giovedì 27 luglio 2006


Fino a quando?
Eduardo Galeano




Un paese ne bombarda due. L'impunità potrebbe meravigliare se non fosse costume normale. Qualche timida protesta in cui si dice di errori. Fino a quando gli orrori continueranno a chiamarsi errori? Questo macello di civili si è scatenato a partire dal sequestro di un soldato. Fino a quando il sequestro di un soldato israeliano potrà giustificare il sequestro della sovranità palestinese? Fino a quando il sequestro di due soldati israeliani potrà giustificare il sequestro del Libano intero? La caccia all'ebreo è stata, per secoli, lo sport preferito degli europei. Sboccò ad Auschwitz un vecchio fiume di terrori, che aveva attraversato tutta Europa. Fino a quando i palestinesi e altri arabi continueranno a pagare per delitti che non hanno commesso?


Quando Israele spianò il Libano nelle sue precedenti invasioni, Hezbollah non esisteva.


Fino a quando continueremo a credere alla favola dell'aggressore aggredito, che pratica il terrorismo perché ha diritto a difendersi dal terrorismo? Iraq, Afghanistan, Palestina, Libano... Fino a quando si potrà continuare a sterminare paesi impunemente? Le torture di Abu Ghraib, che hanno sollevato un qual certo malessere universale, non sono niente di nuovo per noi latinoamericani. I nostri militari hanno appreso quelle tecniche di interrogatorio nella School of Americas, che oggi ha perso il nome ma non il vizio.


Fino a quando continueremo ad accettare che la tortura continui a legittimarsi, come ha fatto la corte suprema di Israele, in nome della legittima difesa della patria? Israele ha ignorato quarantasei raccomandazioni dell'Assemblea generale e di altri organismi delle Nazioni unite.


Fino a quando il governo israeliano continuerà a esercitare il privilegio d'essere sordo? Le Nazioni unite raccomandano, però non decidono. Quando decidono, la Casa Bianca impedisce che decidano, perché ha diritto di veto. La Casa Bianca ha posto il veto, nel consiglio di sicurezza, a quaranta risoluzioni che condannavano Israele.


Fino a quando le Nazioni unite continueranno a comportarsi come se fossero uno pseudonimo degli Stati uniti? Da quando i palestinesi sono stati cacciati dalle loro case e spogliati della loro terra, è corso molto sangue.


Fino a quando continuerà a correre il sangue perché la forza giustifichi ciò che il diritto nega? La storia si ripete, giorno dopo giorno, anno dopo anno, e muore un israeliano ogni dieci arabi morti.


Fino a quando la vita di ogni israeliano continuerà a valere dieci volte di più? In proporzione alla popolazione, i cinquantamila civili, in maggioranza donne e bambini, morti in Iraq equivalgono a ottocentomila statunitensi.


Fino a quando accetteremo, come se fosse normale, la mattanza degli iracheni in una guerra cieca che ha ormai dimenticato i suoi pretesti?


Fino a quando continuerà ad essere normale che i vivi e i morti siano di prima, seconda, terza o quarta categoria? L'Iran sta sviluppando l'energia nucleare.


Fino a quando continueremo a credere che ciò basta a provare che un paese è un pericolo per l'umanità? La cosiddetta comunità internazionale non è per nulla angustiata dal fatto che Israele possieda 250 bombe atomiche, nonostante sia un paese che vive sull'orlo di una crisi di nervi. Chi maneggia il pericolosimetro universale? Sarà stato l'Iran il paese che buttò le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki? Nell'era della globalizzazione, il diritto di pressione è più forte di quello di espressione. Per giustificare l'occupazione illegale di terre palestinesi, la guerra viene chiamata pace. Gli israeliani sono patrioti e i palestinesi terroristi, e i terroristi seminano allarme universale.


Fino a quando i mezzi di comunicazione continueranno a seminare paura? Questa mattanza, che non è la prima e temo non sarà l'ultima, accade in silenzio. Il mondo è diventato muto?


Fino a quando le voci dell'indignazione continueranno a suonare come campane di legno? Questi bombardamenti uccidono bambini: più di un terzo delle vittime, non meno della metà. Chi si azzarda a denunciarlo è accusato di antisemitismo.


