mercoledì 27 ottobre 2004

Parola di Cane contro Parola di Presidente U. S.


[IMAGE] versus


Il New York Times di oggi, October 27, 2004, ha pubblicato l'editoriale che ho tradotto (pietà per la traduzione!). Per qualche verso leggerlo è stato divertente, ma nella sostanza l'ho trovato di un'estrema tragicità. Mi è sembrato, più che un editoriale, un apologo, utile in particolare per noi Italiane e Italiani assuefatti a sopportare menzogne su menzogne. Chi avrebbe scritto un editoriale su questo argomento, sia pure per arrivare al problema "follemente tragico" della guerra in Iraq mossa da cotanto Presidente narratore?


Sto leggendo, con tre anni e più di ritardo, 'L'odore dei soldi' di Veltri e Travaglio, nonché il freschissimo 'Regime', sempre di Travaglio. Il confronto tra ciò che da noi si accetta più o meno seraficamente e le pulci che Cristof fa a Mr. Bush sostiene le mie simpatie Americane e le mie antipatie Italiane.


Pants on Fire?


By NICHOLAS D. KRISTOF



Se dico che il Presidente Bush non è un bugiardo, i Democratici scagliano fulmini contro di me. E quando dico che Mr. Bush non è veritiero, i Repubblicani eruttano come il Monte St. Helens.



Che cosa voglio dire?


Lasciatemi fare un esempio – non dall’Iraq ma dalla biografia di Mr. Bush. In essa, egli racconta una piccola deliziosa storia che coinvolge le sue figliole nel 1988, al tempo del dibattito presidenziale tra suo padre e Michael Dukakis:


“Una notte, Laura e io eravamo fuori città impegnati in una campagna, e Barbara e Jenna passarono la notte nella casa vice presidenziale. Papà aveva dedicato la giornata a preparare il dibattito con Michael Dukakis. Sfortunatamente, Barbara aveva perduto il suo compagno di sonno, Spikey, il suo cane imbottito preferito. Lei protestava fortemente dicendo che non avrebbe potuto dormire senza Speikey, così ‘Gampy’, meglio conosciuto come Vice Presidente Bush, spese buona parte della notte prima del dibattito cercando in casa e nei campi della residenza vice presidenziale, con una torcia elettrica in mano, in una missione alla ricerca di Spikey. Infine, lo ritrovò e Barbara si addormentò profondamente. Non so se papà riuscì a dormire quella notte.”


E’ una commovente storia di valori famigliari. E, sebbene non sia ingannevole fino a considerarla come una menzogna, è inttrecciata a falsità.


Noi lo sappiamo perché la madre di Mr. Bush ha scritto sullo stesso incidente molto prima, nel 1990, nel “Millie’s Book“, nominalmente scritto dal suo cane. Per cominciare, l’episodio occorse quando le bambine avevano cinque anni e mezzo, nel 1987, un anno prima del dibattito presidenziale.


In più, il “Millie’s Book” dice che Spikey era un gatto, non un cane. E invece di cercare per tutta la notte e di trovare Spikey, il Vice Presidente Bush rinuncò, borbottando: “Io ho da lavorare. Che cosa sto facendo alla ricerca di un animale di pezza, fuori di casa nel buio?” Tuttavia, la piccola Barbara si addormentò con un altro animale di pezza. Spikey venne fuori dalle tende il giorno dopo.


(Posso sentire alcuni di voi che protestano: “Tu hai preso la parola di un cane contro quella del nostro presidente?" Bene, francamente, nessuno ha mai impugnato la parola di Millie. E Millie ha dei testimoni. Il primo Presidente Bush e sua moglie, Barbara, più tardi mi hanno confermato attraverso un portavoce che loro non credevano che Spikey si sia smarrito al tempo del dibattito presidenziale.)


La versione dell'incidente montata dall'attuale presidente riflette il suo rapporto "casual" con la verità. Come il Presidente Ronald Reagan, la realtà per lui non è nei fatti, ma intorno a pià alte meta-verità: Mamma e Papà sono amorevoli nonni, Saddam Hussein è un uomo malvagio, e così via. Per chiarire queste realtà sovrastanti, Mr. Bush barda i "fatti", sia veri che falsi.


Tutti noi facciamo questo in una certa misura, senza dubbio, facendo la tara a dati che non calzano con i nostri preconcetti. Il mio collega del Times John Tierney ha scritto pochi giorni fa a proposito di un nuovo rapportosuggestivo, basato sui punteggi nei test di military intelligence fatti nel 1960, che Mr. Bush aveva un I.Q. nel in the 95th percentile of the population and that John Kerry's was in the 91st percentile. (?) Ancora most liberal non hanno rivisto la loro opinione secondo cui Mr. Bush è un imbecille (nitwit).


A dire il vero, io sono convinto che Mr. Bush non è soltanto più intelligente, ma anche un uomo migliore di quanto non credano i suoi critici. E più importante, non è un ruffiano. Mentre Mr. Kerry zigs and zags sull'occupazione e la politica in Medio Oriente, Mr. Bush ha un nucleo di valori e fornisce una genuina leadership (rappresentativamente, credo, tentando di riformare l'America e il mondo in accordo con una far-right (?) agenda).


Un esempio è la determinazione di Mr. Bush dall' 11 Settembre di aumentare la Riserva Strategica U. S. di Petrolio, nonostante questo rialzo dei prezzi della benzina. L'approccio di Mr. Bush è folle dal punto di vista economico, ed è pazzesco politicamente. Pure questa feroce (grim) propensione all'aumento del prezzo della benzina durante la sua campagna per la ri-elezione sottolinea una solidità di carattere e di convinzioni.


Ma c'è anche il problema con la sua amministrazione: le sue convinzioni sono così solide da essere inflessibili e del tutto impenetrabili per la realtà. Quando Mr. Bush ha gonfiato l'intelligence su Iraqi W.M.D., le sue esagerazioni riflettevano una verità di primaria importanza, come si è visto, - che Saddam Hussein era una minaccia. Io penso che Mr. Bush si ritenesse veritiero, perfino quando non era realistico.


Se Mr. Bush fosse un privato cittadino, ammirerei la sua tenacia, esattamente come rispetto Barry Goldwater, i fans di Red Sox e Flat-Earthers. Ma per un presidente, mi auguro che noi abbiamo un pensatore acuto che capisca la differenza tra Osama bin Laden e Saddam Hussein, o tra un cane e un gatto di pezza.


Fonte: http://www.nytimes.com/2004/10/27/opinion/27kristof.html?hp



Ecco Nicholas D. Cristof,


un giornalista che mi piace molto.


Oggi ha superato se stesso, a mio parere.


Allora penso ai molti giornalisti di casa nostra, non tutti fortunatamente, penso alla loro incredibile capacità di accogliere e trasmettere qualsiasi cosa il potente di turno dica, anche la più inverosimile o la più indegna, così, senza una critica o addirittura trasformandola o censurandola, quando è necessario.


martedì 26 ottobre 2004


 






Non di questo presente


ora bisogna vivere


- ma in esso sì:


non c'è modo, pare,


d'averne un altro,


non c'è chiodo


che scacci


questo chiodo.







 


Giovanni Raboni


lunedì 25 ottobre 2004








 


"NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO"










 


Mi sembra giusto oggi ricordare il Secondo dei Dieci Comandamenti delle Tavole della Legge. Penso che lo farò tutte le volte che sarà necessario, cioè tutte le volte che qualche 'potente' (si fa per dire) o qualche 'politico' si servirà blasfemamente del vessillo divino. Ritengo che sia importante assumere una posizione in difesa della religione e dello spirito religioso autentico in questi tempi di uso e abuso delle dottrine religiose per gli scopi più disparati.


Ho letto con interesse, dopo averlo stampato (vista debole, ahimè!), questo lunghissimo articolo in cui mi sono imbattuta per caso.


 


L'autore è Jim Wallis, direttore di Sojourners: Christians for Justice and Peace [http://www.sojo.net/].









 


LA TEOLOGIA IMPERIALE DI GEORGE W. BUSH








 


“La vittoria militare in Iraq sembra aver confermato un nuovo ordine mondiale”, ha scritto recentemente sul Washington Post Joseph Nye, decano della Scuola di Alta Amministrazione Kennedy di Harvard. “Dal tempo di Roma nessuna nazione si è innalzata di tanto al di sopra delle altre. Di fatto, la parola ‘impero’ è uscita allo scoperto”.


