da subito il punto di vista dei candidati perché sono argomenti qualificanti di una proposta politica che si preoccupa del futuro dell’Italia.

Riassumo le mie domande per punti:

 1) Penso in primo luogo al tema del lavoro. Quali misure propongono i candidati per rilanciare l’occupazione?

2) Penso poi alla salute. La sostenibilità del servizio sanitario nazionale non riguarda solo le questioni di bilancio ma anche il livello di civiltà di un paese. Che fare dopo 21 miliardi di tagli negli ultimi tre anni, con sette regioni commissariate, con un sud dove la sanità pubblica è solo una parola teorica priva di concretezza?
Sono d’accordo i candidati alle primarie ad eliminare il controllo della politica nei meccanismi di nomina di direttori generali e primari?

3) L’Italia è lontana dall’Europa su molti temi dalle unioni civili, alle norme per il fine vita, alla procreazione assistita, sino alla ricerca così promettente sulle cellule staminali embrionali. Sono d’accordo i candidati nel riconoscere che chi nasce in Italia è italiano?
4) Sono d’accordo nel garantire alle coppie di fatto, etero e gay, il pieno e pubblico riconoscimento civile dei propri diritti?
5) E sono d’accordo nel sostenere una legge sul testamento biologico che permetta a ognuno di noi di decidere con i propri affetti quali cure riteniamo appropriate per noi stessi e quali no? In altre parole, si impegneranno a rispettare, e fare rispettare da tutti, i principi di laicità della Costituzione italiana?
6) L’Italia inoltre è arretratissima in quanto a rappresentanza femminile nelle istituzioni e più in generale nel mondo produttivo. Sono pronti i candidati a lavorare per la parità di genere nelle istituzioni e nel mondo del lavoro?
7) Infine, uno sguardo al futuro: sappiamo che non ci sarà sviluppo né crescita se non si punterà su ricerca e innovazione. Da dove passa la strada dell’innovazione?
Se pensate che un dibattito su questi temi sia utile, diffondete le mie domande e chiedete delle risposte anche voi ai candidati alle primarie per il Partito Democratico…vedremo chi ci risponderà e soprattutto come.

Un caro saluto,


lunedì 26 novembre 2012

Il diritto di avere diritti


sursum




Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all'umanità, dovrebbe essere garantito dall'umanità stessa.
 Hannah Arendt
Le origini del totalitarismo [1951]


Citazione che Stefano Rodotà ha messo come epigrafe al suo libro
 
 
Il diritto di avere diritti


Laterza novembre 2012

 


sabato 24 novembre 2012

Denaro e finanza, un bene pubblico - micromega-online - micromega

Denaro e finanza, un bene pubblico - micromega-online - micromega

di Guido Rossi, da Il Sole 24 Ore

...

"Che il denaro e la finanza debbano costituire dei beni pubblici, che non possono essere saccheggiati né monopolizzati dal Leviatano finanziario, è certamente una nuova prospettiva dalla quale occorrerebbe, a mio avviso, decisamente partire, anche in attuazione del dettato costituzionale italiano, nel quale denaro e finanza appaiono già - attraverso la tutela del risparmio e la disciplina del credito sanciti dall'articolo 47 - beni comuni funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona. Questi beni pubblici sovranazionali comportano certamente la necessità di una solida riflessione per una riforma della finanza internazionale, a incominciare da quella più attuale che consiste nel progetto di unità monetaria, economica e politica europea."

(20 novembre 2012)

giovedì 1 novembre 2012

Fiat, cieca e violenta lotta di classe - Furio Colombo - Il Fatto Quotidiano

Fiat, cieca e violenta lotta di classe - Furio Colombo - Il Fatto Quotidiano


La lotta di classe torna in tutto il suo furore ed è lotta iniziata a freddo dalla ricchezza contro coloro che in due secoli il mondo civile ha imparato a chiamare, garantire, rispettare e trattare come partner dell’impresa, i lavoratori. Sto parlando dell’annuncio di Marchionne. Metterà “in mobilità” 19 operai come risposta alla sentenza della Corte d’appello di Roma che lo obbliga a riassumere 19 operai licenziati perché discriminati, dunque illegalmente. ...
 
