lunedì 26 dicembre 2011

Il regalo di Natale di carloKlimt77

regalo di Natale

questo blog nuovissimo è il regalo di un amico blogger, che mi ha dedicato tempo e pazienza per trasferire il mio antico "ahimsa" da Splinder a Blogger







ricomincio dal mare, il mio mare, e dalle nuvole

ricomincio dalla Terra, il nostro pianeta blu 

ricomincio dalle persone che amo
e da tutte le creature viventi
e da ogni atomo dell'Universo a cui apparteniamo

ricomincio da tutte le cose che danno valore alla mia vita: la verità, la giustizia, la libertà








vorrei ricominciare dalla gioia di vivere




lunedì 28 novembre 2011


E se fosse una parabola?
 



"Non può continuare per sempre. La natura degli esponenziali è che o a un certo punto si eliminano, oppure succedono disastri."
Gordon Moore, inventore della legge di Moore, 2005



 



E se non fosse solo la natura degli esponenziali? Nella mia ignoranza e di esponenziali e di finanza, nell'affermazione di Moore vedo una parabola dei nostri tempi dominati da non so chi o che cosa. "Non può continuare per sempre". Quanto è lontana la fine del potere finanziario, come avverrà, quali disastri ancora provocherà?  

giovedì 17 novembre 2011


IL DISCORSO DEL PRESIDENTE MONTI

*

 



Signor Presidente, onorevoli senatrici, onorevoli senatori, è con grande emozione che mi rivolgo a voi come primo atto del percorso rivolto ad ottenere la fiducia del Parlamento al Governo ieri costituito.
L'emozione è accresciuta dal fatto che prendo oggi la parola per la prima volta in questa Aula nella quale mi avete riservato qualche giorno fa un'accoglienza che mi ha commosso. Sono onorato di entrare a far parte del Senato della Repubblica. Desidero rivolgere un saluto deferente al Capo dello Stato, presidente Napolitano che con grande saggezza, perizia e senso dello Stato ha saputo risolvere una situazione difficile in tempi ristrettissimi nell'interesse del Paese e di tutti i cittadini.
 Vorrei anche rinnovargli la mia gratitudine per la fiducia accordata alla mia persona, per il sostegno e la partecipazione che mi ha costantemente assicurato nei miei sforzi per comporre un Governo che potesse soddisfare le richieste delle forze politiche e, al contempo, dare risposte efficaci alle gravi sfide che il nostro Paese ha di fronte a sé.
 
Rivolgo il mio saluto ai Presidenti emeriti della Repubblica, ai senatori a vita e a tutti i senatori. Mi auguro di poter stabilire con ciascuno di voi anche un rapporto personale come vostro collega, sia pure l'ultimo arrivato.

Il Parlamento è il cuore pulsante di ogni politica di Governo, lo snodo decisivo per il rilancio e il riscatto della vita democratica. Al Parlamento vanno riconosciute e rafforzate attraverso l'azione quotidiana di ciascuno di noi dignità, credibilità e autorevolezza.
Da parte mia, da parte nostra, vi sarà sempre una chiara difesa del ruolo di entrambe le Camere quali protagoniste del pubblico dibattito.
Un ringraziamento specifico e molto sentito desidero, infine, esprimere al vostro, al nostro, Presidente. Il presidente Schifaniha voluto accogliermi, fin dal primo istante di questa mia missione - come potete immaginare, non semplicissima - svoltasi, in gran parte, a Palazzo Giustiniani, con una generosità e una cordialità che non potrò dimenticare.

 Rivolgo, infine, un pensiero rispettoso e cordiale al presidente, onorevole dottor Silvio Berlusconi (APPLAUSI) mio predecessore, del quale mi fa piacere riconoscere l'impegno nel facilitare in questi giorni la mia successione nell'incarico.
 
Il Governo riconosce di essere nato per affrontare in spirito costruttivo e unitario una situazione di seria emergenza. Vorrei usare questa espressione: Governo di impegno nazionale. Governo di impegno nazionale significa assumere su di sé il compito di rinsaldare le relazioni civili e istituzionali, fondandole sul senso dello Stato. È il senso dello Stato, è la forza delle istituzioni, che evitano la degenerazione del senso di famiglia in familismo, dell'appartenenza alla comunità di origine in localismo, del senso del partito in settarismo. Ed io ho inteso fin dal primo momento il mio servizio allo Stato non certo con la supponenza di chi, considerato tecnico, venga per dimostrare un'asserita superiorità della tecnica rispetto alla politica. Al contrario, spero che il mio Governo ed io potremo, nel periodo che ci è messo a disposizione, contribuire in modo rispettoso e con umiltà a riconciliare maggiormente - permettetemi di usare questa espressione - i cittadini e le istituzioni, i cittadini alla politica.

Io vorrei, noi vorremmo, aiutarvi tutti a superare una fase di dibattito, che fa parte naturalmente della vita democratica, molto, molto, accesa, e consentirci di prendere insieme, senza alcuna confusione delle responsabilità, provvedimenti all'altezza della situazione difficile che il Paese attraversa, ma con la fiducia che la politica che voi rappresentate sia sempre più riconosciuta, e di nuovo riconosciuta, come il motore del progresso del Paese.
 
Le difficoltà del momento attuale. L'Europa sta vivendo i giorni più difficili dagli anni del secondo dopoguerra. Il progetto che dobbiamo alla lungimiranza di grandi uomini politici, quali furono Konrad Adenauer, Jean Monnet, Robert Schuman e - sottolineo in modo particolare - Alcide De Gasperi (APPLAUSI) e che per sessant'anni abbiamo perseguito, passo dopo passo, dal Trattato di Roma - non a caso di Roma - all'atto unico, ai Trattati di Maastricht e di Lisbona, è sottoposto alla prova più grave dalla sua fondazione.
 
 Un fallimento non sarebbe solo deleterio per noi europei. Farebbe venire meno la prospettiva di un mondo più equilibrato in cui l'Europa possa meglio trasmettere i suoi valori ed esercitare il ruolo che ad essa compete, in un mondo sempre più bisognoso di una governance multilaterale efficace.
 
Non illudiamoci, onorevoli senatori, che il progetto europeo possa sopravvivere se dovesse fallire l'Unione Monetaria. La fine dell'euro disgregherebbe il mercato unico, le sue regole, le sue istituzioni. Ci riporterebbe là dove l'Europa era negli anni cinquanta.
 
La gestione della crisi ha risentito di un difetto di governance e, in prospettiva, dovrà essere superata con azioni a livello europeo. Ma solo se riusciremo ad evitare che qualcuno, con maggiore o minore fondamento, ci consideri l'anello debole dell'Europa, potremo ricominciare a contribuire a pieno titolo all'elaborazione di queste riforme europee. Altrimenti ci ritroveremo soci di un progetto che non avremo contribuito ad elaborare, ideato da Paesi che, pur avendo a cuore il futuro dell'Europa, hanno a cuore anche i lori interessi nazionali, tra i quali non c'è necessariamente una Italia forte.
 
Il futuro dell'euro dipende anche da ciò che farà l'Italia nelle prossime settimane, anche e non solo, ma anche. Gli investitori internazionali detengono quasi metà del nostro debito pubblico. Dobbiamo convincerli che abbiamo imboccato la strada di una riduzione graduale ma durevole del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo. Quel rapporto è oggi al medesimo livello al quale era vent'anni fa ed è il terzo più elevato tra i Paesi dell'OCSE. Per raggiungere questo obiettivo intendiamo far leva su tre pilastri: rigore di bilancio, crescita ed equità.
 
Nel ventennio trascorso l'Italia ha fatto molto per riportare in equilibrio i conti pubblici, sebbene alzando l'imposizione fiscale su lavoratori dipendenti e imprese, più che riducendo in modo permanente la spesa pubblica corrente. Tuttavia, quegli sforzi sono stati frustrati dalla mancanza di crescita. L'assenza di crescita ha annullato i sacrifici fatti. Dobbiamo porci obiettivi ambiziosi sul pareggio di bilancio, sulla discesa del rapporto tra debito e PIL. Ma non saremo credibili, neppure nel perseguimento e nel mantenimento di questi obiettivi, se non ricominceremo a crescere.
 
Ciò che occorre fare per ricominciare a crescere è noto da tempo. Gli studi dei migliori centri di ricerca italiani avevano individuato le misure necessarie molto prima che esse venissero recepite nei documenti che in questi mesi abbiamo ricevuto dalle istituzioni europee. Non c'è nessuna originalità europea nell'aver individuato ciò che l'Italia deve fare per crescere di più. È un problema del sistema italiano riuscire a decidere e poi ad attuare quanto noi italiani sapevamo bene fosse necessario per la nostra crescita.
 