L’uso della parola “impero” riferita al potere americano nel mondo un tempo era oggetto di controversia, spesso riservato alle critiche di sinistra dell’egemonia degli USA. Ma ora, negli editoriali e nei discorsi politici della nazione, sempre più si cita il concetto di impero, e perfino l’espressione “pax americana”, senza alcun imbarazzo.




William Kristol, direttore dell’importante Weekly Standard, ammette l’aspirazione all’impero. “Se alla gente fa piacere dire che siamo un potere imperiale, mi sta bene”, ha scritto. Kristol è presidente del Progetto per il Nuovo Secolo Americano (PNAC), un gruppo di politici conservatori che cominciò nel 1997 a tracciare per gli USA una politica estera molto più aggressiva. I documenti del PNAC delineavano i contorni di una “pace americana” basata su una “indiscutibile preminenza militare degli USA”. Questi visionari imperiali scrivono che “l’alta strategia dell’America deve avere l’obiettivo di preservare ed estendere questa posizione di vantaggio il più a lungo possibile nel futuro”. Nella loro concezione gli Stati Uniti devono assolutamente “accettare la responsabilità del ruolo unico dell’America nel preservare ed estendere un ordine internazionale che sia in accordo con la nostra sicurezza, la nostra prosperità e i nostri principi”. E questo, senza dubbio, è impero.





Non c’è nulla di segreto in tutto ciò; al contrario, visuali e piani di questi uomini di potere sono stati resi del tutto espliciti. Si tratta di esponenti e commentatori politici dell’estrema destra americana che sono assurti al potere di governo e che, dopo il trauma dell’11 Settembre 2001, sono stati incoraggiati a mettere in atto il loro programma.



Durante la frettolosa costruzione della guerra con l’Iraq, Kristol mi disse che l’Europa non era adatta a condurla perché “corrotta dal secolarismo”, così come inadatto era il Mondo in via di sviluppo “corrotto dalla povertà”. Per lui, solo gli Stati Uniti potevano fornire “la cornice morale” per governare il nuovo ordine mondiale. Recentemente Kristol ha scritto candidamente: “Ebbene, che c’è di male nel dominare, essendo al servizio di sani principi e di alti ideali?”. Ideali di quale appartenenza? Presumibilmente di ciò che la destra americana definisce come “ideali americani”.






 


Bush aggiunge Dio






 


A questa estensione aggressiva del potere americano nel mondo, il Presidente Gorge W. Bush aggiunge Dio, e questo cambia il quadro drammaticamente. Un conto è la rozza affermazione da parte di una nazione del proprio dominio nel mondo; tutt’altra cosa è suggerire, come fa il presidente, che il successo della politica estera e militare americana è connessa ad una “missione” religiosamente ispirata, e addirittura che la sua presidenza può corrispondere ad un incarico divino per un tempo come il nostro. ...





 


Una missione e un incarico



 


L’ex scrittore di discorsi di Bush, David Frum, dice del presidente: “In fin dei conti la guerra aveva fatto di lui un crociato”. All’inizio della guerra in Iraq, George Bush ha pregato “Dio benedica le nostre truppe”. Nel suo discorso sullo stato dell’Unione ha promesso solennemente che l’America avrebbe condotto la guerra contro il terrorismo “perché questa vocazione è pervenuta al destinatario giusto, questo paese”. L’autobiografia di Bush è intitolata Un incarico a cui attenersi (A charge to keep) che è una citazione dal suo inno preferito. ...





 


Sembra che Bush ripeta a non finire questo errore, facendo confusione tra la nazione, la chiesa e Dio. La teologia che ne risulta è più religione civile americana che fede cristiana.




 


Il problema del male




 


A partire dall’11 Settembre il Presidente Bush ha trasformato il “pulpito aggressivo” della Casa Bianca effettivamente in un pulpito pieno di “chiamate”, “missioni” e “incarichi a cui attenersi” riferiti al ruolo degli Stati Uniti nel mondo. George Bush è convinto che siamo impegnati in una battaglia morale tra il bene e il male, e che quelli che non sono con noi stanno dalla parte sbagliata in questo confronto divino.



 


Ma chi sono i “noi”? E il male non abita forse in “noi”? Il problema del male è un punto classico della teologia cristiana. Senza dubbio, chi non riesce a vedere il volto stesso del male negli attacchi terroristici dell’11 Settembre è gravemente ammalato di relativismo postmoderno. Evitare oggi di parlare del male nel mondo significa costruire una cattiva teologia. Ma parlare di “loro” come il male e di “noi” come il bene, dire che il male è tutto là fuori e che nella lotta tra il bene e il male gli altri sono o con noi o contro di noi, anche questo è cattiva teologia. Sfortunatamente questa è diventata la teologia di Bush. ...




 


Nella teologia cristiana non sono le nazioni che liberano il mondo dal male: esse sono troppo spesso invischiate in complicate ragnatele di potere politico, interessi economici, scontri culturali, sogni nazionalistici. Il confronto con il male è un ruolo riservato a Dio e al popolo di Dio quando esercita fedelmente la coscienza morale. Ma Dio non ha dato ad una nazione-stato la responsabilità di vincere il male, né tanto meno l’ha data ad una super-potenza che ha enormi ricchezze e particolari interessi nazionali. Confondere il ruolo di Dio con quello della nazione americana, come sembra fare George Bush, costituisce un serio errore teologico che taluno potrà dire sfiori l’idolatria e la bestemmia.



E’ facile demonizzare il nemico e pretendere che siamo dalla parte di Dio e del bene. Ma il ravvedimento è meglio. Secondo quanto afferma il Christian Science Monitor, parafrasando Alexander Solgenitsyn: come alcuni evangelicali sono pronti a dire,“l’evangelo insegna che la linea di separazione tra il male e il bene non corre tra le nazioni, ma all’interno di ogni cuore umano”.


 




Una via migliore




 


La Destra religiosa, così spesso pubblicizzata, è oggi un fattore politico in declino nella viata americana. Sul New York Times Bill Keller recentemente osservava che “altisonanti mediatori evangelici del potere, come Jerry Falwell e Pat Robertson sono invecchiati fino a diventare irrilevanti e ora esistono soprattutto come risibile contraltare”. Il vero problema teologico negli Stati Uniti oggi non è più la Destra religiosa, bensì la religione nazionalista dell’amministrazione Bush, una religione che confonde l’identità della nazione con la chiesa, e le finalità di Dio con la missione dell’impero americano.



 


La politica estera degli USA è più che preventiva, è teologicamente presuntuosa; non è solo unilaterale, ma pericolosamente messianica; non soltanto arrogante, ma ai limiti dell’idolatria e della bestemmia. La fede personale di George Bush ha promosso la profonda fiducia nella sua “missione” nel “combattere l’asse del male”, la sua “chiamata” ad essere il comandante in capo nella guerra contro il terrorismo, e la sua definizione della “responsabilità” dell’America nel “difendere le speranze dell’umanità intera”. Questo è un pericoloso miscuglio di cattiva politica estera e cattiva teologia.



 


Ma la risposta alla cattiva teologia non è il secolarismo; è piuttosto la buona teologia. Non è sempre sbagliato invocare il nome di Dio e dar voce alle esigenze religiose nella vita pubblica di una nazione, come alcuni secolarizzati affermano. Dove saremmo senza la guida morale e profetica di Martin Luther King Jr, di Desmond Tutu, e di Oscar Romero?



 


Nella nostra storia americana la religione è stata rivendicata per la vita pubblica in due modi diversi. Secondo il primo il nome di Dio e la fede sono invocati per renderci responsabili nei confronti delle intenzioni di Dio, per chiamarci alla giustizia, alla compassione, all’umiltà, al ravvedimento, alla riconciliazione. Abraham Lincoln, Thomas Jefferson, e Martin Luther King sono i migliori esempi di questo modo. Lincoln usava regolarmente il linguaggio della Scrittura, ma in modo tale da chiamare le due parti della Guerra civile alla contrizione e al pentimento. Jefferson è famoso per aver detto: “Tremo per il mio paese, quando penso che Dio è giusto”.