Fino a quando continueremo ad essere antisemiti, noi che critichiamo il terrorismo di stato?


Fino a quando accetteremo questa estorsione? Sono antisemiti gli ebrei che inorridiscono per quanto viene fatto in loro nome? Sono antisemiti gli arabi, tanto semiti quanto gli ebrei? Per caso non ci sono voci arabe che difendono la patria palestinese e ripudiano il manicomio fondamentalista? I terroristi si somigliano tra loro: i terroristi di stato, rispettabili uomini di governo, e i terroristi privati, che sono matti singoli e matti organizzati dai tempi della guerra fredda al totalitarismo comunista. E tutti agiscono in nome di dio, si chiami Dio, Allah o Jahvé.


Fino a quando continueremo a ignorare che tutti i terrorismi disprezzano la vita umana e che tutti si alimentano tra loro? Non è evidente che in questa guerra tra Israele e Hezbollah sono i civili - libanesi, palestinesi, israeliani - quelli che ci mettono i morti? Non è evidente che le guerre di Afghanistan e Iraq e le invasioni di Gaza e del Libano sono incubatrici di odio, fabbriche di fanatici in serie? Siamo l'unica specie animale specializzata nello sterminio reciproco. Destiniamo duemila e cinquecento milioni di dollari, ogni giorno, alle spese militari. La miseria e la guerra sono figlie dello stesso padre: come qualche dio crudele, mangia i vivi e anche i morti.


Fino a quando continueremo ad accettare che questo mondo innamorato della morte è il nostro unico mondo possibile?


Copyright Ips/il manifesto  - 26 luglio 2006 - >>>>> --- Foto: <<<<<


Non sembra questo articolo di Galeano una tragica dimostrazione, atroce punto per atroce punto, di quello che Hillman chiama "un terribile amore per la guerra" e del fatto che ancora "la guerra è normale" nella storia umana?


Non è questa realistica analisi di Galeano, sulla scia dell'analisi di Hillman dall'interno e dal profondo della nostra struttura psichica, una spinta a capire che la pulsione di morte è dentro di noi e che dobbiamo liberarcene a partire da questa consapevolezza? E non è la guerra l'acme sciagurata della pulsione di morte, all'infinito ripetuta, come folle coazione a ripetere?


Nel frattempo si sono moltiplicate le persone coscienti della necessità etica e pratica, comunque imprescindibile, di cancellare la guerra dalla nostra vita e dalla nostra storia. E il loro numero continua a crescere. E' la prospettiva di una rivoluzione radicale, di una svolta a U della storia, come altre volte è accaduto nel corso dell'evoluzione. 


La rivoluzione più grande e più attesa. Una vera e propria mutazione psicologica e, direi, anche genetica.

giovedì 20 luglio 2006

Un terribile amore per la guerra


di James Hillman


Il Signore è un gran guerriero;
il suo Nome è il Signore.
Esodo, 15, 3



La guerra è normale  


C'è una battuta in una scena del film Patton, generale d'acciaio, che da sola riassume ciò che questo libro si propone di capire. Il generale Pattonispeziona il campo dopo una battaglia. Terra sconvolta, carri armati distrutti dal fuoco, cadaveri. Il generale solleva tra le braccia un ufficiale morente, lo bacia e, volgendo lo sguardo su quella devastazione, esclama: "Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita".


   Se non entriamo dentro questo amore per la guerra non riusciremo mai a prevenirla né a parlare in modo sensato di pace e disarmo. Se non spingiamo l'immaginazione dentro lo stato marziale dell'anima, non potremo comprenderne la forza di attrazione. In altre parole, occorre "andare alla guerra", e questo libro vuole essere una chiamata alle armi per la nostra mente. E non andremo alla guerra "in nome della pace", come tanto spesso una retorica ipocrita proclama, ci andremo in nome della guerra; per comprendere la follìa del suo amore.