Non vediamo i vincoli europei come imposizioni. Anzitutto permettetemi di dire, e me lo sentirete affermare spesso, che non c'è un loro e un noi. L'Europa siamo noi.

Quelli che poi ci vengono in un turbinio di messaggi, di lettere e di deliberazioni dalle istituzioni europee sono per lo più provvedimenti rivolti a rendere meno ingessata l'economia, a facilitare la nascita di nuove imprese e poi indurne la crescita, migliorare l'efficienza dei servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche, favorire l'ingresso nel mondo del lavoro dei giovani e delle donne, le due grandi risorse sprecate del nostro Paese.

L'obiezione che spesso si oppone a queste misure è che esse servono, certo, ma nel breve periodo fanno poco per la crescita. È un'obiezione dietro la quale spesso si maschera - riconosciamolo - chi queste misure non vuole, non tanto perché non hanno effetti sulla crescita nel breve periodo (che è vero che non hanno), ma perché si teme che queste misure ledano gli interessi di qualcuno. Ma, evidentemente, più tardi si comincia, più tardi arriveranno i benefìci delle riforme. Ma, soprattutto, le scelte degli investitori che acquistano i nostri titoli pubblici sono guidate sì da convenienze finanziarie immediate, ma - mettiamocelo in testa - sono guidate anche dalle loro aspettative su come sarà l'Italia fra dieci o vent'anni, quando scadranno i titoli che acquistano oggi.
 
Quindi, non c'è iato la tra le cose che dobbiamo o fare oggi o avviare oggi, anche se avranno effetti lontani, perché anche gli investitori, che ci premiano o ci puniscono, agiscono oggi, ma guardano anche agli effetti lontani.Riforme che hanno effetti anche graduali sulla crescita, influendo sulle aspettative degli investitori, possono riflettersi in una riduzione immediata dei tassi di interesse, con conseguenze positive sulla crescita stessa. I sacrifici necessari per ridurre il debito e per far ripartire la crescita dovranno essere equi. Maggiore sarà l'equità, più accettabili saranno quei provvedimenti e più ampia - mi auguro - sarà la maggioranza che in Parlamento riterrà di poterli sostenere. Equità significa chiedersi quale sia l'effetto delle riforme non solo sulle componenti relativamente forti della società, quelle che hanno la forza di associarsi, ma anche sui giovani e sulle donne. Dobbiamo renderci conto che, se falliremo e se non troveremo la necessaria unità di intenti, la spontanea evoluzione della crisi finanziaria ci sottoporrà tutti, ma soprattutto le fasce più deboli della popolazione, a condizioni ben più dure.
 
La crisi che stiamo vivendo è internazionale; questo è ovvio, ma conviene ripeterlo ogni volta, anche ad evitare demonizzazioni. È internazionale, lo sto dicendo a tutti. Ma l'Italia ne ha risentito in maniera particolare. Secondo la Commissione europea, al termine del prossimo anno il prodotto interno lordo dell'Italia sarebbe ancora quattro punti e mezzo al di sotto del livello raggiunto prima della crisi. Per la stessa data, l'area dell'euro nel suo complesso avrebbe invece recuperato la perdita di prodotto dovuta alla crisi. Francia e Germania raggiungerebbero il traguardo di riportarsi al livello precrisi nell'anno in corso. La relativa debolezza della nostra economia precede l'avvio della crisi.
 
Tra il 2001 e il 2007 il prodotto italiano è cresciuto di 6,7 punti percentuali, contro i 12 della media dell'area dell'euro, i 10,8 della Francia e gli 8,3 della Germania. I risultati sono deludenti al Nord come al Sud. E non vi propongo un paragone con la Cina o con altri Paesi emergenti, ma con i nostri colleghi ed amici stretti della zona euro. La crisi ha colpito più duramente i giovani. Ad esempio, nei 15 Paesi che componevano l'Unione europea fino al 2004, tra il 2007 e il 2010 il tasso di disoccupazione nella classe di età 15-24 anni è aumentato di cinque punti percentuali, in Italia di 7,6 punti percentuali.
 
Il nostro Paese rimane caratterizzato da profonde disparità territoriali. Il lungo periodo di bassa crescita e la crisi le hanno accentuate. Esiste una questione meridionale: infrastrutture, disoccupazione, innovazione, rispetto della legalità.Riforme che hanno effetti anche graduali sulla crescita, influendo sulle aspettative degli investitori, possono riflettersi in una riduzione immediata dei tassi di interesse, con conseguenze positive sulla crescita stessa. I sacrifici necessari per ridurre il debito e per far ripartire la crescita dovranno essere equi. Maggiore sarà l'equità, più accettabili saranno quei provvedimenti e più ampia - mi auguro - sarà la maggioranza che in Parlamento riterrà di poterli sostenere. Equità significa chiedersi quale sia l'effetto delle riforme non solo sulle componenti relativamente forti della società, quelle che hanno la forza di associarsi, ma anche sui giovani e sulle donne. Dobbiamo renderci conto che, se falliremo e se non troveremo la necessaria unità di intenti, la spontanea evoluzione della crisi finanziaria ci sottoporrà tutti, ma soprattutto le fasce più deboli della popolazione, a condizioni ben più dure.
 
La crisi che stiamo vivendo è internazionale; questo è ovvio, ma conviene ripeterlo ogni volta, anche ad evitare demonizzazioni. È internazionale, lo sto dicendo a tutti. Ma l'Italia ne ha risentito in maniera particolare. Secondo la Commissione europea, al termine del prossimo anno il prodotto interno lordo dell'Italia sarebbe ancora quattro punti e mezzo al di sotto del livello raggiunto prima della crisi. Per la stessa data, l'area dell'euro nel suo complesso avrebbe invece recuperato la perdita di prodotto dovuta alla crisi. Francia e Germania raggiungerebbero il traguardo di riportarsi al livello precrisi nell'anno in corso. La relativa debolezza della nostra economia precede l'avvio della crisi.
 
Tra il 2001 e il 2007 il prodotto italiano è cresciuto di 6,7 punti percentuali, contro i 12 della media dell'area dell'euro, i 10,8 della Francia e gli 8,3 della Germania. I risultati sono deludenti al Nord come al Sud. E non vi propongo un paragone con la Cina o con altri Paesi emergenti, ma con i nostri colleghi ed amici stretti della zona euro. La crisi ha colpito più duramente i giovani. Ad esempio, nei 15 Paesi che componevano l'Unione europea fino al 2004, tra il 2007 e il 2010 il tasso di disoccupazione nella classe di età 15-24 anni è aumentato di cinque punti percentuali, in Italia di 7,6 punti percentuali.
 
Il nostro Paese rimane caratterizzato da profonde disparità territoriali. Il lungo periodo di bassa crescita e la crisi le hanno accentuate. Esiste una questione meridionale: infrastrutture, disoccupazione, innovazione, rispetto della legalità.Riforme che hanno effetti anche graduali sulla crescita, influendo sulle aspettative degli investitori, possono riflettersi in una riduzione immediata dei tassi di interesse, con conseguenze positive sulla crescita stessa. I sacrifici necessari per ridurre il debito e per far ripartire la crescita dovranno essere equi. Maggiore sarà l'equità, più accettabili saranno quei provvedimenti e più ampia - mi auguro - sarà la maggioranza che in Parlamento riterrà di poterli sostenere. Equità significa chiedersi quale sia l'effetto delle riforme non solo sulle componenti relativamente forti della società, quelle che hanno la forza di associarsi, ma anche sui giovani e sulle donne. Dobbiamo renderci conto che, se falliremo e se non troveremo la necessaria unità di intenti, la spontanea evoluzione della crisi finanziaria ci sottoporrà tutti, ma soprattutto le fasce più deboli della popolazione, a condizioni ben più dure.
 
La crisi che stiamo vivendo è internazionale; questo è ovvio, ma conviene ripeterlo ogni volta, anche ad evitare demonizzazioni. È internazionale, lo sto dicendo a tutti. Ma l'Italia ne ha risentito in maniera particolare. Secondo la Commissione europea, al termine del prossimo anno il prodotto interno lordo dell'Italia sarebbe ancora quattro punti e mezzo al di sotto del livello raggiunto prima della crisi. Per la stessa data, l'area dell'euro nel suo complesso avrebbe invece recuperato la perdita di prodotto dovuta alla crisi. Francia e Germania raggiungerebbero il traguardo di riportarsi al livello precrisi nell'anno in corso. La relativa debolezza della nostra economia precede l'avvio della crisi.
 