...
Forse risulterà impossibile per la Fiat, impresa e azionisti, accettare come normale (giuridicamente, aziendalmente, psichicamente) il potere basato sulla rappresaglia. Ma se i lavoratori subiranno l’umiliazione di lasciarsi dividere, e la politica di tacere, la cieca guerra di classe del potere ricco contro il lavoro segnerebbe la sua prima vittoria importante nel giorno peggiore della vita italiana.

Il Fatto Quotidiano, 1 Novembre 2012

domenica 28 ottobre 2012

Metafore dal blog Curiosi del Mare

http://www.youtube.com/watch?v=cYoXvXmHafs&feature=player_embedded


http://www.youtube.com/watch?v=x0Lfcah_LR0&feature=player_embedded

"Il futuro era migliore"

Basta sfiducia , dobbiamo rialzarci

Questa crisi alimenta i particolarismi più ottusi
La solidarietà può garantire sicurezza e stabilità

di Claudio Magris

 
 
Un paio di settimane fa ero a Madrid, nei giorni delle manifestazioni contro il governo e degli scontri con la polizia, di cui hanno ampia- mente riferito i nostri giornali e le nostre televisioni, talora esagerandone - specialmente sullo schermo - la portata e la violenza. ...
 
Questo sentimento di un futuro frustrante ed opaco non preoccupa direttamente la mia generazione; come ai vecchi di Svevo, a noi non interessa personalmente il futuro, il nostro universo è il presente, da afferrare e godere o da scansare quando ci fa soffrire. ... Ma chi si apre oggi alla stagione della vita in cui si decidono l'esistenza, la sua qualità e il suo significato, si sente impedito nelle sue esigenze di sbocciare, di costruire il proprio mondo, di far valere il proprio diritto alla felicità proclamato dalla Dichiarazione americana. ...
 
Il malessere e la stanchezza pessimista sono un male da combattere, tanto più quanto più essi sono, come oggi, sempre più diffusi.
 
Certo, a leggere i grandi documenti così pieni di fede, dei padri fondatori dell'idea di un'Europa unita, come ad esempio il Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni ci si accorge che, in quell'epoca orrenda - come diceva Karl Valentin, geniale cabarettista e ispiratore di Brecht - il futuro era migliore.
 


giovedì 25 ottobre 2012

Rottamazione e rottamatori



 
ROTTAMAZIONE, dice il vocabolario, è l’azione che si compie quando si demoliscono oggetti fuori uso: specie automobili. Vengono triturati, per riutilizzare le parti metalliche. A volte, ottieni sconti sulla nuova vettura.
 
Applicata alle persone e al ricambio di dirigenti politici, è una delle parole più maleducate e violente che esistano oggi in Italia. I rottamatori sono fieri di chiamarsi così, e quando l’operazione riesce esibiscono le spoglie del vinto: «La rottamazione comincia a produrre i primi frutti», ripeteva Matteo Renzi, domenica in un’intervista in tv.
La lotta per l’avvicendamento ai vertici della politica ha sue ragioni, e lo stile brutale risponde a un’ansia, enorme e autentica, di cambiamento: si vorrebbe azzerare l’esistente, e come nella poesia di Rimbaud ci si professa «assolutamente moderni».
È un conflitto legittimo, anche necessario: che va portato alla luce perché nell’ombra degenera o ammutolisce. È il grande merito del sindaco di Firenze, come di Grillo. Impressionante è la campagna di quest’ultimo in Sicilia: lunga, martellante, è rifiuto del mutismo. Da due settimane è nell’isola; nessuno s’era messo per tanto tempo in ascolto delle sue collere. Ma la parola rottamazione, anche se Renzi intende cambiamento, resta ustionante e parecchi la prendono alla lettera. L’avversario – rivale è trattato alla stregua di arnese metallico. Se l’idea della rottamazione non avesse alle spalle una storia lunga, di degradazione della persona a oggetto servibile, non susciterebbe tanto disagio. Non sveglierebbe fantasie di uomini «di troppo», di rottami. Forse chi la usa (non solo il sindaco di Firenze) non se ne rende conto, ma il termine alligna nelle terre della pubblicità ed è lessico della generazione Berlusconi.
È nato con lui, con le sue disinvolture verbali. Non ingentilisce ma corrompe il discorso pubblico. È figlio della rivoluzione non solo politica ma linguistica, di stile, che Berlusconi inaugurò nel ‘94. Fu una rivoluzione della noncuranza, del «tutto è permesso»: non badava alle conseguenze di quel che veniva detto, ai tabù infranti.