   Dovremo accantonare il nostro disprezzo di civili e il nostro orrore di pacifisti, la legittima intima avversione per tutto ciò che riguarda eserciti e guerrieri. Questo perché il primo principio del metodo psicologico dice che qualsiasi fenomeno, per essere compreso, va immaginato entrando in sintonia con esso. Nessuna sindrome può veramente essere strappata alla sua tragica fissità se prima non spingiamo l'immaginazione fin dentro il suo cuore. [pagg. 11-13]


Così l'incipit di un libro davvero "terribile" di James Hillman, psicologo analista junghiano, che vi affronta l'argomento principe di questi giorni e di tutti i giorni della storia umana. Per quanto spingiamo indietro lo sguardo, la guerra appare inseparabile dalla nostra dimensione mentale. Utile, allora, guardare in profondità nell'abisso della massima manifestazione di inumanità, soprattutto se questo può servire a rompere un archetipo fossilizzato al punto da essere invincibile, almeno fino a oggi.


   La guerra è innanzitutto una sfida per la psicologia, forse la prima delle sfide a cui la psicologia deve rispondere, perché minaccia direttamente la vita - la mia, la vostra -, nonché l'esistenza di tutti gli esseri viventi. La campana suona per te, e per tutti. Niente può sfuggire alla furia termonucleare e se il fuoco distruttore e le sue conseguenza sono inimmaginabili, non lo è la loro origine, la guerra.


   La guerra chiama in causa la psicologia anche perché la filosofia e la teologia, gli ambiti cui spetterebbe produrre pensieri forti per conto della nostra specie, hanno trascurato la prioritaria importanza della guerra. "Polemos di tutte le cose è padre" disse Eraclito [fr. 22B53DK; Colli A19] agli albori del pensiero occidentale, e Emmanuel Lévinas, nella fase attuale del pensiero occidentale, ha riformulato così la stessa idea: "... l'essere si rivela al pensiero filosofico come guerra". Se è una componente primordiale dell'essere, allora la guerra genera la struttura stessa dell'esistenza e del nostro pensiero su di essa: le nostre idee di universo, di religione, di etica; ... Noi pensiamo secondo la categoria della guerra, ci sentiamo in dissidio con noi stessi e senza rendercene conto siamo convinti che la predazione, la difesa del territorio, la conquista e la battagila di forze opposte siano le leggi fondamentali dell'esistenza. [pagg. 12-13]


Nell'ingenuità delle mie immaginazioni mi figuro la fine della guerra come una svolta evolutiva radicale quali furono per gli ominidi l'acquisizione della stazione eretta, l'uso degli strumenti, il linguaggio. Hillman, con la competenza dello psicologo, vede la possibilità del prossimo "salto" nella capacità immaginativa e nell'invenzione di nuovi attrezzi mentali:


   La guerra esige un salto immaginativo non meno straordinario e formidabile del fenomeno stesso. Le nostre consuete categorie non sono abbastanza capienti, perché riducono il significato della guerra alla spiegazione delle sue cause. [pag. 18]


James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, 2005



Col pensiero inorridito e paralizzato agli ultimi eventi in Medioriente, ultimi solo in ordine cronologico, sventuratamente.


domenica 9 luglio 2006

FORZA, ITALIA!!!



Campioni del Mondo!!!!!


 


Caro diario, sono felice, stanotte, e ho voglia di fare festa con tutta l'Italia. Sono felice e ho voglia di vedere in questa vittoria sportiva un buon auspicio. Scaramanticamente. Un buon auspico per ricominciare a credere in noi e per avere la forza di affrontare i difficili cambiamenti necessari in tutti i campi della vita nazionale. Siano di buon auspicio i sorrisi dei nostri campioni e l'abbraccio dei tifosi nella gioia del traguardo raggiunto. Possa aiutarci questo senso di appartenenza e condivisione a ritrovare il bandolo dell'interesse comune e a riconquistare sane energie.