 


L’altro modo invoca la benedizione di Dio sulle nostre attività, le nostre intenzioni, i nostri programmi. Molti presidenti e leader politici hanno usato il linguaggio della religione in questo senso, e George W. Bush è preda della stessa tentazione.



 


I cristiani dovrebbero sempre sentirsi a disagio con l’impero, che costantemente minaccia di diventare idolatrico e di sostituire finalità secolari al posto di quelle di Dio. E mentre riflettiamo sulla nostra risposta all’impero americano e a ciò che rappresenta, è istruttivo formulare una riflessione sulla chiesa primitiva e l’impero.



 


Il libro dell’Apocalisse, per quanto scritto con un linguaggio e un immaginario apocalittico, è considerato da molti esegeti come un commento all’Impero romano, il suo dominio sul mondo, e la sua persecuzione della chiesa. In Apocalisse 13 è descritta una “bestia” e il suo potere. In The Message, Eugene Peterson lo esprime con un linguaggio colorito: “La terra intera era eccitata e impaziente guardando la bestia a bocca aperta. Adoravano il dragone che aveva dato autorità alla bestia, e quindi adorarono la bestia esclamando: ‘Non c’è mai stato niente di simile alla bestia! Nessuno oserebbe far la guerra alla bestia!’. Essa deteneva un dominio assoluto su tutte le tribù, i popoli, le lingue e le razze”. Ma la visione di Giovanni a Patmos prevede anche la disfatta della bestia. In Apocalisse 19 un cavallo bianco con un cavaliere il cui nome è “la Parola di Dio” e “Re dei re e Signore dei signori” cattura la bestia e il suo falso profeta.



 


Come per la chiesa primitiva, la nostra risposta ad un impero che detiene un “dominio assoluto” contro il quale “nessuno oserebbe far guerra”, è l’antica confessione di fede: “Gesù è il Signore”. Ed è vivere nella promessa che gli imperi non durano, che la Parola di Dio alla fine sopraviverà alla Pax americana come è sopravissuta alla Pax romana.



Nel frattempo, i cristiani americani dovranno fare alcune difficili scelte. Saremo solidali con la chiesa del mondo intero, il corpo internazionale di Cristo, o con il nostro governo americano? Non ci sorprende il fatto che la chiesa globale generalmente non sostiene gli scopi della politica estera dell’amministrazione Bush, in Iraq, nel Medio Oriente, o nella più ampia “guerra al terrorismo”. Solo all’interno di alcune delle nostre chiese si possono trovare voci che sono consonanti con le visioni dell’impero americano.



 


Una volta c’era Roma; ora c’è una nuova Roma. Una volta c’erano dei barbari; ora ci sono molti barbari che sono i Saddam di questo mondo. E allora c’erano i cristiani la cui lealtà non andava a Roma ma al regno di Dio. A chi presteranno la loro lealtà i cristiani oggi?





 


Jim Wallis




(Traduzione di Franco Giampiccoli) - [1] Riferimento al programma degli Alcolisti Anonimi (N.d.T.)


domenica 24 ottobre 2004





















Non avrei avuto voglia di parlare di Rocco Buttiglione e della sua politica come aspirante membro della Commissione Europoea. Ma l'editoriale di Barbara Spinelli su La Stampa di oggi mi ha fatto cambiare idea per l'ampiezza e la correttezza di analisi e considerazioni. Il titolo dell'articolo parafrasa quello del romanzo "Leggere Lolita a Tehran" (ironicamente inquietante).


IL CASO BUTTIGLIONE

LEGGERE LOLITA A STRASBURGO
24 Ottobre 2004
di Barbara Spinelli

SICCOME non viviamo fuori dalla storia né dal mondo, è alla luce di quel che accade e che muta intorno a noi che conviene meditare sullo scontro in corso tra Parlamento europeo e Buttiglione, scelto dai governi dell'Unione e dal presidente dell'esecutivo Barroso come commissario incaricato delle libertà, della sicurezza e degli interni. Quel che accade intorno a noi, non solo in Italia ma nel mondo, è l'importanza sempre più grande e invasiva che sta assumendo la fede religiosa nella formulazione delle politiche interne e mondiali.


Questo è senz'altro vero per gli integralismi musulmani, ma lo è anche per una religione - il cristianesimo - che nel Vangelo ma anche nella storia europea ha rivelato di essere il monoteismo più propenso alla separazione tra politica e fede, tra quel che appartiene a Cesare e a Dio. Il ministro della Giustizia John Ashcroft è convinto che per tre anni, dall'11 settembre, la nazione Usa è stata «benedetta», e che «la mano della Provvidenza è stata assistita nella guerra contro il male dai devoti dell'amministrazione Bush». Bush stesso sostiene di essersi candidato alla presidenza, anni fa, perché Cristo in persona gli «affidò una speciale missione».


La guerra militare contro il terrore è fatta dai neoconservatori per esportare un bene - la democrazia - che il Capo di Stato Usa considera «donato direttamente agli uomini da Dio», tramite il suo braccio secolare che è l'America. Questo scontro di civiltà religiose, che il terrorismo islamico ha imposto per primo ma che la potenza guida dell'Occidente e i suoi assertori hanno fatto proprio con zelo neo-fondamentalista, è il clima in cui bisogna collocare, purtroppo, la vicenda Buttiglione. Quel che non accettiamo da certi regimi musulmani (l'ingerenza nelle scelte sessuali intime, il rifiuto dell'uguaglianza delle donne, la religione mai lasciata fuori dalla porta della res publica: altrettante scelte integraliste così ben descritte nel romanzo «Lolita a Teheran», di Azar Nafisi) non dovrebbe oggi essere un cavallo di battaglia del cristianesimo occidentale, a me pare. Il premier turco Erdogan che avesse detto parole somiglianti a quelle di Buttiglione non sarebbe giudicato idoneo, allo stato attuale, a entrare nell'Unione europea.


Non diversamente dall'America degli evangelicali, ci sono politici in Europa che si propongono di tradurre in leggi alcuni inflessibili articoli di fede sulle scelte di costume. Il momento in cui sono interrogati, dai parlamentari verso cui son responsabili, è quello in cui le loro intenzioni vengono vagliate alla luce di quel che faranno nelle vesti di legislatore che tutela credenti e non credenti.
Il presidente della Commissione parlamentare che ha censurato Buttiglione, il giscardiano Jean-Louis Bourlanges, è stato chiaro dopo la bocciatura del 6 ottobre.Ha detto che «in causa non era la fede personale di Buttiglione» (fede a suo parere più che legittima), ma quel che Buttiglione aveva già fatto in Europa: «Non è la sua dichiarazione sull'omosessualità (da Buttiglione definita "un peccato" di fronte ai parlamentari europei) ad aver creato i veri problemi - questo ha detto Bourlanges in un'intervista - ma il fatto che quando rappresentava il governo italiano nella convenzione incaricata del progetto di costituzione europea, Buttiglione propose un emendamento inteso a eliminare l'orientamento sessuale dalla lista delle discriminazioni proibite nello spazio dell'Unione». Emendamento che fu rifiutato, tanto che ora - nell'articolo 21,1 della Carta europea dei diritti (e la Carta è giuridicamente vincolante, nella costituzione che i governi approveranno il 29 ottobre a Roma), è scritto: «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali».
Non è vero dunque, secondo Bourlanges, che i deputati europei non son capaci di distinguere tra libertà di convinzione e diritto, tra credenza personale e operato politico. Ma «avendo riversato le sue convinzioni sull'omosessualità - di per sé onorevoli, secondo Bourlanges - in una pratica politica», Buttiglione è stato valutato in chiave politica.


Buttiglione non era chiamato infatti a giudicare secondo coscienza leggi già promulgate (il politico cattolico può contestarle, pur dovendo garantirne il rispetto) ma a esporre le sue propensioni in quanto legislatore futuro, in un'Europa dove non tutti son cristiani, non tutti son eterosessuali, e non tutti i cristiani la pensano allo stesso modo. È qui che il confine tra credenza privata e comportamento pubblico rischia d'essere violato. E non importa che il credo di Buttiglione sugli omosessuali sia eventualmente condiviso da ampie maggioranze: ci sono diritti (quelli garantiti dalla Carta dei diritti ma non quello di abortire più o meno facilmente) che dovrebbero valere anche quando ci son maggioranze desiderose di smantellarli.