È una parola del tutto anomala, inoltre. In Europa o America, nessun politico che magnifichi il Nuovo oserebbe condurre una campagna in cui gli anziani, i seniores, vengano definiti ferrivecchi. Nell’aprile 2002, quando il socialista Jospin alluse all’età del rivale Chirac, i sondaggi lo punirono, screditandolo. Aveva avuto l’impudenza e l’imprudenza di dire che il Presidente era «affaticato, invecchiato, vittima dell’usura». Gli elettori non amavano Chirac, ma la mancanza di gentile rispetto dell’anzianità, in Jospin, fu ritenuta intollerabile.
Una cosa è attaccare la linea dell’avversario: soffermandosi su di essa, senza censure. Altra cosa è assalire la persona.

Se rottamazione scomparisse dal vocabolario giornalistico e politico non sarebbe male. Conterebbe più la sostanza: l’errore di Veltroni, quando affondò l’ultimo governo Prodi annunciando che il Pd, rompendo le catene della sinistra radicale, sarebbe «corso da solo» (come se non fosse stato il centro a silurare Prodi). O si potrebbe raccontare D’Alema: il suo rapporto sprezzante con giornalisti e magistrati, i piaceri che fece a Berlusconi, i dispiaceri che procurò a Prodi, l’influenza eccessiva esercitata su Bersani.

Ci dedicheremmo a quel che Renzi vuol dire, e alla fiducia che riscuote in persone di prestigio come Pietro Ichino (nota mia personale: Ichino, infatti, quell'Ichino).

Rottamazione è un cartello stradale che depista: non dice quel che promette, né sull’Europa né sulla corruzione né sulla ‘ndrangheta che ci assilla.

Vale la pena ripercorrere la storia di questo vocabolo, tanto più cruento in un paese fragile: dopo la Germania, siamo il popolo che più invecchia in Europa. Vale la pena tener viva la memoria, perché lo sgarbo non è episodico ma ha radici in una sistematica denigrazione dei più anziani: nei luoghi di lavoro e nella politica.

Il Parlamento si era appena insediato, nel ‘94, e fu subito offensiva contro un senior come Norberto Bobbio. Eletto alla Camera alta, Franco Zeffirelli giubilò: la Seconda repubblica aveva spazzato via «la triste sfilata dei senatori a vita, uno più cadaverico dell’altro, una vecchia Italia che non vogliamo più e che si è seppellita da sola». Facendogli eco, Maurizio Gasparri diceva di Indro Montanelli: «Quello è arrivato al tramonto della vita e anche delle capacità intellettuali del suo cervello»

L’offensiva rottamatrice proseguì, più feroce, nel 2006-2008. Ricordiamo gli improperi riversati su Rita Levi Montalcini, e sulla sua tenace presenza in Senato per sostenere il governo di centro sinistra. Sul Giornale del 14-7-07, Paolo Guzzanti parlò di vecchi «scongelati, inchiavardati allo scranno e costretti a pigiare col ditino il pulsante guidato da una senatrice badante». Storace promise «un bel paio di stampelle da consegnare a domicilio. Si comincia dalla senatrice a vita Levi Montalcini ». Su Libero, diretto da Vittorio Feltri, apparve il titolo d’apertura: «La dittatura dei pannoloni».