mercoledì 5 luglio 2006

Parte il treno del Cielo
il marchio della Cina sul Tibet


<B>Parte il treno del Cielo<br>il marchio della Cina sul Tibet</B> 


Una locomotiva usata in fase di lavori per sperimentare il percorso


PECHINO - HA ATTESO MEZZO secolo prima di sentire questo fischio di partenza, stamattina lascia la stazione "il treno del cielo": per la prima volta nella storia una ferrovia collega il Tibet con il resto del mondo. Pechino-Lhasa, 4.200 km in 40 ore. Per la Cina oggi è una festa, il battesimo di una meraviglia tecnologica capace di correre oltre i 5.000 metri di altitudine. Per gli autonomisti tibetani in esilio, per gli ambientalisti e per tanta parte dell'opinione pubblica mondiale è uno scempio, l'estremo affronto a una delle civiltà più remote e incontaminate del pianeta. Gruppi di attivisti hanno preparato delle manifestazioni oggi in tutte le ambasciate cinesi del mondo per protestare contro l'inaugurazione della ferrovia.

   E' nel 1956 che il presidente della Repubblica popolare Mao Zedong diede il via per la prima volta al progetto di costruzione di questo collegamento. L'Esercito di Liberazione Popolare aveva invaso la capitale tibetana Lhasa cinque anni prima. Il regime comunista era deciso ad affermare la propria sovranità sulla gigantesca regione vasta quanto l'Europa alle pendici dell'Himalaya, cuscinetto strategico ai confini con l'India e l'Asia centrale. Ma la Cina di Mao era povera, e la tecnologia di allora non era in grado di risolvere un problema cruciale: come garantire stabilità ai binari oltre i 4.000 metri di altitudine, sull'altopiano tibetano dove il suolo è quasi sempre ghiacciato ("permafrost") e soggetto a slittamenti tellurici imprevedibili nelle brevi stagioni del disgelo. Per non parlare del trasporto passeggeri, che deve poter garantire la sicurezza in zone rese impraticabili dalla rarefazione dell'ossigeno. Ci vollero quasi trent'anni per completare i primi 3.000 km da Pechino alla città di Golmud nella regione dello Qinghai, ma la parte più difficile rimaneva tutta da fare.


   E' solo nel 2001 che la nuova Cina, superpotenza economica e industriale, ha potuto mobilitare le risorse per l'impresa finale: 5 miliardi di euro, decine di migliaia di operai, un cantiere gigantesco che rappresenta la Nuova Frontiera, come il Far West conquistato dalla ferrovia transcontinentale americana alla fine dell'Ottocento. La tecnologia cinese del XXI secolo ha vinto anche questa sfida, con ponti lanciati su precipizi orrendi, passi di montagna espugnati e domati da soluzioni sofisticate per garantire sui 1.200 km da Golmud a Lhasa la tenuta delle rotaie in zone impervie e ad ogni stagione, sotto temperature estreme e venti ghiacciati. Il punto più alto è il passo Tanggula: 5.068 metri. Nessun'altra ferrovia al mondo percorre una distanza così lunga a una simile altitudine. E' stata coinvolta una nota multinazionale occidentale, la Bombardier canadese, per fabbricare appositi vagoni passeggeri con doppi vetri a filtraggio dei raggi ultravioletti, e pressurizzazione delle cabine come negli aerei.


"E' un trionfo senza precedenti", ha dichiarato il presidente Hu Jintao. E Yin Fatang, che fu il segretario del partito comunista in Tibet durante le rivolte anti-cinesi dei primi anni Ottanta, ha aggiunto che "la ferrovia è nell'interesse della difesa e dell'unità nazionale, servirà a salvaguardare l'integrità territoriale del paese". Nell'immediato darà sicuramente un ulteriore spinta al turismo domestico, già in forte crescita. L'anno scorso si stima che un milione e mezzo di cinesi abbiano visitato il Tibet, raggiungendolo in aereo o in autobus. Il "treno del cielo" dovrebbe portare almeno altri 500.000 ingressi di turisti all'anno.