A questo punto si pongono tre questioni. La prima attiene all'etica personale, la seconda è costituzionale europea, la terza è storico-politica, e riguarda il peso che la memoria del passato dovrebbe o non dovrebbe avere non solo sull'agire politico, ma sulle credenze stesse degli europei occidentali.


Il problema etico personale è stato sollevato, in Italia, da politici e intellettuali che denunciano il pregiudizio anticattolico che regnerebbe nell'Unione. Si è parlato di «dogma del politicamente corretto», che impedirebbe di esprimere opinioni morali su omosessuali o parità della donna. Buttiglione ha lamentato l'«odio» che lo colpirebbe, e l'esistenza di una ricattatoria «nuova ortodossia accompagnata a una nuova inquisizione, questa volta anticristiana». Queste accuse non hanno senso, perché i parlamentari non hanno condannato una fede: hanno espresso, proprio come Buttiglione, una valutazione politica. Si sono domandati quali riflessi su Buttiglione commissario-legislatore avranno le sue convinzioni etiche. Inoltre per un filosofo e storico della Chiesa è veramente fuori posto se non blasfemo, comparare l'Inquisizione con i giudizi (non mortiferi) espressi dal Parlamento europeo.


Il problema costituzionale riguarda il diritto del Parlamento europeo a bocciare un commissario, ed eventualmente l'intera commissione (anche perché son almeno 5, i commissari ritenuti incapaci o eticamente non ineccepibili). Mi sembra completamente fuori luogo parlare di «crisi istituzionale senza precedenti», in caso di censura dell'esecutivo Barroso, e di turbativa che guasterebbe le cerimonie romane del 29 ottobre, quando i governi approveranno la costituzione europea. La bocciatura di un governo da parte del Parlamento è cosa affatto normale in uno Stato, e solo chi s'oppone a un'Unione politica considera disastroso che la stessa procedura diventi normale anche nei rapporti Commissione-Parlamento europeo (salvo poi giudicare la Commissione una burocrazia senza legittimazione democratica). Ancor più grave è che Barroso e Buttiglione (parlando sulla Stampa a Amedeo La Mattina), chiamino i governi a far pressione sui gruppi parlamentari europei.


La commissione è un organo federale che risponde davanti a deputati eletti direttamente dai popoli europei, non davanti agli Stati. La verità, forse, è che molti governi temono una prova di forza Commissione-Parlamento europeo, perché essa dimostrerebbe in maniera spettacolare (e per niente negativa, oltre che raddrizzabile) i poteri dell'assemblea sovrannazionale.


La terza questione è storico-morale. È vero, credere che l'omosessualità sia un peccato (vocabolo gravoso per i religiosi, che si paga con punizioni o Inferno) è un credo non censurabile in democrazia. Ma c'è qualcosa di più nella parola usata, e non basta ammettere - come Buttiglione nella lettera di ritrattazione a Barroso - che essa suscita «emotività». È qualcosa che con il cristianesimo ha poco a che vedere (non c'è condanna degli omosessuali nel verbo di Gesù, e l'omosessualità è equiparata a sodomia solo nell'XI secolo). Ed è qualcosa che occorre esaminare alla luce non solo della storia che ci è contemporanea, ma della storia europea del Novecento.


Per esser precisi: non si può fare a meno di ricordare che gli omosessuali, accanto a ebrei e zingari, erano considerati dal nazifascismo alla stregua di genia suscettibile di infettare la pura e prolifica razza ariana, e dunque da eliminare. Lo ricordano lapidi al campo di Sachsenhausen, dove finirono e morirono centinaia di omosessuali, e lo ricorda un monumento in Italia, a Bologna, presso i giardini di Villa Cassarini di fronte a Porta Saragozza. Gli omosessuali erano accusati sulla base del paragrafo 175 del codice penale nazista (28-6-1935) di atti licenziosi e lascivi tali da «distruggere - sono le parole di un discorso segreto di Himmler, nel '37 - la purezza e la continuità biologico-razziale del popolo tedesco». Durante il nazismo centomila di essi circa furono arrestati. Alcuni furono incarcerati, altri internati, indicibilmente seviziati come cavie, uccisi. Alla fine della guerra, ne erano sopravvissuti 4000.


Coloro che son onorati come martiri nei monumenti diventano oggetto di tabù, perché sulla memoria storica e sugli interdetti si è voluta costruire una società non disumana. E il tabù mette in evidenza come la discriminazione precedente il martirio sia una cosa, la discriminazione dopo il martirio un'altra, radicalmente diversa. Questo vale per il monumento Yad Vashem, a Gerusalemme, come per i monumenti di Sachsenhausen e Bologna evocanti coloro che, perché omosessuali, dovevano cucire sulla casacca il triangolo rosa. Come dobbiamo innalzare tabù sull'antisemitismo, così dobbiamo innalzarli anche su zingari e «triangoli rosa». Non possiamo dire che gli attacchi antiebraici di Dostoevskij sono improponibili dopo la Shoah, e quelli contro gli omosessuali no. Non possiamo rispettare i tabù sull'antisemitismo, e affermare che la critica contro la discriminazione degli omosessuali è invece un dogma anticristiano del politicamente corretto. Un poeta può forse: la letteratura osa l'indicibile. Un politico non può.


Lo stesso articolo di fede della Chiesa sugli omosessuali andrà forse rivisto in Europa e America (e secondo me lo sarà) così come son stati corretti alla luce dei crimini passati il pregiudizio anti-giudaico, le crociate, le conversioni forzate, la schiavitù dei negri. Sennò bisogna dire che anche il rifiuto dell'antisemitismo - o il rifiuto di criminalizzare zingari, malati mentali, slavi - è in fondo un dogma politicamente corretto, un'ortodossia che gli antidogmatici possono abbattere. Nessun democratico, immagino, vorrà cadere in sì grande contraddizione, e dimenticare la storia da cui gli Europei vengono, e che ha fondato e fonda ancor oggi la loro unità. [http://www.lastampa.it/redazione/editoriali/ngeditoriale1.asp]


Vorrei aggiungere che altre cose mi colpiscono nel comportamento di Rocco Buttiglione e dei suoi alleati: la desolante mancanza di cortesia, l'evidente volontà provocatoria e il successivo immancabile vittimismo. Mi fermo qui, per un insostenibile disagio.


PS. Oggi, 25 Ottobre, ho aggiunto una fotografia fortunosamente trovata. h





sabato 23 ottobre 2004

Beviamo insieme una tazza di tè


Il tè è un'opera d'arte, e solo la mano di un maestro può renderne manifeste le qualità più nobili. Esiste un tè buono e uno cattivo, così come esistono dipinti belli a altri brutti - questi ultimi più frequenti. Non esiste ricetta per preparare il tè ideale, così come non ci sono regole che consentano di creare un Tiziano o un Sesson. Ogni modo di preparare le foglie ha una propria individualità, una particolare affinità con l'acqua e il calore, un patrimonio ereditario di ricordi da rievocare, un modo tipico di raccontare. Ma in esso la vera bellezza deve essere sempre presente.


Kakuzo Okakura, Il libro del tè

martedì 19 ottobre 2004


 Domani il compleanno di Mario Luzi, nostro eccelso poeta e senatore a vita (finalmente).


Dai suoi novant'anni di vita nobile e forte, dai suoi novant'anni di saggezza e di umana dignità e di sublime poesia possiamo aspettarci difesa e protezione. Possa continuare ancora per molto a tenere alto il nostro onore con la sua arte e con la sua etica.


Una poesia 'alla vita' per festeggiare ed esprimere gratitudine per la sua esistenza.





Alla vita



Amici ci aspetta una barca e dondola
nella luce ove il cielo s’inarca
e tocca il mare, volano creature pazze ad amare
il viso d’Iddio caldo di speranza
in alto in basso cercando
affetto in ogni occulta distanza

e piangono: noi siamo in terra
ma ci potremo un giorno librare
esilmente piegare sul seno divino
come rose dai muri nelle strade odorose
sul bimbo che le chiede senza voce.