Tra il 2001 e il 2007 il prodotto italiano è cresciuto di 6,7 punti percentuali, contro i 12 della media dell'area dell'euro, i 10,8 della Francia e gli 8,3 della Germania. I risultati sono deludenti al Nord come al Sud. E non vi propongo un paragone con la Cina o con altri Paesi emergenti, ma con i nostri colleghi ed amici stretti della zona euro. La crisi ha colpito più duramente i giovani. Ad esempio, nei 15 Paesi che componevano l'Unione europea fino al 2004, tra il 2007 e il 2010 il tasso di disoccupazione nella classe di età 15-24 anni è aumentato di cinque punti percentuali, in Italia di 7,6 punti percentuali.
 
Il nostro Paese rimane caratterizzato da profonde disparità territoriali. Il lungo periodo di bassa crescita e la crisi le hanno accentuate. Esiste una questione meridionale: infrastrutture, disoccupazione, innovazione, rispetto della legalità.

problemi nel Mezzogiorno vanno affrontati non nella logica del chiedere di più, ma di una razionale modulazione delle risorse.
 
Esiste anche una questione settentrionale: costo della vita, delocalizzazione, nuove povertà, bassa natalità.
 
Il riequilibrio di bilancio, le riforme strutturali e la coesione territoriale richiedono piena e leale collaborazione tra i diversi livelli istituzionali.
 
Occorre riconoscere il valore costituzionale delle autonomie speciali, nel duplice binario della responsabilità e della reciprocità. 
 
In quest'ottica, per rispondere alla richiesta formulata dalle istituzioni territoriali che, devo dire, ho ascoltato con molta attenzione...
 
Se dovete fare una scelta - mi permetto di rivolgermi a tutti - ascoltate, non applaudite!

 Non ripeterò l'importanza del valore costituzionale delle autonomie speciali, perché altrimenti arrivano di nuovo applausi; l'ho già detto e lo avete ascoltato.
 
In quest'ottica - come stavo dicendo - perrispondere alla richiesta formulata dalle istituzioni territoriali nel corso delle consultazioni, ho deciso di assumere direttamente in questa prima fase le competenze relative agli affari regionali. Spero in questo modo di manifestare una consapevolezza condivisa circa il fatto che il lavoro comune con le autonomie territoriali debba proseguire e rafforzarsi, nonostante le difficoltà dell'agenda economica. In tale prospettiva si dovrà operare senza indugio per un uso efficace dei fondi strutturali dell'Unione europea.
Sono consapevole che sarebbe un'ambizione eccessiva da parte mia e da parte nostra pretendere di risolvere in un arco di tempo limitato, qual è quello che ci separa dalla fine di questa legislatura, problemi che hanno origini profonde e che sono radicati in consuetudini e comportamenti consolidati. Ciò che si prefiggiamo di fare è impostare il lavoro, mettere a punto gli strumenti che permettano ai Governi che ci succederanno di proseguire un processo di cambiamento duraturo.
 
Per questo il programma che vi sottopongo oggi si compone di due parti, che hanno obiettivi ed orizzonti temporali diversi. Da un lato, vi è una serie di provvedimenti per affrontare l'emergenza, assicurare la sostenibilità della finanza pubblica, restituire fiducia nelle capacità del nostro Paese di reagire e sostenere una crescita duratura ed equilibrata. Dall'altro lato, si tratta di delineare con iniziative concrete un progetto per modernizzare le strutture economiche e sociali, in modo da ampliare le opportunità per le imprese, i giovani, le donne e tutti i cittadini, in un quadro di ritrovata coesione sociale e territoriale.
 
In considerazione dell'urgenza con la quale abbiamo dovuto operare per la formazione di questo Governo - ed in questo senso voglio ringraziare le diverse forze politiche che, nei miei confronti, figura estranea al vostro mondo, si sono gentilmente e con sollecitudine apprestate all'ascolto e all'offerta di contributi dei quali ho cercato di tenere conto - quello che intendo fare oggi è semplicemente presentarvi gli aspetti essenziali dell'azione che intendiamo svolgere. Se otterremo la fiducia del Parlamento, ciascun Ministro esporrà alle Commissioni parlamentari competenti le politiche attraverso le quali, nei singoli settori, queste azioni verranno avviate.
 
È in discussione in Parlamento una proposta di legge costituzionale per introdurre un vincolo di bilancio in pareggio per le amministrazioni pubbliche, in coerenza con gli impegni presi nell'ambito dell'Eurogruppo.
L'adozione di una regola di questo tipo può contribuire a mantenere nel tempo il pareggio di bilancio programmato per il 2013, evitando che i risultati conseguiti con intense azioni di risanamento vengano erosi negli anni successivi, come è accaduto in passato. Affinché il vincolo sia efficace, dovranno essere chiarite le responsabilità dei singoli livelli di Governo.
 
A questo proposito ed anche in considerazione della complessità della regola, ad esempio l'aggiustamento per il ciclo, sarà opportuno studiare l'esperienza di alcuni Paesi europei che hanno affidato ad autorità indipendenti la valutazione del rispetto sostanziale della regola, dato che in questa materia la credibilità nei confronti di noi stessi e del mondo è un requisito essenziale. Sarà anche necessario attuare rapidamente l'armonizzazione dei bilanci delle amministrazioni pubbliche. Opportunamente la proposta di legge in discussione in Parlamento già prevede l'assegnazione allo Stato della potestà legislativa esclusiva in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici. Nell'immediato daremo piena attuazione alle manovre varate nel corso dell'estate, completandole attraverso interventi in linea con la lettera di intenti inviata alle autorità europee.
 
Nel corso delle prossime settimane valuteremo la necessità di ulteriori correttivi. Una parte significativa della correzione dei saldi programmata durante l'estate è attesa dall'attuazione della riforma dei sistemi fiscale ed assistenziale. Dovremmo pervenire al più presto ad una definizione di tale riforma e ad una valutazione prudenziale dei suoi effetti. Dovranno inoltre essere identificati gli interventi, volti a colmare l'eventuale divario rispetto a quelli indicati nella manovra di bilancio.
 
Di fronte ai sacrifici che sono stati e che dovranno essere richiesti ai cittadini sono ineludibili interventi volti a contenere i costi di funzionamento degli organi elettivi. I soggetti che ricoprono cariche elettive, i dirigenti designati politicamente nelle società di diritto privato, finanziate con risorse pubbliche, più in generale quanti rappresentano le istituzioni ad ogni livello politico ed amministrativo, dovranno agire con sobrietà ed attenzione al contenimento dei costi, dando un segnale concreto ed immediato. Si dovranno rafforzare gli interventi effettuati con le ultime manovre di finanza pubblica, con l'obiettivo di allinearci rapidamente alle best practices europee.
 
Per quanto di mia diretta competenza, avvierò immediatamente una spending review del Fondo unico della Presidenza del Consiglio. Ritengo inoltre necessario ridurre le sovrapposizioni tra i livelli decisionali e favorire la gestione integrata dei servizi per gli Enti locali di minori dimensioni. Il riordino delle competenze delle Province può essere disposto con legge ordinaria. La prevista specifica modifica della Costituzione potrà completare il processo, consentendone la completa eliminazione, così come prevedono gli impegni presi con l'Europa.

 Per garantire la natura strutturale della riduzione delle spese dei Ministeri, decisa con la legge di stabilità, andrà definito rapidamente il programma per la riorganizzazione della spesa, previsto dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, in particolare per quanto riguarda l'integrazione operativa delle agenzie fiscali, la razionalizzazione di tutte le strutture periferiche dell'amministrazione dello Stato, il coordinamento delle attività delle forze dell'ordine, l'accorpamento degli enti della previdenza pubblica, la razionalizzazione dell'organizzazione giudiziaria.
 
Gli interventi saranno coordinati con la spending review in corso, che intendo rafforzare e rendere particolarmente incisiva con la precisa individuazione di tempi e responsabilità. Negli scorsi anni la normativa previdenziale è stata oggetto di ripetuti interventi, che hanno reso a regime il sistema pensionistico italiano tra i più sostenibili in Europa e tra i più capaci di assorbire eventuali shock negativi. Già adesso l'età di pensionamento, nel caso di vecchiaia, tenendo conto delle cosiddette finestre, è superiore a quella dei lavoratori tedeschi e francesi.
 
Il nostro sistema pensionistico rimane però caratterizzato da ampie disparità di trattamento tra diverse generazioni e categorie di lavoratori, nonché da aree ingiustificate di privilegio.
 
Il rispetto delle regole e delle istituzioni e la lotta all'illegalità riceveranno attenzione prioritaria da questo Governo. Per riacquistare fiducia nel futuro dobbiamo avere fiducia nelle istituzioni che caratterizzano uno Stato di diritto, quindi si procederà alla lotta all'evasione fiscale e all'illegalità, non solo per aumentare il gettito (il che non guasta), ma anche per abbattere le aliquote: questo può essere fatto con efficacia prestando particolare attenzione al monitoraggio della ricchezza accumulata (ho detto monitoraggio della ricchezza accumulata) e non solo ai redditi prodotti.
 