La stessa prodezza tecnologica di cui i cinesi vanno orgogliosi alimenta i timori degli ambientalisti. Le zone attraversate dalle rotaie sono immense riserve naturali popolate di razze in via di estinzione - come la pregiata antilope tibetana, sterminata dai bracconieri per le sue pelli - e di ecosistemi delicati come le praterie degli altipiani. Osservando quel che sta succedendo a Lhasa, dove lo sviluppo economico portato dai cinesi si accompagna con l'assedio del cemento armato e delle automobili, c'è chi teme il peggio. La costruzione di infrastrutture moderne è funzionale alla strategia di Pechino che vuole integrare il suo Far West con le zone dell'Asia centrale ricche di riserve energetiche e sviluppare i rapporti economici con l'India. Il rullo compressore del capitalismo cinese è inarrestabile e il "treno del cielo" abbatterà del 75% i costi di trasporto dei prodotti industriali. "Ma vale davvero la pena trasformare Lhasa in un'altra delle nostre gigantesche metropoli moderne, tutte piene di grattacieli, tutte uguali?", si chiede la più celebre attivista verde di Pechino, Dai Qing.

La ferrovia non trasporterà solo turisti ma anche immigranti.
Da decenni è in atto un'invasione degli Han - il ceppo etnico dominante della Cina - che portano la modernità in Tibet ma al tempo stesso occupano i mestieri più redditizi e i posti di potere nel governo locale. Lo squilibrio demografico è insostenibile, tra un miliardo di Han e cinque milioni di tibetani. Negli ultimi trent'anni, da quando la Cina iniziò a convertirsi all'economia di mercato, la spinta verso lo sfruttamento e la colonizzazione delle regioni periferiche è diventata sempre più possente. In Tibet arrivano ogni anno dai 50.000 ai 100.000 immigrati Han "temporanei". Oltre all'habitat naturale, la sinizzazione minaccia la sopravvivenza dell'identità culturale tibetana.


   E' una nazione di tradizioni millenarie, che ha un suo alfabeto, una lingua, ha fatto fiorire meraviglie dell'arte dalla scultura alla pittura alla musica. E' soprattutto un popolo impregnato di una religiosità unica al mondo, quella fede buddista che è sopravvissuta perfino alle violenze della Rivoluzione culturale, quando le Guardie rosse di Mao bruciarono i templi e imprigionarono i monaci costringendoli al lavaggio del cervello dei "campi di rieducazione".


Un gruppo di manifestanti occidentali sono arrivati a Pechino per protestare contro l'inaugurazione di oggi con degli striscioni dallo slogan "La ferrovia Cina-Tibet, progettata per distruggere". La polizia cinese li ha arrestati.


 


   Il Dalai Lama, il leader spirituale dei tibetani che vive in esilio dal 1959, ha scelto una linea più moderata: "Il treno di per sé non è un male per il popolo tibetano, tutto dipende dall'uso che ne sarà fatto".


Federico Rampini - La Repubblica 1 luglio 2006  - Foto: La Repubblica - galleria di immagini  - Dalai Lama.it


Il Dalai Lama non smentisce mai il suo approccio pacifico alla tragedia del popolo tibetano e ai suoi oppressori cinesi. Penso che, quando si guarderà a questa vicenda storica da una maggiore distanza temporale, la guida del Dalai Lama e i comportamenti dei tibetani rifulgeranno come l'esempio più grande di ciò che significa il ripudio della violenza. Senza nulla togliere ad altre esperienze, questa tibetana è un assoluto unicum nella storia umana: il superamento del "terribile amore per la guerra", come lo chiama James Hillman.


Nel mio secondo blog, 'convivium', mi sono dedicata qualche volta al Buddhismo tibetano. Cercherò di continuare con maggiore lena, perché è una religione che non richiede conversioni e offre una visione della vita e delle relazioni col divino e con l'umano dalle altezze stupefacenti.

FORZA   ITALIA!!!



FORZA  AZZURRI!


La partita per me è stata bella. Bravi i giocatori italiani, bravi i giocatori tedeschi. Buona la lealtà sportiva durante il gioco e dopo. Col senno del poi, quello 0 a 0 fino all'ultimo minuto è stato fantastico, perché ha esaltato in maniera del tutto particolare lo scioglimento finale con il 2 a 0 proprio sul filo degli ultimi istanti. Bello vedere finalmente i famosi "giovani in mutande" così fortemente impegnati. Ma, confesso, bello avere l'occasione di gridare "FORZA ITALIA!" , cosa che ormai non si fa più da una dozzina di anni. Continua la mia campagna solitaria per la riappropriazione di quanto ci fu scippato da sopraffine menti pubblicitarie: urlo sportivo, bandiera e colore azzurro. Vedo politica per ogni dove? Sì, la vedo, e credo che ci sia, perché non ci sono limiti alle connessioni tra le cose più diverse. E ci metto anche la poesia.