Amici dalla barca si vede il mondo
e in lui una verità che precede
intrepida, un sospiro profondo
dalle foci alle sorgenti;
la Madonna dagli occhi trasparenti
scende adagio incontro ai morenti,
raccoglie il cumulo della vita, i dolori
le voglie segrete da anni sulla faccia inumidita.
Le ragazze alla finestra annerita
con lo sguardo verso i monti
non sanno finire d’aspettare l’avvenire.


Nelle stanze la voce materna
senza origine, senza profondità s’alterna
col silenzio della terra, è bella
e tutto par nato da quella.



Mario Luzi

lunedì 18 ottobre 2004

 


Come è ammirevole


Colui che non pensa:


"La vita è effimera"


Vedendo un lampo


Basho

sabato 9 ottobre 2004


Il dialogo è vita vissuta


Annalena Tonelli 03/10 storie e reportage, ITALIA: Un anno fa è stata uccisa in Somaliland Annalena Tonelli, di Forlì, una vita dedicata al popolo somalo. La sua opera si ritrova nelle sue parole, un invito alla condivisione, al dialogo fra culture, alla speranza in un mondo di pace

5 ottobre 2004 - “Negli ultimi trent’anni, e in particolare in questi tempi tormentati e in continuo cambiamento, la sua tranquilla devozione nell’aiutare le persone che hanno bisogno è la prova vivente che gli individui possono fare una enorme differenza”. Sono parole di Ruud Lubbers, dell’ Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), pronunciate a metà aprile dello scorso anno a Nairobi.


Il soggetto dell’affermazione è Annalena Tonelli, uccisa a sangue freddo con un colpo alla nuca nella notte del 5 ottobre a Borama, nella regione a Nord Ovest della Somalia (il Somaliland). Il motivo del discorso di Lubbers era la nomina per il Nansen Refugee Award, premio conferito annualmente a persone o organizzazioni che si sono distinte per il loro lavoro a favore dei rifugiati.


Anche in quell’occasione, Annalena aveva dato prova del suo carattere schivo e modesto, recandosi a Ginevra il 25 giungo del 2003 per ricevere il premio solo perché sperava sarebbe stato utile per rifocalizzare l’attenzione del mondo sulle sofferenze della Somalia: “Per questa ragione sono grata all’UNHCR per la decisione, che ha riportato l’attenzione sulla mia amata Somalia. Io posso essere ora una voce più forte per un popolo che non ha voce”.

Lei, che da sola, senza avere alle spalle nessuna organizzazione o struttura precostituita, ha fatto la differenza, incoraggia ad andare avanti e sperare: “Ho sperimentato più volte nel corso della mia ormai lunga esistenza che non c’è male che non venga portato alla luce, non c’è verità che non venga svelata, l’importante è continuare a lottare come se la verità fosse già fatta, i soprusi non ci toccassero e il male non trionfasse” ha detto.


Anche le sue parole alla consegna del Premio Nansen sono un invito alla speranza, pur nella consapevolezza delle terribili sofferenze e crudeltà che caratterizzano il mondoAnnalena Tonelli. Annalena Tonelli infatti non era certo una sognatrice fuori dalla realtà: “Sono stata in mezzo a guerre e conflitti. Sono stata testimone di carestie devastanti, di violazioni dei diritti umani e di genocidio. Ho sentito che non avrei mai più potuto sorridere ancora nella mia vita se fossi sopravvissuta a queste catastrofi”.


Ma è andata avanti, non si è arresa per “le necessità del popolo somalo e la mia invincibile fede nell’umanità, la mia incrollabile speranza che gli uomini e le donne di buona volontà da ogni angolo del mondo come te e me decidano di combattere e continuare a lottare per coloro ai quali misteriosamente non è stata data l’opportunità di vivere una vita degna di essere chiamata vita”.

L’attività in Africa di Annalena Tonelli è iniziata quando aveva 27 anni ed è proseguita senza interruzioni per altri 33. Partita per il Kenia come insegnante nelle regioni del Nord Est, in una zona con popolazione di etnia somala, ha iniziato quasi subito a seguire le persone più sofferenti e rifiutate dalla società. Si è avvicinata così ai malati di tubercolosi e per meglio seguire chi aveva più bisogno, ha preso diplomi in medicina tropicale, controllo della tubercolosi e della lebbra, medicina di comunità.


Scappata dal Kenia a metà degli anni ottanta, per il suo tentativo di fermare i massacri nei confronti della popolazione somala in territorio keniota, è arrivata in Somalia, a Mogadiscio, durante la guerra civile, dandosi da fare nella distribuzione del cibo, e ancora una volta, nel Sud, per i malati di tubercolosi. Sempre per motivi di sicurezza, in seguito a minacce e violenze nei suoi confronti, si è poi spostata a Nord Ovest, nel Somaliland, e più precisamente a Borama. Lì è riuscita a seguire e rendere funzionante un ospedale, fino a ospitare 200 letti e dove è stata uccisa un anno fa.

Nel campo della tubercolosi, negli anni settanta è stata una pioniera della terapia breve, che ha permesso il passaggio da schemi terapeutici di un anno e oltre, a trattamenti di soli sei mesi, quindi con maggiori probabilità di essere seguiti dai pazienti e non interrotti a metà, come spesso succedeva con esiti disastrosi.


E’ diventata così resposabile di un progetto Annalena Tonellidell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la cura delle tubercolosi fra i nomadi. Annalena è riuscita a convincere i malati ad accamparsi nelle vicinanze di un Centro di riabilitazione per disabili dove lavorava per tutti i mesi necessari alla terapia, per poi ricongiungersi alla propria famiglia o gruppo una volta guariti.


A Borama ha continuato la sua lotta contro la tubercolosi, ed è arrivata a seguire 400 pazienti al giorno, di cui la metà ricoverati e l’altra metà in ambulatorio. Ma è riuscita anche ad assistere e aiutare altri reietti e isolati della società, come i bambini sordi, per i quali ha costruito una scuola; gli epilettici, i malati di mente, o ancora le persone rese cieche per la cataratta, per i quali ha organizzato due volte l’anno la visita di chirurghi, che con l’intervento hanno ridato la vista a 3.700 persone.


Il suo impegno è stato instancabile anche su tematiche di difficile gestione, su cui la consapevolezza e l’importanze delle parole giuste hanno un peso particolare, come le mutilazioni genitali femminili o, negli ultimi anni, l’AIDS, inevitabilmente collegata alla tubercolosi, suo primo impegno.

Durante la sua instancabile attività ha subito minacce di morte, un rapimento; è stata picchiata. Ha faticato non poco prima di farsi accettare da una popolazione di una cultura apparentemente diversa, in quanto donna sola, giovane (quando ha cominciato), cristiana, non sposata. Ma alla fine ha prevalso la sua dedizione disinteressata e il suo amore per gli altri, dimostrato fin dagli anni passati in Kenia, quando ha rischiato in prima persona, fino a essere arrestata, per difendere il popolo somalo.


In un discorso pronunciato nel dicembre del 2001 in Vaticano, ha detto: “In senso molto più largo, il dialogo con le altre religioni è questo. E’ condivisione. Non c’è bisogno di parole. Il dialogo è vita vissuta; e meglio (almeno io lo vivo così) se è senza parole”.


Una cosa ha tenuto a precisare, parlando della sua vita, interrotta brutalmente un anno fa: “Non è sacrificio. E’ pura felicità. Chi altro sulla Terra ha una vita così bella?”.


Valeria Confalonieri - http://www1.emergency.it/pr/storia.php?id=150











venerdì 8 ottobre 2004

Nessun impero dura per sempre. Verso un nuovo

 






ordine mondiale?

 











di Johan Galtung (a cura di Giulio Marcon e Duccio Zola)

 






Giovedì 24 giugno l'associazione Lunaria, in collaborazione con il Master in Educazione alla pace dell'Università degli Studi di Roma Tre, ha invitato un ospite d'eccezione, Johan Galtung, a delineare i possibili scenari geopolitici dopo la fine dell'era imperialistica americana. La conferenza ha avuto luogo presso la facoltà di Lettere di Roma Tre.