 Siamo dunque lontani dal vero, quando scriviamo che Berlusconi è finito, e con lui il lessico d’insulti della Lega. Il loro modo d’essere e di dire sgocciola come da una flebo nelle vene di un’intera generazione. È il suo marchio, così come le parole del ’68 intrisero due generazioni. I francesi faticano ancor oggi a uscire dalla generazione Mitterrand.
Faticheremo anche noi, più di quel che si dica.

Il cambiamento è altra cosa.

È la crisi non come decadenza ma trasformazione: un desiderio che Renzi intuisce, e vuol incarnare. È un conflitto ineluttabile: fra ieri, oggi, domani. È un progetto diverso di crescita, non nuovo tra l’altro, se già nel 1987 il rapporto Brundtland scriveva: «Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni». È un orizzonte dato a giovani cui non si può dire, come il ministro Fornero: «Siete troppo choosy! » («schizzinosi » è mal tradotto, cancella il furto della scelta). E che volto devono avere le nostre città, i nostri pubblici spazi e servizi? Come congegnare pensioni che non tramutino gli anziani in gente bandita o – abbondano anche qui truci aggettivi – in esuberi o esodati?

 Dai tempi dei Viceré e del Gattopardo sappiamo che cambiar facce non basta alle Grandi Trasformazioni.
Rottamazione oltre che parola è diseducativa, non prepara alcunché. Alla sua insegna non può svolgersi dibattito fra candidati alla guida del Paese. Eppure di discussioni dirette c’è bisogno: per districarsi da soli, senza mediatori nei giornali o in Tv. Nelle primarie americane e francesi è la norma, sebbene scabrosa.
Il rottamatore di professione, presente ovunque nei partiti, ti fruga, alla ricerca degli istinti più bassi, delle passioni più tristi. Viene in mente il Viaggio agli inferni del secolo di Buzzati: nei sotterranei milanesi, sotto la metro, c’è un mondo parallelo in cui i vecchi, inservibili, sono scaraventati dalle finestre nei marciapiedi. Entrümpelung, parola che Buzzati prende dal lessico nazista, significa repulisti, sgombero: è una variante dell’igienica rottamazione.
Anche quel repulisti viene celebrato come «festa della giovinezza, della rinascita, della speranza», del Mondo Nuovo.
Accade così che il diverso appaia come uomo di troppo: povero o vecchio, esodato o immigrato. Sono i disastri del moderno, non del barbarico.
Una volta che te la prendi con classi d’età, quindi con la biologia, entri nella logica del capro espiatorio, dell’innocente che paga per il collettivo. Il rito è la ripetizione di un primo linciaggio spontaneo, secondo René Girard, che riporta ordine in seno alla comunità. Nel linciaggio, la violenza di tutti contro tutti sfocia in violenza di tutti contro uno. Sarebbe bello se a dirlo, con voce non bassa, fossero anche i giovani.

lunedì 15 ottobre 2012

Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti
 
di Italo Calvino*



C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.

Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.

Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.



Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.

Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.

Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone.
 
In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

* da Repubblica, 15 marzo 1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”, Meridiani, Mondadori

Nota biografica – Italo Calvino nasce a Santiago de Las Vegas (Cuba) nel 1923 e si trasferisce con la famiglia nel 1925 a San Remo. Si unisce ai partigiani durante la II Guerra Mondiale e, in questo contesto, nasce la sua prima opera “I sentieri dei nidi di ragno” (1947). Successivamente diventa un attivista del Pci, una militanza politica proseguita fino al 1956. Considerato uno dei più interessanti autori contemporanei, negli anni Settanta comincia a collaborare come editorialista al “Corriere della sera” prima e “la Repubblica” poi. Muore a Castiglione della Pescaia nel 1985. Tra le sue opere, la trilogia dei Nostri Antenati “Il cavaliere inesistente”, “Il barone rampante”, “Il visconte dimezzato”, “Marcovaldo”, “Le cosmicomiche”, “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, fino al saggio “Lezioni americane” uscito postumo nel 1989.

(15 ottobre 2012) da MICROMEGA