Goal


Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l'amara luce.
Il compagno in ginocchio che l'induce,
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla - unita ebbrezza - par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l'odio consuma e l'amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata il portiere
- l'altro - è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasto sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si* fa baci che manda di lontano.
Della festa - egli dice - anch'io son parte.



Umberto Saba



Festeggerò questa vicenda calcistica anche in 'Convivium', il mio secondo blog, in cui raccoglierò vari pezzi di arti diverse.


 


Foto: Rainews24  

martedì 4 luglio 2006

NON    UCCIDERE!



GAZA - E' scaduto alle 6 ora locale (le 5 in Italia) l'ultimatum di 24 ore che i rapitori del soldato israeliano Ghilad Shalit hanno lanciato contro Israele per la liberazione di detenuti palestinesi e che lo stato ebraico ha respinto.

I gruppi che tengono prigioniero il soldato israeliano sequestrato il 25 giugno hanno affermato, alla scadenza dell'ultimatum, che non lo uccideranno.


"Certi pensano che i gruppi autori dell'operazione (l'attacco con rapimento del soldato Gilad Shalit) possano ucciderlo, ma i nostri principi islamici stabiliscono che bisogna rispettare i prigionieri, e non ucciderli", ha detto un portavoce dell'Esercito dell'Islam, Abu Muthanna.


Ma, ha aggiunto il portavoce, "abbiamo dato un ultimatum che é scaduto. Tutti gli sforzi sono stati vanificati. Il nemico porta la responsabilità intera del suo atteggiamento e del destino del soldato".


(La prima dichiarazione contiene un principio che esiste nel Corano: non si uccide il nemico inerme. La seconda è ambigua e solo i fatti potranno disambiguarla. In un senso favorevole al soldato Shalit, spero e mi auguro.)


Ghilad Shalit, il soldato israeliano catturato da un commando palestinese il 25 giugno, "é vivo". Lo ha detto oggi il portavoce del governo israeliano Avi Pzner, alla catena francese Lci.

GAZA, CARRI ARMATI AVANZANO DI UN CHILOMETRO
Nel nord della striscia di Gaza i carri armati israeliani stanno lentamente avanzando in direzione della città di Beit Hanun e si prefiggono di raggiungere una profondità di un chilometro. Il loro obiettivo è di avvicinarsi alle postazioni dei lanciatori di razzi. Ieri i carri armati erano entrati in quella zona di 200 metri, per cercare ordigni e tunnel. Nella nottata soldati israeliani hanno ucciso due miliziani palestinesi: uno a Gaza, e l'altro a Jenin. L'aviazione israeliana è tornata compiere raid, uno dei quali ha centrato la università islamica. In Cisgiordania, a Ramallah, unità israeliane di elite hanno catturato tre palestinesi: secondo la radio militare sarebbero coinvolti nella uccisione, avvenuta la scorsa settimana, del ragazzo israeliano Eliahu Asheri. I tre, ha aggiunto la emittente, sono miliziani di al-Fatah e sono stati catturati in un edificio della sicurezza palestinese dopo uno scontro a fuoco protrattosi per ore. Pazner ha aggiunto: "Sappiamo che fino ad ora Ghilad Shalit è vivo, sappiamo che è ferito e che qualche giorno fa è stato visitato da un medico palestinese". Il portavoce del governo israeliano ha ribadito di avere "informazioni sicure" sullo stato di salute del ragazzo.


Difficile, quasi impossibile districarsi tra queste vicende, tagliandone il tragico nodo come fece Alessando Magno  con il nodo di Gordio. Ci vogliono conoscenze profonde del problema, e profondissimo senso di giustizia. Forse addirittura è necessario accettare anche qualche ingiustizia, piccola, nel caso che non ci sia una scelta migliore.


C'è chi fa pendere il piatto dalla parte d'Israele perché è un paese democratico e perché i suoi abitanti sono la testimonianza vivente dei crimini della shoah. Riconosco tutto, prendo atto anche del pericolo di un nuovo antisemitismo nascente. 