Johan Galtung (Oslo, 1930) è il più insigne teorico dei moderni studi sulla pace. Studioso del pensiero gandhiano della nonviolenza, ha sviluppato un approccio teorico-metodologico interdisciplinare e organico, capace di legare economia, sociologia, letteratura, storia delle civiltà e delle religioni. Molti dei suoi saggi e delle sue pubblicazioni sono raccolti nei nove volumi di "Essays on Peace Resarch and Methodology". [...]

La sua conferenza è stata dedicata alla memoria di Tom Benettolo.


L'Unione Sovietica, gli Stati Uniti e la teoria della sinergia delle contraddizioni sincronizzate

Gli imperi vengono, gli imperi vanno. Nessun impero dura per sempre. Un impero è un insieme articolato di conquiste militari, dominio politico, sfruttamento economico e penetrazione culturale. Per una corretta definizione di cosa si intenda per impero non ci si può dunque ridurre alla sola dimensione economica. La conferma indiretta di questa teoria viene da un famoso pianificatore del Pentagono [Ralph Peters, colonnello dell'esercito americano durante gli anni ottanta e novanta, NdR], il quale ha affermato che il fine dell'esercito degli Stati Uniti sia quello di rendere il mondo sicuro per favorire, oltre all'interesse commerciale, l'offensiva culturale americana, prima di aggiungere con grande lungimiranza: "Toward this end there will be a fair amount of killing" ("Per questo scopo avremo un numero non trascurabile di morti").
A tal proposito è bene ricordare che, in seguito a settanta interventi militari a partire dal secondo dopoguerra, gli Stati Uniti si sono resi colpevoli della morte di un numero di persone compreso tra dodici e sedici milioni. L'ultimo di questi interventi, risalente a poche settimane fa, porta il nome di Haiti, il penultimo quello dell'Iraq. Nel 1980 ho sviluppato una teoria sulla fine dell'impero dell'Urss che aveva come fondamento la "sinergia delle contraddizioni sincronizzate" e che prevedeva il crollo sovietico entro dieci anni, preceduto dalla caduta del muro di Berlino. Un impero fortemente militarizzato, che imponga uno strettissimo controllo sociale, è in grado di impedire che una contraddizione generi una condizione di crisi irreversibile, ma quando le contraddizioni aumentano e si crea una correlazione tra di esse, l'unica soluzione è rappresentata da un cambio dell'intero sistema.
Nell'ex-Unione Sovietica erano presenti sei contraddizioni sincronizzate, tra l'Unione Sovietica stessa e gli Stati satellite, tra la nazione russa e le altre nazioni dell'impero, tra aree urbane e rurali, tra borghesia socialista e classe operaia socialista, tra liquidità e mancanza cronica di beni di consumo, tra miti e realtà. Due mesi prima rispetto alla mia previsione, nel novembre del 1989, è stato abbattuto il muro di Berlino, subito dopo si è smembrato l'impero sovietico. Ebbene, al momento gli Stati Uniti hanno ben quindici contraddizioni, che non elencherò in questa sede, ma che potete trovare sul sito di Transcend, l'organizzazione internazionale per la risoluzione dei conflitti di cui sono direttore.
Cinque anni fa, nel 1999, ho azzardato che l'impero americano sarebbe crollato entro venticinque anni. Da quando è stato eletto Bush, ho ridotto di cinque anni questa previsione: nelle teorie sistemiche si direbbe che siamo di fronte a un acceleratore di sistema! A differenza di Bill Clinton, persona brillante che non ha creduto nel ruolo imperiale statunitense e per questo si è occupato di altro alla Casa Bianca, anche di attività non proprio virtuose, trovo che Bush sia profondamente arrogante e ignorante. Meglio ancora, credo che egli sia stupido, esattamente come uno studente di un college che non riesce ad andare oltre una misera c nelle sue votazioni. Naturalmente sto sperando nella sua rielezione! Dietro questa battuta si celano una reale preoccupazione e una piccola provocazione nei confronti di John Kerry, che considero più come una sorta di Bush-light, che come un'alternativa affidabile in grado di segnare una svolta decisiva nei confronti della politica imperialista di Washington.
A questo punto proviamo a intraprendere
un rapido giro del mondo per identificare i possibili scenari del cambiamento geopolitico dovuti alla scomparsa dell'attuale forma di dominio imperiale americano, iniziando proprio dagli Stati Uniti.


Golpe fascista o processo di verità e riconciliazione negli Stati Uniti?


Quando, come abbiamo detto, tra quindici o venti anni un presidente americano illuminato si renderà conto dell'inevitabilità, per gli Stati Uniti, di ritirare le truppe di occupazione, di ridurre drasticamente il numero delle basi militari dislocate ai quattro angoli del mondo, di partecipare alle relazioni internazionali come un paese uguale a tutti gli altri e non più sovraordinato a essi, quando insomma si appresterà a modificare radicalmente la politica estera americana, allora prevedo la minaccia incombente di un golpe di stampo fascista e reazionario. Lo scopo di questo colpo di stato, che ricalcherebbe quello sfiorato negli anni 1932-33 durante la presidenza di Roosevelt, sarebbe di riaffermare il dominio imperiale della nazione americana, naturalmente sotto il mandato di Dio come popolo eletto. Ciò che dobbiamo fare fin da ora, dunque, è insegnare al popolo americano i valori dell'uguaglianza, far capire loro che non esistono popoli scelti, che apparteniamo tutti allo stesso pianeta, che solo lavorando insieme possiamo migliorare le cose e che il luogo deputato per un'azione politica comune e condivisa si chiama Onu, a patto che il funzionamento di quest'ultimo non dipenda esclusivamente dal ruolo di un consiglio di sicurezza dotato di poteri esclusivi ed egemonizzato da un'unica superpotenza.
Quando mi reco negli Stati Uniti per tenere conferenze o seminari e faccio circolare la lista dei settanta interventi militari americani cui prima accennavo, mi accorgo che c'è un'ignoranza diffusa su questi temi. Un professore universitario americano mi ha raccontato che nel 1991 aveva chiesto in un test ai propri studenti di indicare tra quali nazioni fosse stata combattuta la guerra del Vietnam. La risposta più frequente era stata tra Corea del Nord e Corea del Sud! Uno studente aveva addirittura sbagliato a scrivere correttamente il nome dei due paesi! Da questo esempio si capiscono molte cose, si capisce ad esempio perché gli americani non abbiano compreso affatto l'11 settembre. Essi non colgono il nesso strettissimo tra economia e guerre. A questo proposito vorrei far notare che uno studioso italiano molto famoso ha scritto un testo, "Impero", senza analizzare gli interventi militari americani. Naturalmente questo libro, che personalmente non ho apprezzato affatto, è stato entusiasticamente pubblicato negli Stati Uniti dalla Harvard University Press!


Sono convinto che in America ci sia bisogno di un processo pubblico di verità e riconciliazione e che sia assolutamente realistico attendersi questo esito. È importante ricordare che l'emancipazione dei cittadini tedeschi dall'eredità del passato nazista è avvenuta proprio in seguito a un percorso analogo, che essi hanno compiuto non soltanto grazie all'ammissione delle proprie colpe, alla ricompensa economica nei confronti di chi è stato vittima del regime hitleriano, alla confessione totale dei propri crimini, ma anche grazie alla pubblicazione di testi scolastici e alla diffusione di un tipo di narrativa in cui la parola Auschwitz ricorre molto spesso. In questo modo le generazioni che si sono succedute dal dopoguerra hanno avuto la possibilità di capire e di imparare: oggi la Germania è uno Stato democratico e per molti aspetti illuminato. Il nostro compito, oggi, è quello di sostenere con forza le ragioni del dialogo e del confronto culturale in modo tale che anche i nostri amici americani possano svelare la verità che finora è rimasta loro nascosta. Tornando al nostro breve viaggio intorno al mondo, una scossa positiva negli Stati Uniti senza dubbio favorirebbe il processo di liberazione che sta avvenendo in America Latina, processo che vedo destinato alla futura costituzione degli Stati Uniti dell'America Latina: proprio come per gli Stati Uniti, ma senza la bomba atomica!
Spostiamoci ora in Europa occidentale, dove la situazione è particolarmente delicata.