L'evasione fiscale continua a essere un fenomeno rilevante: il valore aggiunto sommerso è quantificato nelle statistiche ufficiali in quasi un quinto del prodotto. Interventi incisivi in questo campo possono ridurre il peso dell'aggiustamento sui contribuenti che rispettano le norme. Occorre ulteriormente abbassare la soglia per l'uso del contante, favorire un maggior uso della moneta elettronica, accelerare la condivisione delle informazioni tra le diverse amministrazioni, potenziare e rendere operativi gli strumenti di misurazione induttiva del reddito e migliorare la qualità degli accertamenti.
 
Il decreto legislativo n. 23 del 14 marzo 2011 prevede per il 2014 l'entrata in vigore dell'imposta municipale che assorbirà l'attuale ICI, escludendo tuttavia la prima casa e l'IRPEF sui redditi fondiari da immobili non locati, comprese le relative addizionali. In questa cornice intendiamo riesaminare il peso del prelievo sulla ricchezza immobiliare: tra i principali Paesi europei, l'Italia è caratterizzata da un'imposizione sulla proprietà immobiliare che risulta al confronto particolarmente bassa. L'esenzione dall'ICI delle abitazioni principali costituisce, sempre nel confronto internazionale, una peculiarità - se non vogliamo chiamarla anomalia - del nostro ordinamento tributario.
 
Il primo elenco di cespiti immobiliari da avviare a dismissione sarà definito nei tempi previsti dalla legge di stabilità, cioè entro il 30 aprile 2012. La lettera d'intenti inviata alla Commissione europea prevede proventi di almeno 5 miliardi all'anno nel prossimo triennio. A tale scopo verrà definito un calendario puntuale per i successivi passi del piano di dismissioni e di valorizzazione del patrimonio pubblico. Tuttavia, è necessario volgere tutte le politiche pubbliche, a livello macroeconomico e microeconomico, a sostegno della crescita, sia pure nei limiti determinati dal vincolo di bilancio.
 
La pressione fiscale in Italia è elevata nel confronto storico e in quello internazionale (nel testo scritto che avrete a disposizione si danno ulteriori elementi). Nel tempo e via via che si manifesteranno gli effetti della spending review sarà possibile programmare una graduale riduzione della pressione fiscale; tuttavia anche prima, a parità di gettito, la composizione del prelievo fiscale può essere modificata in modo da renderla più favorevole alla crescita. Coerentemente con il disegno della delega fiscale e della clausola di salvaguardia che la accompagna, una riduzione del peso delle imposte e dei contributi che gravano sul lavoro e sull'attività produttiva, finanziata da un aumento del prelievo sui consumi e sulla proprietà, sosterrebbe la crescita senza incidere sul bilancio pubblico.

mercoledì 16 novembre 2011


IL GIURAMENTO

*

 



Sono emozionata e piena di speranze.

Ed è già un grande sollievo sapere che non ci sono spergiuri tra i ministri del governo Monti. 



 


 

Bozza automatica

lunedì 14 novembre 2011


'La dignità, uno, se non ce l'ha, mica se la può dare'
 



Il "senzadignità" è riapparso ieri per ricordarci che non andrà mai via, non farà mai nemmeno l'ormai famigerato passo indietro, ma continuerà a gravarci addosso per sempre. E dopo di lui, i suoi figli.

Questa "cosa" non è la Democrazia Cristiana: non ne ha pregi, ma i  difetti moltiplicati ed elevati a potenza.

PS. Parafrasando Manzoni



Il "senza dignità" è ricomparso ieri I

sabato 12 novembre 2011


Viva l'Italia!

LE DIMISSIONI DI BERLUSCONI

 
 



  


Viva la Democrazia!

Viva la Costituzione!

Viva la Liberazione e la Dignità!

Viva il nuovo Risorgimento Italiano!

21:42


La LIBERAZIONE alle 21:42 del 12 Novembre 2011. Possiamo finalmente dedicarci alla rinascita e alla ricostruzione per un nuovo RISORGIMENTO.



La speranza, finalmente, può dare forza a progetti lungimiranti e sostenere la volontà di ricostruire, ma non deve offuscare il senso della nostra realtà nazionale, dissestata da lunghi infiniti anni di distruzione politica e morale.

Ricostruire, ricostruire, ricostruire.


Se SLPINDER chiude



Consiglio la lettura di questo post dell'amico Klimt77
.


 

venerdì 11 novembre 2011


11 - 11 - 11


 


San Martino

 










....


Legends of the Fail






 



This is the way the euro ends — not with a bang but with bunga bunga. Not long ago, European leaders were insisting that Greece could and should stay on the euro while paying its debts in full. Now, with Italy falling off a cliff, it’s hard to see how the euro can survive at all.  



But what’s the meaning of the eurodebacle? As always happens when disaster strikes, there’s a rush by ideologues to claim that the disaster vindicates their views. So it’s time to start debunking.



First things first: The attempt to create a common European currency was one of those ideas that cut across the usual ideological lines. It was cheered on by American right-wingers, who saw it as the next best thing to a revived gold standard, and by Britain’s left, which saw it as a big step toward a social-democratic Europe. But it was opposed by British conservatives, who also saw it as a step toward a social-democratic Europe. And it was questioned by American liberals, who worried — rightly, I’d say (but then I would, wouldn’t I?) — about what would happen if countries couldn’t use monetary and fiscal policy to fight recessions.



So now that the euro project is on the rocks, what lessons should we draw?  



I’ve been hearing two claims, both false: that Europe’s woes reflect the failure of welfare states in general, and that Europe’s crisis makes the case for immediate fiscal austerity in the United States.



The assertion that Europe’s crisis proves that the welfare state doesn’t work comes from many Republicans. For example, Mitt Romney has accused President Obama of taking his inspiration from European “socialist democrats” and asserted that “Europe isn’t working in Europe.” The idea, presumably, is that the crisis countries are in trouble because they’re groaning under the burden of high government spending. But the facts say otherwise.  



It’s true that all European countries have more generous social benefits — including universal health care — and higher government spending than America does. But the nations now in crisis don’t have bigger welfare states than the nations doing well — if anything, the correlation runs the other way. Sweden, with its famously high benefits, is a star performer, one of the few countries whose G.D.P. is now higher than it was before the crisis. Meanwhile, before the crisis, “social expenditure” — spending on welfare-state programs — was lower, as a percentage of national income, in all of the nations now in trouble than in Germany, let alone Sweden.



Oh, and Canada, which has universal health care and much more generous aid to the poor than the United States, has weathered the crisis better than we have.



The euro crisis, then, says nothing about the sustainability of the welfare state. But does it make the case for belt-tightening in a depressed economy?



You hear that claim all the time. America, we’re told, had better slash spending right away or we’ll end up like Greece or Italy. Again, however, the facts tell a different story.



First, if you look around the world you see that the big determining factor for interest rates isn’t the level of government debt but whether a government borrows in its own currency. Japan is much more deeply in debt than Italy, but the interest rate on long-term Japanese bonds is only about 1 percent to Italy’s 7 percent. Britain’s fiscal prospects look worse than Spain’s, but Britain can borrow at just a bit over 2 percent, while Spain is paying almost 6 percent.



What has happened, it turns out, is that by going on the euro, Spain and Italy in effect reduced themselves to the status of third-world countries that have to borrow in someone else’s currency, with all the loss of flexibility that implies. In particular, since euro-area countries can’t print money even in an emergency, they’re subject to funding disruptions in a way that nations that kept their own currencies aren’t — and the result is what you see right now. America, which borrows in dollars, doesn’t have that problem.



The other thing you need to know is that in the face of the current crisis, austerity has been a failure everywhere it has been tried: no country with significant debts has managed to slash its way back into the good graces of the financial markets. For example, Ireland is the good boy of Europe, having responded to its debt problems with savage austerity that has driven its unemployment rate to 14 percent. Yet the interest rate on Irish bonds is still above 8 percent — worse than Italy.



The moral of the story, then, is to beware of ideologues who are trying to hijack the European crisis on behalf of their agendas. If we listen to those ideologues, all we’ll end up doing is making our own problems — which are different from Europe’s, but arguably just as severe — even worse.




 









lunedì 7 novembre 2011


DIGNITA'


  


 



La dignità è rispetto, è considerazione, è onore. E' decoro. E' forza morale. E' bellezza.