Correrò, tuttavia, il rischio di essere accusata di antisemitismo e oserò porre una domanda cruciale: forse che un regime democratico acquisisce la licenza di invadere, imprigionare, uccidere, tormentare, punire con rappresaglie del tutto sproporzionate, in virtù dell'essere democratico? Dov' è allora la differenza con i terroristi di Hamas, che ha comunque  vinto in elezioni democratiche?


Fonte informazioni: ANSA

lunedì 3 luglio 2006

PALESTINA


Orribile ciò che sta accadendo in Palestina. Orribile e difficile da decifrare. Per capire mi affido a un'intervista de L'Unità a Zeev Sternhell, intellettuale israeliano.


«Quella messa in campo da Israele è l' impotenza della forza militare. Ma credere di poter vincere con la forza militare questo tipo di resistenza non è solo un errore, è una tragica illusione». A sostenerlo è uno degli intellettuali più in vista di Israele e più affermati a livello internazionale: Zeev Sternhell, storico, docente di Scienze Politiche all'Università Ebraica di Gerusalemme. «Ciò che si rivela fallimentare -avverte Sternhell- è l'unilateralismo forzato, strategico, che l'"allievo" Olmert ha ereditato dal "maestro" Sharon».

Professor Sternhell, nei Territori la situazione è esplosiva e si teme un conflitto devastante e prolungato. C'è un motivo per cui tutto questo avviene ora?
«Il motivo che è alla base delle violenze fra noi e i Palestinesi, non è cambiato: quando due nemici non si parlano, non cercano e non presentano una vera, sincera e profonda soluzione al problema, si è condannati alla perpetuazione della violenza. Le violenze continueranno fin quando da parte palestinese non si arriverà alla definitiva e generale accettazione della esistenza di Israele, alla comprensione che Israele non è cancellabile dalla mappa, e che la terra deve essere divisa fra i due popoli. E le violenze continueranno anche se il governo israeliano proseguirà sulla strada intrapresa da Sharon, senza cercare di affrontare veramente e risolvere il conflitto intorno ad un tavolo di trattative. Olmert vuole portare avanti un altro piano di ritiro unilaterale. Come se i Palestinesi, una volta usciti noi Israeliani, potessero essere felici e svilupparsi in una nazione frammentata in cantoni. Purtroppo il risultato sarà, ancora una volta, il semplice spostamento delle linee delle ostilità. Questo unilateralismo forzato, strategico, ha avuto il suo peso nell'affermazione elettorale di Hamas e nel mancato radicamento di una leadership palestinese moderata.
Alla stregua del suo maestro, Ariel Sharon, Ehud Olmert è fermamente convinto che l'interlocutore con cui trattare una soluzione politica della questione palestinese, non vada cercato a Ramallah o a Gaza, e nemmeno in Europa, ma a Washington. E con gli Stati Uniti il "negoziato" è permanente».

Israele trepida per la sorte del caporale Shalit, rapito da un commando palestinese.
«Per quanto riguarda l'operazione militare in atto, non la capisco e non l'approvo. Il soldato rapito potrà forse essere localizzato con l'aiuto di carri armati? Saranno forse gli aerei a portarlo via dalla prigionia? No. Se ciò avverrà, sarà solo per l'uso di strumenti che non hanno nulla a che fare con l´esercito: sarà un collaboratore che verrà pagato per aver dato l'informazione giusta, e saranno reparti speciali anti-terrorismo che si metteranno in azione per irrompere in una specifica casa».

Si ha la netta impressione che accanto alla risolutezza, Israele stia dimostrando anche molta frustrazione, l'impotenza della potenza militare che nulla può contro le azioni di gruppi terroristici...
«Non c'è dubbio che le cose stiano proprio così. E purtroppo devo ribadire la stessa idea espressa in precedenza: si è frustrati quando si cerca di fare una cosa che si ritiene possibile. Ma vincere con la forza militare questo tipo di resistenza, non è possibile. La storia moderna è piena di esempi di tentativi del genere e falliti. Da Napoleone in Spagna, ai Francesi in Algeria, e poi il Vietnam, l'Iraq e così via. Israele ancora non l´ha capito del tutto, come non ha capito che erigere un muro non può rappresentare una soluzione. Ci si può scavare sotto, ci si possono fare delle brecce e ovviamente ci si può sparare sopra con armi sempre più sofisticate. Israele non può non interrogarsi su cosa accade al di là di quel muro, dei processi di frustrazione, di rabbia e di cieco desiderio di vendetta che crescono all'ombra del muro».