L'effetto euro e il peso genetico del passato coloniale europeo


Gli europei non immaginano quale minaccia rappresenti per gli Stati Uniti il percorso di cementificazione dell'Unione Europea. Essi, preoccupati piuttosto dell'impatto dell'euro sulle rispettive economie nazionali, non conoscono il pericolo dell'introduzione di una moneta continentale sempre più forte e accreditata per gli scambi internazionali rispetto a un dollaro svalutato e soggetto a tendenze inflazionistiche. In America c'è il forte timore che l'euro venga utilizzato come moneta di scambio commerciale, che in euro, ad esempio, venga pagato il petrolio. Saddam Hussein, non a caso, è stato il primo capo di stato a concretizzare le paure americane: un'analisi esauriente della guerra irachena non può prescindere da una chiave di lettura che tenga conto delle relazioni geopolitiche ed economiche tra blocchi continentali.
Per quanto riguarda il futuro europeo, dobbiamo prestare molta attenzione al fatto che ben undici nazioni dell'Unione abbiano avuto un passato coloniale. L'Italia, ad esempio, è stato tra i primi paesi a utilizzare il terrorismo di stato per fini imperialistici. Quando, nel 1911, sono avvenuti bombardamenti e massacri di civili nel deserto libico, l'esercito italiano ha rivendicato il buon esito dell'operazione, sostenendo di aver prodotto un effetto morale molto positivo. Forse anche per l'Italia, almeno nel caso della vicenda libica, c'è bisogno di un processo di verità e riconciliazione.
Tenere presente il peso genetico del passato coloniale europeo, allora, è di fondamentale importanza per impedire che si affermi in Europa una linea politica centrata sulla volontà di istituire un contrappeso, o meglio un'alternativa imperialista nei confronti degli Stati Uniti.
L'Europa, invece, deve restare sotto l'ombrello di un Onu riformato. L'entrata a breve termine della Turchia nell'Unione, inoltre, è un fatto molto positivo che può colmare il vuoto di relazioni, la distanza politica e culturale, tra l'Islam e l'Occidente, e può rappresentare l'occasione per un ruolo di pace e dialogo da parte di questo continente. Un altro elemento degno di considerazione è la possibilità di intrattenere buone relazioni con una futura e possibile Unione Russa, in cui per la Cecenia si prospetti una collocazione autonoma e federata, simile a quella del Lussemburgo rispetto all'Unione Europea. Quest'ultima dunque, se si delineasse il quadro che ho appena abbozzato, potrebbe risolvere due seri problemi, il rapporto con il mondo musulmano e quello con le regioni cattolico-ortodosse e potrebbe contare su un futuro più sereno e su un ruolo centrale nelle future relazioni internazionali.
Quando terminerà la fase imperiale americana prevedo che si verrà a costituire una comunità dell'Asia orientale tra paesi confuciani e buddisti, comprendente Giappone, Cina, Vietnam e Corea, forte di una popolazione di oltre un miliardo e mezzo di persone e di una economia dai tassi di crescita notevoli, con i cui futuri stati membri l'Unione Europea ha già intessuto buoni rapporti.
Andiamo a verificare ora la situazione mediorientale e quella africana.


Un'autostrada, una ferrovia: un modello federativo per Africa e Medio oriente


L'idea di Abramo di indicare una terra promessa per un popolo eletto è interessante, ma, come dicono gli arabi, nessuno ha firmato questo patto, né esiste una registrazione o un rapporto stenografico in merito! Dico questo per sottolineare la presenza di un asse religioso di stampo fondamentalista tra giudaismo e cristianesimo, un'alleanza pericolosa e molto stretta, la cui voce, sostenuta negli Stati Uniti da una lobby di pressione più forte ancora della National Rifle Association, gode di grande ascolto e considerazione a Washington.
Personalmente credo nella legittimità dell'esistenza di uno stato israeliano e di uno palestinese, ma non ritengo che la soluzione dei "due popoli, due stati" sia la migliore. Tra i due paesi c'è una evidente sproporzione di forze a scapito della Palestina, attestata peraltro dalle risoluzioni Onu numero 242 e 338, che priverebbe di qualsiasi fondamento questo progetto. Dovremmo piuttosto pensare a un modello federativo, a creare cioè una comunità di paesi mediorientali, di cui facciano parte uno stato palestinese riconosciuto, Israele, Siria, Libano, Giordania e Egitto e in cui proprio le nazioni arabe, in particolare quella egiziana, possano rappresentare un legittimo contrappeso rispetto a Israele. Dopo mille anni senza traccia alcuna di una sinergia tra le culture mediorientali, questa soluzione permetterebbe, sul modello della Comunità europea del 1958, l'affermazione di un'economia cooperativa e, nel lungo periodo, della libera circolazione delle persone, oltre che degli investimenti, nell'intera regione.
Un primo segnale per dar corpo al progetto federativo potrebbe essere quello di realizzare un'autostrada che attraversi tutta la zona mediorientale, che parta da Damasco e arrivi al Cairo, passando per Tiberiade, Gerusalemme, Tel Aviv, Gerico, Amman e Akaba. Dal punto di vista politico il tracciato da seguire non può però essere quello, tradizionale, delle relazioni diplomatiche tra i governi della regione interessata. Oggi quei governi sono screditati, non godono di rappresentatività e non possono essere considerati interlocutori affidabili.
Ho tenuto moltissimi seminari, conferenze, incontri in Medio Oriente e ho accumulato una lunga esperienza da cui ho tratto un insegnamento e un'indicazione preziosi.


Occorre agire dal basso, coinvolgendo in modo ampio e costante quante più persone e gruppi possibili della società civile mediorientale per prospettare insieme gli scenari di una regione pacificata. Invece di rivolgere lo sguardo al passato, di risvegliare odi e rivalità mai sopiti attribuendo colpe e responsabilità, è necessario elaborare idee costruttive tenendo presente che l'unico collante possibile è la volontà di costruire un futuro comune di pace e cooperazione. Quando ho fatto questo, quando insieme si è discusso su quale futuro si immagina per il Medio Oriente, ho visto occhi lucidi e carichi di speranza. La pace sta nel futuro, non in un dibattito senza uscita sulle colpe del passato. Questo lo sanno soprattutto le giovani generazioni mediorientali, su cui ripongo grandi aspettative.
Il modello federativo che ho proposto per il Medio Oriente vale anche per l'Africa centrale. Qui, dove è molto forte il peso dell'imperialismo europeo, vedo infatti la possibilità della costituzione di una Confederazione Bioceanica, che comprenda Tanzania, Uganda, Ruanda, Burundi, Repubblica democratica del Congo e Congo Brazzaville. Parlo di una confederazione con confini aperti, dall'Oceano Indiano all'Oceano Atlantico, attraversata da una ferrovia, a patto che non venga costruita dagli europei: a essi piuttosto andrebbe cambiata la bussola dal momento che non conoscono la direttrice est-ovest, ma solo quella nord-sud! Per quanto riguarda, inoltre, l'intero continente, dobbiamo sostenere con forza il processo di unità africana, fortemente osteggiato da Europa e Stati Uniti. Noi occidentali non abbiamo alcun diritto di mantenere le divisioni, ma solo il dovere delle scuse, della ricompensa e della verità nei confronti delle popolazioni africane che abbiamo colonizzato e sfruttato.