Scrive Schiller:
" La dignità si manifesta spontaneamente nella virtù, che per il suo stesso contenuto implica il dominio dell'uomo sui propri istinti." (in Grazia e Dignità, SE 2010, pag. 63)

lunedì 24 ottobre 2011

 


 i quattro anni di CZen
giorni d'ottobre



 

 



Quando incontro lo sguardo di Zen e lui indugia ad libitum a fissare i miei occhi, mentre ci scrutiamo a vicenda quasi ricercassimo ciò che vive in chissà quali profondità del nostro essere, cerchaimo forse di comunicare saltando la necessità impossibile della parola umana? Ma sono io che non capisco la sua lingua,  per lui, invece, molte delle mie parole hanno un significato ben chiaro come dimostrano le sue reazioni appropriate  

Non è raro che mi domandi chi sia la piccola creatura bianca che mi vive accanto, che cosa "pensi", che cosa sappia del mondo, che cosa senta, come faccia a indovinare i miei stati d'animo e perché gli riesca così difficile sopportare le mie tristezze e le mie lacrime, e non solo le mie. 

Darwin ne L'origine dell'uomo scriveva: "L'uomo, nella sua arroganza si considera una grande opera, degna dell'intervento della divinità. Più umile e, io credo, più verosimile, è ritenerlo
creato dagli animali". E' questo un nodo cruciale dell'evoluzionismo che mi capita di vivere e rivivere da quando Zen è con me.



 



 


*

 



NOTA. La citazione l'ho presa dal "Dizionario delle idee non comuni" di Armando Massarenti a pagina 11. Ho cercato il testo nel L'origine dell'uomo, dove la frase dovrebbe trovarsi, ma invano. Putroppo Massarenti non indica il posto esatto nell'opera di Darwin, ma commenta dicendo che "questo significa, tra le altre cose, che anche gli animali non umani sono degni di essere rispettati moralmente".

domenica 23 ottobre 2011


Caro don Mazzi

vale atque vale



 


*



Il risveglio dei cattolici nel Paese malato



di Enzo Bianchi

La Repubblica, 22 ottobre 2011



 



In questi ultimi anni abbiamo più volte indicato non solo l' afonia dei cattolici in politica - la debolezza di rilevanza nella progettazione e nella costruzione della polis - ma anche le cause che l' hanno prodotta, tra cui l' intervento diretto in politica di alcuni ecclesiastici e la scelta di agire come un gruppo di pressione. La diaspora dei cattolici in politica all' inizio degli anni Novanta appariva non solo come una necessità motivata ma anche come una preziosa opportunità, una "benedizione": rendeva infatti evidente che la comunità cristiana vive di fede e di coerente comportamento etico, ma non di soluzioni tecniche nella politica e nell' economia. Di fatto però questa diaspora si è ridottaa irrilevanza e, fatto ancor più grave, ha lasciato segni di contrapposizione e forti divisioni tra i cattolici stessi. In tale ambiguità, proprio per l' esposizione diretta avuta da alcune figure rappresentative della Chiesa, questa ha subìto una perdita di credibilità e nella comunità cristiana è apparso, dopo una stagione di grandi convinzioni, un sentimento di scetticismo, di frustrazione, anche di cinismo... Potremmo dire che comunità cristiane depresse sul versante politico, per incarnare comunque il Vangelo hanno scelto di privilegiare una presenza sociale fatta di volontariato, di carità attiva, finendo però anche per aumentare la sfiducia verso la politica. Alcuni hanno tentato di essere "cattolici in politica" senza integralismi e cercando di restare ispirati dalla propria fede. Ma sono stati irrisi come "pretenziosi cattolici adulti", considerati inadeguati alla strategia in atto se non addirittura presenze nocive nel necessario confronto con la polis. Ora il vento è cambiato e ha fatto sentire quanto una certa "aria ammorbata" vada purificata: si ritiene allora opportuno abbandonare la strategia adottata in questi ultimi vent' anni, senza tuttavia confessare gli errori compiuti, senza assumersi alcuna responsabilità per questo impoverimento del tessuto ecclesiale e, di conseguenza, della presenza dei credenti in politica. Ecco allora, ancora una volta, il ricorso alle associazioni cattoliche, minoranze ispirate dalla fede cristiana ancora attive e presenti nel paese, ecco l' appuntamento di Todi. Evento certamente importante, che viene dopo anni di non ascolto reciproco, nonostante da parte dell' autorità ecclesiastica si sia tentato di far cessare guerre e inimicizie tra le varie associazioni già alla fine degli anni Novanta. E il ritrovarsi questa volta è finalizzatoa risponderea una domanda: quale presenza significativa i cattolici possono avere in politica in questo momento giudicato di grave crisi a tutti i livelli per il nostro paese? Ma proprio questo evento suscita anche una domanda di fondo negli appartenenti alle comunità cristiane: perché un incontro su tematiche che riguardano tutti i cittadini cattolici viene riservato invece alle associazioni che, salvo l' Azione Cattolica, peraltro soffrono attualmente di un forte depotenziamento a livello di convinzioni? Più volte in questi vent' anni abbiamo auspicato un "forum" che nelle varie chiese locali raggruppi tutti i cattolici per favorire la conoscenza e il confronto su temi che richiedono una traduzione politica. Abbiamo specificato che questo forum, aperto a rappresentanti di tutte le componenti della Chiesa, dovrebbe, in un dialogo libero e fraterno, cercare ispirazione dal Vangelo e confrontarsi con la dottrina sociale della Chiesa, restando tuttavia su un terreno prepolitico, preeconomico, pregiuridico, nella consapevolezza che la traduzione di queste ispirazioni cristiane messe a fuoco insieme appartiene ai singoli cattolici che devono confrontarsi negli spazi politici in cui sono presenti e con tutti gli altri cittadini. Nessun integralismo, nessuna pressione lobbistica, nessuna imposizione, ma la riaffermazione che essere cattolici in politica significa da un lato restare ispirati e coerenti con la propria fede e, d' altro lato, nel dialogo rispettoso con gli altri cittadini, cercare faticosamente soluzioni politiche, economiche, giuridiche adeguate alle esigenze che si presentano e al bene comune che intende salvaguardare e costruire. Così facendo, se anche i cristiani apparissero una minoranza, non ci sarebbe nulla da temere perché sarebbero una presenza significativa capace di contribuire alla formazione di politici con a cuore il bene comune, alla progettazione di un nuovo patto educativo, all' ideazione di un futuro per le giovani generazioni, una presenza in grado di fornire esigenze etiche di umanizzazione e contributi decisivi in quel confronto di idee e di visioni che oggi purtroppo tanto difetta. Quello di Todi non è stato un forum di questo tipo, anzi: ha rischiato di cedere alle sollecitazioni perché fornisse soluzioni solo politiche e contingenti. Eppure c' erano state alcune indicazioni che avrebbero potuto mettere in guardia i partecipanti, a partire da quelle del segretario della Cei, monsignor Crociata che, ai politici che si dicono cattolici, ha recentemente ricordato che esiste un primato della fede, luce per ogni scelta, una comunione tra cattolici che li precede e che deve manifestarsi nel discernimento di ciò che il Vangelo chiede; ma al contempo ha sottolineato che c' è un diverso ordine che riguarda il carattere contingente della scelta politica di schieramento e la forma politica in cui i cristiani sono chiamati a operare. Nessun partit o c a t t o l i c o , quindi, e neanche "di cattolici" hanno ripetuto diversi vescovi, né tantomeno un "partito della Chiesa". La laicità della politica va assolutamente salvaguardata e i cattolici dovranno inevitabilmente operare con responsabilità una scelta di campo che li renda una "parte" di schieramenti o di spazi politici in cui si collocano. Ma non è questo, per ora, ad apparire decisivo, quanto piuttosto il recuperare le ragioni profonde dell' azione nella polis, il tessere un dialogo nella comunità cristiana per essere muniti di ispirazione, il sapersi collocare nella compagnia degli uomini senza esenzioni ma assumendosi responsabilità, il saper parlare di progetti e ragioni in termini non dogmatici ma semplicemente umani, antropologici, affinché gli altri comprendano e possano confrontarsi liberamente con i cristiani, lasciando poi alle regole della democrazia e ai suoi criteri di determinare le scelte necessarie ai diversi livelli e le esigenze del legiferare per il bene della convivenza. E in questo spazio prepolitico di confronto, i cattolici potrebbero anche imparare un' esigenza fondamentale per la loro fede: l' importanza di non fare letture parziali del Vangelo, privilegiando alcuni principi e valori e dimenticandone altri... Secondo Paul Valadier, lo statuto del cristianesimo è quello di essere una "religione anormale": perché per ogni cristiano il rispetto assoluto della vita umana, il rifiuto della guerra, la salvaguardia della pace, la giustizia e l' eguaglianza sociale, il perdono del nemico, la riconciliazione nei conflitti sono tutti valori irrinunciabili. Impresa non facile certo, soprattutto in una stagione in cui riemerge l' atavica tentazione della religione: andarea braccetto con il potere politico finché il vento non cambia direzione. - ENZO BIANCHI  

mercoledì 19 ottobre 2011


Andrea Zanzotto

A che valse l'attesa del gioco?