Israele si trova ancora una volta di fronte al dilemma posto dalla necessità di salvare la vita di propri cittadini operando però in modo da far soffrire dall'altra parte centinaia di migliaia di civili palestinesi che non hanno colpe dirette.
«L'azione militare in corso, non ha la sola finalità di liberare il soldato rapito - e semmai lo mette in pericolo - ma è purtroppo anche una forma di punizione collettiva inflitta alla popolazione di Gaza. Altrimenti, non riesco a capire l'utilità di far saltare ponti e centrali elettriche. C'è veramente qualcuno che pensa che i rapitori si muoveranno in carovane di auto per spostare il soldato rapito? E a che serve - se non a punire collettivamente la popolazione palestinese - lasciare senza elettricità mezzo milione di persone? Non posso accettare la demagogia e il cinismo di chi - come Peres - dice che sono i Palestinesi ad autopunirsi».

Oggi alla guida politica del ministero della Difesa c'è Amir Peretz, leader del Partito Laburista, proveniente dall'area più pacifista del partito. È deluso di queste scelte «militariste» di Peretz, oppure chi arriva in quella posizione non può comportarsi altrimenti?
«La questione non sta in questo o quel leader laburista, ma nella strada scelta dal partito. Voglio sperare che Peretz abbia ancora bisogno di un po' di tempo per far pesare la sua opinione sulle decisioni militari. Ma se non riuscirà a distaccare il suo partito da quello di Olmert, se non si porrà nel governo come elemento che spinge verso una soluzione negoziata, se non sarà capace di presentare un'alternativa ai piani che si trovano ora sul tavolo del governo e che sono destinati a fallire, allora, il suo operato non si differenzierà da quello delle precedenti leadership laburiste, che si sono appiattite sulle posizioni di centro-destra del Likud e che ora si appiattiscono sulle posizioni del Kadima di Olmert. E se non saremo in grado di parlare oggi con i Palestinesi, si dovrà rimandare la ricerca della soluzione a quando le due parti saranno veramente mature per affrontare i difficili compromessi per arrivare alla pace. E nel frattempo i due popoli continueranno a soffrire».

C'è chi dice che il vero obiettivo dell'azione militare è farla finita con il governo Hamas.
«Di nuovo l'impotenza politica mascherata dalla forza militare. Abbiamo eliminato il fondatore di Hamas (lo sceicco Ahmed Yassin, ndr), abbiamo proseguito con il suo successore (Abdelaziz Rantisi, ndr) ma Hamas è cresciuto, si è radicato nella società palestinese fino a vincere le elezioni di gennaio con un consenso popolare che certo non è stato estorto con la forza. Possiamo anche uccidere o incarcerare tutti i ministri ma ci chiediamo poi chi oserà in campo palestinese far parte di un governo "collaborazionista"? O pensiamo che per Israele sia meglio che nei Territori si consolidi il caos armato? Per negoziare la pace, Israele ha bisogno di un interlocutore realmente rappresentativo e non di un Pétain palestinese».




Sternhell: «Da israeliano dico: per salvare Shalit non servono i tank» - Pubblicato il 02.07.06   


dal commento dell'amico Pattinando:


"Il Financial Times nel suo editoriale di ieri ha riportato: "Pensate per un momento a cosa sarebbe successo se in risposta al rapimento di un soldato da parte dell’ IRA, il governo britannico avesse occupato l’Irlanda del Nord, attaccato Belfast e Derry da terra, aria e mare, punito la popolazione distruggendo centrale elettriche, infrastrutture e governo; arrestato ogni repubblicano; inviato la Royal Air Force a sorvolare Dublino".