La Cina, l'India, la Russia, il documento JCS570/2 e la terza guerra mondiale


Spostiamoci ora nella zona più delicata del mondo, quella che comprende Cina, India e Russia. Proprio qui gli Stati Uniti stanno preparando la terza guerra mondiale. Gli strateghi americani della Casa Bianca e del Pentagono seguono una dottrina imperiale che si può sintetizzare in una vecchia formula, risalente al periodo coloniale inglese dei primissimi anni del Novecento: chi domina l'Europa orientale, domina l'Asia centrale; chi domina l'Asia centrale, domina l'isola mondiale (cioè la regione che comprende Europa, Asia e Africa); chi domina l'isola mondiale, domina il mondo.
Questa tesi, evidentemente folle, gode di grande considerazione a Washington. Essa viene riproposta nientemeno che nel più importante e illuminante documento che attesta la linea geopolitica imperialista americana, il documento JCS570/2. Provate a richiederlo presso l'ambasciata o il ministero degli esteri americano, vedrete che faccia faranno! Questo documento rappresenta la risposta all'interrogativo di Roosevelt riguardo a quale linea di politica estera avrebbero dovuto tenere gli Stati Uniti dopo la conclusione della seconda guerra mondiale.
L'esigenza era quella di rendere il mondo sicuro per i commerci americani. A questo scopo furono individuate tre aree geografiche su cui imporre un rigido controllo, l'Europa occidentale, l'Asia orientale e l'America Latina del nord. Il progetto fu concretizzato e formalizzato attraverso la sigla di tre distinti trattati militari, rispettivamente la Nato, l'Ampo e il Tiap. Lo stesso Kerry si è pronunciato a favore del mantenimento di questo sistema di alleanze in modo tale da poter continuare a dominare il mondo con mezzi multilaterali, cioè con l'appoggio degli alleati. Da ciò si capisce il motivo per cui non mi aspetto molto da lui.
Tornando alla regione di Cina, India e Russia appare subito evidente che essa presenta il 40% dell'intera popolazione mondiale e che si situa precisamente nel bel mezzo dell'espansione della Nato, da una parte, e dell'Ampo, dall'altra. Se a questo poi aggiungiamo che gli Stati Uniti stanno prendendo il controllo della regione grazie alla costruzione di numerosi avamposti militari, ad esempio nelle repubbliche islamiche dell'ex-Unione Sovietica, e che i tre paesi in questione prevedibilmente raggiungeranno un accordo per il controllo comune della zona, avremo tutti gli elementi per comprendere la delicatezza della situazione.
Di tutto questo, naturalmente, nessuno sa nulla. I giornalisti invece di promuovere un dibattito, di informare l'opinione pubblica su temi così importanti, preferiscono restare a dormire nel proprio letto, in attesa di essere svegliati dall'esplosione di una bomba e di poter dare così notizia dell'inizio di una nuova guerra. Rimanendo ancora per un momento nell'area asiatica, vorrei accennare al fatto che l'idea di fare dell'Afghanistan e dell'Iraq due stati unitari è un'illusione occidentale. Sul territorio iracheno convivono quattro nazionalità, curda, turcomanna, sunnita e sciita, su quello afgano ben undici. Un modello federale è l'unica alternativa praticabile per questi due paesi.


Una ristrutturazione, un ampliamento, un trasloco: tre riforme per le Nazioni Unite


Da quanto detto finora apparirà chiaro che per prevenire il delinearsi di scenari drammatici legati alla volontà di dominio imperialista, gli Stati Uniti, molto semplicemente, dovrebbero lasciare la gestione del mondo al mondo stesso. Anche se necessita di una profonda riforma, lo strumento per l'auto-governo del mondo si chiama Onu. Penso che una complessiva riarticolazione possa avvenire nell'arco di venti anni e debba fondarsi su tre punti programmatici fondamentali.


Il primo di questi riguarda un ripensamento del ruolo e delle funzioni del Consiglio di sicurezza. Innanzitutto è necessario abolire il diritto di veto, un sistema feudale che non ha nulla da spartire con il mondo moderno e grazie a cui gli Stati Uniti, che lo hanno utilizzato 76 volte, hanno potuto paralizzare il funzionamento dell'intera Organizzazione. Si deve inoltre espandere il numero dei paesi membri del Consiglio di sicurezza a 54, cioè il numero degli stati presenti nel Consiglio economico e sociale, l'organo che dirige con buoni risultati le agenzie speciali. Infine occorre abolire l'articolo 12/A della carta delle Nazioni Unite, che afferma che sui temi di competenza del Consiglio di sicurezza, l'Assemblea generale non ha il diritto di promuovere risoluzioni. Più in generale si può affermare che la presenza di cinque membri permanenti, quattro cristiani e uno confuciano, con diritto di veto all'interno del Consiglio di sicurezza, sia un'assurdità clamorosa agli occhi dei 56 stati musulmani. Noi occidentali potremmo assegnare legittimità e promettere obbedienza a un Consiglio di sicurezza egemonizzato dalla presenza del veto di quattro membri musulmani e uno confuciano? Non credo. Inoltre non vedo come sia possibile che i paesi musulmani rispettino la volontà di un Consiglio che si è reso colpevole della morte di oltre 500mila persone, soprattutto bambini, in seguito all'imposizione delle sanzioni economiche in Iraq. Questo naturalmente non è un argomento a favore di Saddam Hussein, ma solo la constatazione di un fatto drammatico. Per uscire pacificamente dallo stallo e per garantire la piena sovranità irachena credo che si debba affiancare all'Onu, necessario ma non sufficiente, la Conferenza islamica, che conta 56 stati membri e di cui si sente parlare ben poco.
Il secondo punto di riforma riguarda la democratizzazione delle Nazioni Unite. È necessario creare un Parlamento che preveda un rappresentante per ogni milione di cittadini. In questo modo avremmo un Assemblea con 1.250 cinesi, 1.000 indiani, 275 americani, 190 russi, 9 svedesi, forse un pò troppi!, 4 norvegesi e via dicendo. La presenza degli occidentali in un Parlamento siffatto si ridurrebbe al 22%: un buon test per verificare la disposizione ai valori democratici che diciamo di sostenere! La precondizione che sta dietro a questa soluzione prevede che tutti i rappresentanti non siano scelti e designati, bensì vengano eletti in elezioni democratiche, regolari, libere e segrete. Questo elemento fondante consentirebbe, ad esempio, l'avanzamento del processo di democratizzazione in Cina. Se l'intervento militare in Iraq fosse stato discusso in questo Parlamento mondiale, e non al Congresso americano, certamente non sarebbe stato avallato.
Il terzo e ultimo punto di riforma consiste nel trasferimento dell'Onu. Credo che la sede ideale sia Hong Kong, dove si parlano le due lingue più importanti, inglese e cinese, e dove i servizi segreti cinesi sono sicuramente meno dannosi rispetto a quelli americani e inglesi. A me pare che il progetto di riforma che ho appena abbozzato sia pienamente realistico, non è invece realistica la continuazione della politica imperialista americana.

Mr. President, the choice is yours!


Ho da poco scritto il testo per un'inserzione su un'intera pagina del "Washington Post". Rivolgendomi direttamente al presidente Bush ho espresso un'opinione e un giudizio diffusi sugli Stati Uniti e sulla vicenda irachena. Noi tutti amiamo l'immensa forza creativa e la generosità americana e per questo ci aspettiamo una politica forte, generosa e creativa per l'Iraq.


Solo un paese debole non è in grado di cambiare una linea falsa e fallimentare. Desideriamo quindi scuse pubbliche e ufficiali nei confronti del popolo iracheno per aver intrapreso una guerra ingiusta e illegale e ricompense economiche per le vittime del conflitto, il cui costo sia in parte coperto dagli stati che hanno appoggiato l'intervento.
"Mr. President, the choice is yours", Signor Presidente, a lei la scelta! Se Bush, o chi verrà dopo di lui, avrà il coraggio di cambiare radicalmente la rotta della politica estera americana, guadagnerà rapidamente la stima per gli Stati Uniti e il terrorismo rapidamente cesserà, altrimenti con la perdita definitiva della prima avremo la crescita esponenziale del secondo.
Se, da una parte, devo ammettere di non essere ottimista sul tanto auspicato cambio di registro, dall'altra è doveroso sottolineare che la carta del cambiamento non sta esclusivamente nelle mani dei vertici dell'amministrazione politica e militare di Washington, ma anche in quelle dell'intero popolo americano. Su di esso ripongo le mie speranze.


Gli americani hanno l'occasione di liberarsi definitivamente dell'immagine ambigua che gli Stati Uniti hanno agli occhi del mondo, di rendere il loro paese esattamente uguale agli altri 191, di creare e governare insieme a essi un mondo migliore.


Fonte: Lo Straniero n° 52, ottobre 2004 - 7 ottobre 2004


http://www.lostraniero.net/ottobre04/galtung.html



Wangari Maathai




 


 


L'ecologista Wangari Maathai


sottosegretario al Ministero per l' Ambiente in Kenia, premio Nobel per la Pace 2004.