 



A che valse l'attesa del gioco?
I compagni mancavano
o distratti seguivano dall'alto
il volo oscuro dei pianeti.
La notte circola ormai
consuma il settentrione
ma non la tua presenza
vasta come il candore
di stanze senza tramonto.

Questo fuoco non sa più
riscaldare
è divenuto un monile
sottile e falso
la muffa e il musco dei tuoi piedi
ha fatto le corti basse
dove mi sciolgo e mi ascolto
la neve è qui nella sua bara.

Le ceneri sono le forme
del tuo sorriso dipinto
in ogni sembianza sviene e si suggella
i cui lumi già fievoli si negano in tristi orizzonti.


Il fiume della notte
s'ingolfa neller grate e nelle botole.


 da A che valse?

martedì 18 ottobre 2011



Il potere in maschera

di BARBARA SPINELLI

La Repubblica, 18 ottobre 2011

 



Ampia profonda chiarissima la disamina di Barbara Spinelli, sempre fedele all'impegno della parresia.


Che l'Italia fosse un campione anomalo nel novero delle democrazie lo si sapeva già. Ce ne accorgiamo ogni volta che qualche straniero, di sinistra o destra, ci guarda sbigottito - o meglio ci squadra - e dice: "Non è Berlusconi, il rebus. Il rebus siete voi che non sapete metterlo da parte". Tutto questo è noto, e spesso capita di pensare che il fondo sia davvero stato raggiunto, che più giù non si possa scendere. Invece si può, tutti sappiamo che il fondo, per definizione, può esser senza fondo. C'è sempre ancora un precipizio in agguato, e incessanti sono i bassifondi se con le tue forze non ne esci, magari tirandoti su per i capelli. L'ultimo precipizio lo abbiamo vissuto tra sabato e lunedì.

Una manifestazione organizzata in più di 900 città del mondo
, indignata contro i governi che non sanno dominare la crisi economica senza distruggere le società, degenera a Roma, solo a Roma, per colpa di qualche centinaio di black bloc che in tutta calma hanno potuto preparare un attacco bellico congegnato alla perfezione, condurlo impunemente per ore, ottenere infine quel che volevano: rovinare una protesta importante, e fare in modo che l'attenzione di tutti - telegiornali, stampa, politici - si concentrasse sulla città messa a ferro e fuoco, sul cosiddetto inferno, anziché su quel che il movimento voleva dire a proposito della crisi e delle abnormi diseguaglianze che produce fra classi e generazioni. Il primo precipizio è questo: torna la questione sociale, e subito è declassata a questione militare, di ordine pubblico.

  Il secondo precipizio è la pubblicazione, ieri su Repubblica, di un colloquio telefonico 1 avvenuto nell'ottobre 2009 fra Berlusconi e tale signor Valter Lavitola, detto anche faccendiere o giornalista: un opaco personaggio che il capo del governo tratta come confidente, che la segretaria del premier tranquillizza con deferenza. Nessuno può dirgli di no, perché sempre dice: "Mi manda il Capo". Lo si tocca con mano, il potere - malavitosamente sommerso - che ha sul premier e dunque sulla Politica. È a lui che Berlusconi dice la frase, inaudita: "Siamo in una situazione per cui o io lascio oppure facciamo la rivoluzione, ma vera... Portiamo in piazza milioni di persone, cacciamo fuori il palazzo di giustizia di Milano, assediamo Repubblica e cose di questo genere". E riferendosi alla sentenza della Consulta che gli ha appena negato l'impunità: "Hai visto la Corte costituzionale? ha detto che io conto esattamente come i ministri".

Lavitola non è un eletto, né (suppongo) una gran mente. Ma un'autorità la possiede, se è a lui che il premier confida il proposito di ricorrere al golpe che disarticola lo Stato. È una vecchia tentazione che da sempre apparenta il suo dire a quello dei brigatisti, e per questo la parola prediletta è rivoluzione: contro i magistrati che indagano su possibili suoi reati (già prima che entrasse in politica) o contro i giornali da accerchiare, con forze di polizia o magari usando le ronde inventate dai leghisti. Sono due precipizi - il sequestro di una manifestazione ad opera dei black bloc, l'appello berlusconiano al golpe rivoluzionario - che hanno in comune non poche cose: il linguaggio bellico, le questioni sociali prima ignorate poi dirottate. E non l'esercizio ma la presa del potere; non la piazza democratica ascoltata come a Madrid o New York ma distrutta. Anche l'attacco dei Nerovestiti era inteso ad assediare i giornali su cui scriviamo. A storcere i titoli di prima pagina del giorno dopo, a imporci bavagli.

La guerra fa precisamente questo, specie se rivoluzionaria. Nazionalizza le esistenze, le frantuma separandole in due tronconi: da una parte gli individui spaventati che si rifugiano nel chiuso casalingo; dall'altra la società declassata, chiamata a compattarsi contro il nemico. Scompare la vita civile, e con essa lo spazio di discussione democratica, l'agorà. Tra il Capo militare e la folla: il nulla. È la morte della politica.
Dovremmo aprire gli occhi su queste cateratte; su questo alveo fiumano che digrada da anni ininterrottamente. Dovremmo non stancarci mai di vedere nel conflitto d'interessi il male che ci guasta interiormente, e non accettarlo mai più: quale che sia il manager che con la scusa della politica annientata si farà forte della propria estraneità alla politica. Dovremmo dirla meglio, la melmosa contiguità fra i due atti di guerra: le telefonate in cui Berlusconi si affida a un buio trafficante aggirando tutti i poteri visibili, e i black bloc che sequestrano i manifestanti ferendone le esasperate speranze. Tra le somiglianze ce n'è una, che più di tutte colpisce: ambedue i poteri sono occulti. Ambedue sono incappucciati.

È dagli inizi degli anni '80 che andiamo avanti così, con uno Stato parallelo, subacqueo, che decide sull'Italia. Peggio: è dalla fine degli anni '70, quando i 967 affiliati-incappucciati della loggia massonica P2 idearono il "Piano di Rinascita". Il Paese che oggi abitiamo è frutto di quel Piano, è la rivoluzione berlusconiana pronta a far fuori palazzi di giustizia e giornali. Sono anni che il capo di Fininvest promette la democrazia sostanziale anziché legale (parlavano così le destre pre-fasciste nell'Europa del primo dopoguerra) e sostiene che la sovranità del popolo prevale su tutto. Non è vero: la res publica non è stata in mano al popolo elettore, neanche quando il leader era forte. Sin da principio era in mano a poteri mascherati, a personaggi che il Capo andava a scovare all'incrocio con mafie che di nascosto ricattano, minacciano, non si conoscono l'un l'altra, come nei Piani della P2.

Non a caso è sotto il suo regno che nasce una legge elettorale che esautora l'elettore, polverizzando la sovranità del popolo. Non spetta a quest'ultimo scegliere i propri rappresentanti - lo ha ricordato anche il capo dello Stato, il 30 settembre - ma ai cacicchi dei partiti e a clan invisibili. Se ne è avuta la prova nei giorni scorsi, quando Berlusconi ha chiamato i suoi parlamentari a dargli la fiducia: "Senza di me - ha detto - nessuno di voi ha un futuro". Singolare dichiarazione: non era il popolo sovrano a determinare il futuro, nella sua vulgata? Basta una frase così, non tanto egolatrica quanto clanicamente allusiva, per screditare un politico a vita.

La sensazione di piombare sempre più in basso aumenta anche a causa dell'opposizione: del suo attonito silenzio - anche - di fronte alla manifestazione democratica deturpata. D'improvviso non c'è stato più nessuno a difendere gli indignati italiani, e gli incappucciati hanno vinto. Non è rimasto che Mario Draghi, a mostrare passione politica e a dire le parole che aiutano: "I giovani hanno ragione a essere indignati (...) Se la prendono con la finanza come capro espiatorio, li capisco, hanno aspettato tanto: noi all'età loro non l'abbiamo fatto". E proprio perché ha capito, ha commentato amaramente ("È un gran peccato") la manifestazione truffata. Nessun politico italiano ha parlato con tanta chiarezza.

La minaccia alla nostra democrazia viene dagli incappucciati: d'ogni tipo. Vale la pena riascoltare quel che disse Norberto Bobbio, poco dopo la conclusione dell'inchiesta presieduta da Tina Anselmi sulle attività della P2. Il testo s'intitolava significativamente "Il potere in maschera": lo stesso potere che oggi pare circondarci d'ogni parte. Ecco quel che diceva, che tuttora ci dice: "Molte sono le promesse non mantenute dalla democrazia reale rispetto alla democrazia ideale. E la graduale sostituzione della rappresentanza degli interessi alla rappresentanza politica è una di queste. Ma rientra insieme con altre nel capitolo generale delle cosiddette trasformazioni della Democrazia. Il potere occulto no. Non trasforma la Democrazia, la perverte. Non la colpisce più o meno gravemente in uno dei suoi organi vitali, la uccide. Lo Stato invisibile è l'antitesi radicale della Democrazia".



(18 ottobre 2011) © Riproduzione riservata  





   

lunedì 17 ottobre 2011


ANTISEMITISMO OGGI

Il 44 % degli italiani "ostile" agli ebrei
L'antisemitismo si diffonde sul web

L'indagine parlamentare conoscitiva rivela che on line si va estendendo l'idea che non è razzismo essere antisemiti. Oltre mille siti (+ 40%) dedicati alla diffusione dell'odio antiebraicodi ALBERTO CUSTODERO
La Repubblica, 16 ottobre 2011
 

 

 

  
 Shoah: Anniversario deportazione Ghetto di Roma del 16 ottobre '43

*



 «La grande razzia nel vecchio Ghetto di Roma cominciò attorno alle 5,30 del 16 ottobre 1943. Oltre cento tedeschi armati di mitra circondarono il quartiere ebraico. Contemporaneamente altri duecento militari si distribuirono nelle 26 zone operative in cui il Comando tedesco aveva diviso la città alla ricerca di altre vittime. Quando il gigantesco rastrellamento si concluse erano stati catturati 1022 ebrei romani. 



Due giorni dopo in 18 vagoni piombati furono tutti trasferiti ad Auschwitz. Solo 15 di loro sono tornati alla fine del conflitto: 14 uomini e una donna. 
Tutti gli altri 1066 sono morti in gran parte appena arrivati, nelle camere a gas. Nessuno degli oltre duecento bambini è sopravvissuto.»
(F. Cohen, 16 ottobre 1943. La grande razzia degli ebrei di Roma)

sabato 15 ottobre 2011


ITALO CALVINO

 

oggi avrebbe festeggiato il suo 88° compleanno

 

 



e Google lo ricorda così ...
 





 


LA PENA DI MORTE NEGLI STATI UNITI
Un'abolizione de facto?

 
 
Raffaello Sanzio_La Giustizia_Stanza della Segnatura_Vaticano_da Wikipedia 

The Death Penalty’s De Facto Abolition




 



A new Gallup poll reports that support for the death penalty is at its lowest level since 1972. In fact, though, the decline, from a high of 80 percent in 1994 to 61 percent now, masks both Americans’ ambivalence about capital punishment and the country’s de facto abolition of the penalty in most places.



When Gallup gave people a choice a year ago between sentencing a murderer to death or life without parole, an option in each of the 34 states that have the death penalty, only 49 percent chose capital punishment.
 



That striking difference suggests that more Americans are recognizing that killing a prisoner is not the only way to make sure he is never released, that the death penalty cannot be made to comply with the Constitution and that it is in every way indefensible. But there are other numbers that tell a more compelling story about the national discomfort with executions.



From their annual high points since the penalty was reinstated 35 years ago, the number executed has dropped by half, and the number sentenced to death has dropped by almost two-thirds. Sixteen states don’t allow the penalty, and eight of the states that do have not carried out an execution in 12 years or more. There is more.



Only one-seventh of the nation’s 3,147 counties have carried out an execution since 1976. Counties with one-eighth of the American population produce two-thirds of the sentences. As a result, the death penalty is the embodiment of arbitrariness. Texas, for example, in the past generation, has executed five times as many people as Virginia, the next closest state. But the penalty is used heavily in just four of Texas’s 254 counties.



Opposition to capital punishment has built from the ground up. It is evident in the greater part of America’s counties where people realize that, in addition to being barbaric, capricious and prohibitively expensive, the death penalty does not reflect their values.   
 




 



A new Gallup poll reports that support for the death penalty is at its lowest level since 1972. In fact, though, the decline, from a high of 80 percent in 1994 to 61 percent now, masks both Americans’ ambivalence about capital punishment and the country’s de facto abolition of the penalty in most places.



When Gallup gave people a choice a year ago between sentencing a murderer to death or life without parole, an option in each of the 34 states that have the death penalty, only 49 percent chose capital punishment.  



 


venerdì 14 ottobre 2011


DON ANDREA GALLO

 

 



“Don Andrea Gallo, prete da marciapiede come lui stesso si definisce, è uno dei sacerdoti più noti e più amati che abitino il nostro disastrato paese. Centinaia di migliaia di persone lo sentono come un fratello, moltissimi fra costoro lo considerano una guida, un maestro, un compagno nell’accezione militante del termine, ma il Gallo è prima di tutto e soprattutto un essere umano autentico. In yiddish si dice «a mentsch». La nostra nascita nel mondo come donne e uomini è un evento deciso da altri anche se la costruzione in noi del capolavoro che è un essere umano autentico dipende in gran parte dalle nostre scelte. Il tratto saliente di questo percorso è l’apertura all’altro laddove si manifesta nella sua più intima e lancinante verità, ovvero nella sua dimensione di ultimo, sia egli l’oppresso, il relitto, il povero, l’emarginato, il disprezzato, l’escluso, il segregato, il diverso. ... " Moni Ovadia

* Dalla prefazione di Moni Ovadia a“Se non ora, adesso. Le donne, i giovani e la rivoluzione sessuale”, l’ultimo libro di don Andrea Gallo, in uscita per Chiarelettere.  
Tutta la prefazione è pubblicata da
il Fatto Quotidiano: QUI .
 




 

mercoledì 12 ottobre 2011


INDIGNADOS A NEW YORK

*

 
ribelli tra i templi dello shopping
Guarda le foto

 



Finalmente! Mi domando, però, come mai gli elettori si orientino verso il partito Repubblicano che è il vero responsabile di questa crisi, a cominciare dalle idee economiche di Ronald Reagan e della sua omologa in Europa, Margaret Thatcher.



Corriere della Sera, 11 ottobre 2011



  

 

martedì 4 ottobre 2011


 e intanto esiste un universo

 

Nobel per la Fisica 2011
NASA, via Agence France-Presse - Getty Images

An exploding star known as Type 1a supernova. The Nobel prize winners used them to measure the expansion of the universe.  (
New York Times October 4, 2011) 
 



Uno sguardo ogni tanto può senz'altro ridimensionarci e aprirci gli occhi della mente offuscati dalle claustrofobiche strettoie di obiettivi senza valore e spesso sostanzialmente criminali.




 

sabato 1 ottobre 2011


NO AL BAVAGLIO

 

NO ALLE LIMITAZIONI TIRANNICHE DELLA LIBERTA' DI ESPRESSIONE E  INRFORMAZIONE 

martedì 27 settembre 2011


Flying Over Planet Earth 

 Miniatura

What does it feel like to fly over planet Earth?  


Image Credit:
NASA; Acknowledgement: Infinity Imagined 

Explanation: Have you ever dreamed of flying high above the Earth? Astronauts visiting the International Space Station do this every day, circling our restless planet twice every three hours. A dramatic example of their view was compiled in the above time-lapse video from images taken earlier this month. As the ISS speeds into the nighttime half of the globe, familiar constellations of stars remain visible above. An aerosol haze of Earth's thin atmosphere is visible on the horizon as an thin multi-colored ring. Many wonders whiz by below, including vast banks of white clouds, large stretches of deep blue sea, land lit up by the lights of big cities and small towns, and storm clouds flashing with lightning. The video starts over the northern Pacific Ocean and then passes from western North America to western South America, ending near Antarctica as daylight finally approaches.  






 


 


 Flying Over Planet Earth 
 

domenica 25 settembre 2011

giovedì 1 settembre 2011


Voglio conoscere quale Dio si candida alla Casa Bianca
di Bill Keller



 La Repubblica” del 1° settembre 2011 

(AIUTO!!!!!!!!!!!!!!!)


 



Immaginiamo che un candidato alla presidenza Usa affermi di credere che gli alieni arrivati dallo spazio dimorano tra noi: questo influirebbe sulla vostra propensione a votare per lui? Per quanto mi riguarda, potrei non escluderlo su due piedi. Una preponderanza di americani è convinta che i Visitor siano già arrivati tra noi, e del resto, chissà… In ogni caso, di sicuro rivolgerei a questo candidato alcune domande. Per esempio: da dove attinge tale informazione? Comunica con gli alieni? Sa se hanno un piano economico?

E invece, quando si tratta di convinzioni religiose dei
nostri candidati alla presidenza, siamo sempre un po' riluttanti a indagare troppo aggressivamente in queste faccende. Durante la riunione del Partito repubblicano dell'Iowa a Michele Bachmann è stato chiesto che cosa intendesse dire quando ha affermato che la Bibbia la obbliga a "essere sottomessa" al marito.
Di lì a poco si sono sentiti parecchi fischi. Sia chiaro: per la domanda, non per la risposta.

Prevale la sensazione, avvalorata dagli stessi candidati, che il rapporto tra un candidato e il suo Dio sia terreno alquanto delicato, addirittura privilegiato, tranne quando può tornare utile per mobilitare la base dei fedeli e aprirne il portafogli. La stagione delle primarie di quest'anno del partito repubblicano ci offre
un'occasione interessante per affrontare i nostri scrupoli inerenti alla riservatezza della religiosità nella vita pubblica.
E per superarli. C'è un numero insolitamente grande di candidati, tra i quali anche presunti favoriti, che appartengono a confessioni religiose misteriose o quanto meno sospette a molti americani.

Mitt Romney e Jon Huntsman sono mormoni, quindi appartengono a una confessione religiosa che molti cristiani conservatori hanno appreso essere un "culto". Molti altri la giudicano semplicemente eccentrica. (Huntsman assicura di non essere "eccessivamente religioso"). Rick Perry,

Michele Bachmann e Rick Santorum sono tutti affiliati a un vivace sottoinsieme di chiese cristianoevangeliche, peculiarità che ha sollevato preoccupazioni in merito al loro concetto di separazione tra Chiesa e Stato, per non parlare della separazione tra fatti e fiction.

Francamente, non mi interessa se sotto i jeans aderenti di Gap Mitt Romney indossi biancheria approvata dai mormoni, né se crede che le storie degli antichi profeti americani siano state incise su tavole d'oro e sepolte in Upstate New York. E nemmeno se il profeta che fondò il mormonismo praticò davvero la poligamia (in seguito sconfessata dalla chiesa nel 1890).

Ogni dottrina religiosa ha una sua eredità spirituale. Ogni dottrina religiosa ha propri principi che appariranno sempre stravaganti a chi non ne fa parte. Io sono cresciuto credendo che un sacerdote potesse trasformare un'ostia nella carne vera di Cristo. Tuttavia, non mi interessa sapere se un candidato ripone fedeltà nella Bibbia, nel Libro dei Mormoni (il testo sacro, non il musical di Broadway), o in qualche autorità più in alto rispetto alla Costituzione e alle leggi di questo paese.

A me interessa che un presidente rispetti la vera scienza e la storia documentabile. Insomma, che appartenga a quella che un funzionario di un'amministrazione precedente una volta definì sprezzantemente "la comunità radicata nella realtà". Mi interessa che una dottrina religiosa non diventi un pretesto per escludere alcuni miei connazionali dai diritti e dalle tutele che il nostro paese garantisce. E mi interessa moltissimo se un candidato diventa una sorta di cavallo di Troia per una setta che crede di aver ricevuto direttamente da dio istruzioni su come dovremmo essere governati.

Di conseguenza, quest'autunno presterò una maggiore attenzione a ciò che i candidati diranno a proposito della loro fede religiosa, e a ciò che hanno detto in passato e potrebbero decidere di minimizzare nel tentativo di riscuotere maggiore rispettabilità presso le masse.

Dal suo illuminante profilo tracciato sul New Yorker da Ryan Lizza, ho appreso per esempio che tra chi ha ascendente su Michele Bachmann ci sono mentori spirituali e politici che predicano l'"infallibilità" letterale della Bibbia, persone secondo le quali i cristiani dovrebbero diffidare delle idee proposte da chi non è cristiano, che credono che l'omosessualità sia un'"infamia", che raffigurano il Sud di prima della Guerra civile come un bel posticino per gli schiavi, e che invocano il "dominionismo", il principio secondo cui ogni istituzione della Terra dovrebbe essere guidata da
cristiani, e solo da loro.

Avendo letto alcuni articoli sul Texas Observer e sul Texas Monthly, ho scoperto che i sostenitori dominionisti di Rick Perry, tra i quali vi sono anche molti evangelisti, hanno ricevuto dal medesimo un ruolo di primo piano nell'enorme raduno di preghiera da lui organizzato all'inizio di questo mese e denominato "the Response".

Per quanto ne so, né Bachmann né Perry hanno giurato fedeltà ai dominionisti. Forse sono loro sfuggiti alcuni brani nei libri e nelle prediche dei loro fratelli spirituali. I miei amici texani ben informati mi hanno spiegato che il rapporto di Perry con questa frangia spirituale è puramente pragmatico, e che è molto più probabile che sia lui a dominare il movimento del contrario. In ogni caso, come abbiamo visto già per il Tea Party (altro movimento politico cavalcato da Perry agli inizi), il sostegno di un gruppo di elettori non è esente da pastoie né da conseguenze.

A ogni buon conto informiamoci, chiediamo. Nell'ultima campagna per le presidenziali sul candidato Barack Obama sono state esercitate notevoli pressioni affinché egli prendesse le distanze dal suo pastore, che portava alle estreme conseguenze il risentimento razziale. Il candidato John McCain, invece, è stato costretto a rifiutare il sostegno di un predicatore che aveva offeso cattolici
ed ebrei. Non vedo proprio, di conseguenza, perché Perry e Bachmann dovrebbero essere esentati da una simile serie di domande.

Rivolgere domande ai candidati, in modo educato, per ottenere informazioni sulla loro fede religiosa non dovrebbe servire da pretesto per diventare bigotti o paranoici. Ricordo ancora quando da bambino, cresciuto nella Chiesa cattolica, mi sentii disorientato e ferito dalle varie congetture che si facevano sul cattolicesimo di John Kennedy e in particolar modo se egli dovesse prendere ordini dal Vaticano. (Kennedy affrontò e liquidò in buona parte la questione della sua fede religiosa, come ha cercato di fare anche Romney nel 2007 con un discorso nel quale sottolineò ciò che il suo orientamento religioso ha in comune con le confessioni cristiane più in voga).

Naturalmente, informarci sulla fede religiosa di un candidato non dovrebbe distoglierci dal riporre attenzione anche ai temi dell'economia e della guerra. Vale nondimeno la pena appurare se un candidato ha una mentalità aperta nei confronti di notizie che non rientrano scrupolosamente tra i suoi preconcetti.

Giusto per smuovere le acque, ho spedito ai candidati succitati un piccolo questionario. Queste sono alcune delle domande che vi compaiono:

 




  • È d'accordo con quegli esponenti religiosi che affermano che l'America è una "nazione cristiana" o "giudeo-cristiana"? Che cosa significa ciò in pratica?


  • Avrebbe qualche esitazione a nominare un musulmano a un seggio federale? E un ateo?


  • Qual è la sua posizione nei confronti della teoria dell'evoluzione? Crede che la si dovrebbe insegnare nelle scuole pubbliche?
     



Oltre a ciò, ho rivolto anche domande specifiche ai vari candidati. Ho chiesto al governatore Perry di spiegare i suoi rapporti con David Barton, fondatore del movimento evangelico WallBuilders, che predica che l'America dovrebbe avere un governo "fermamente radicato nei principi della Bibbia" e che la Bibbia offre esplicitamente consigli su come governare, per esempio anche in tema di fisco.
Giacché Barton in passato ha dato il proprio appoggio a Perry, sarebbe interessante sapere se il governatore è in disaccordo con lui.

E che dire di John Hagee, l'evangelista texano che ha definito il cattolicesimo una "teologia senza dio dell'odio", e che ha dichiarato che l'Olocausto rientrava nei piani divini per mandare gli ebrei in Palestina? Nella campagna del 2008, McCain disconobbe l'appoggio datogli da Hagee. Questa volta, si è saputo che il predicatore ha deciso di concedere ufficialmente la propria benedizione alla campagna di Perry. Mi chiedo se sarà accolta.

In una mia lettera alla repubblicana Bachmann le ho chiesto informazioni in merito al documentario  prodotto l'anno scorso da un gruppo oggi noto come "Truth in Action Ministries", nel quale lei sposava l'idea che tutti i soldi destinati al social welfare dovessero provenire da donazioni volontarie, e non dalle tasse governative. È dunque questo uno degli obiettivi che si prefigge di raggiungere qualora fosse eletta alla presidenza? Infine, sono curioso di sapere se continua a raccomandare quella biografia di Robert E. Lee scritta da J. Steven Wilkins, nella quale si sostiene
che la Guerra civile fu uno scontro tra il Sud cristiano e il Nord senza dio. Wilkins scrive infatti che nel Sud, contrariamente all'idea che ci si è fatti di schiavi vittime, prevalsero "unità e amicizia tra le razze", in quanto esse condivisero un'unica fede.

Sul sito nytimes.com posteremo le risposte dei candidati, se ne arriveranno. E se non risponderanno, continueremo a rivolgere loro sempre le stesse domande. Quelle che riguardano la fede religiosa, infatti, sono faccende davvero molto importanti.
 
Traduzione di Anna Bissanti

(Bill Keller è direttore esecutivo del New York Times)

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