domenica 31 agosto 2003

 


L'OPERA D'ARTE : ECO DEL MOTO DEL MONDO


Oskar Kokoschka, Bride of the Wind, oil on canvas, a self-portrait expressing his unrequited love for Alma Mahler, widow of composer Gustav Mahler, 1913_WIKIPEDIA




L'arte è l'invocazione angosciosa di coloro che vivono in sé il destino dell'umanità. Che non se ne appagano, ma si misurano con esso. Che non servono passivi il motore chiamato "oscure potenze", ma si gettano nell'ingranaggio in moto per comprenderne la struttura. Che non distolgono gli occhi per mettersi al riparo da emozioni, ma li spalancano per affrontare ciò che va affrontato. E che però spesso chiudono gli occhi per percepire ciò che i sensi non trasmettono, per guardare al di dentro ciò che solo in apparenza avviene al di fuori. E dentro, in loro, è il moto del mondo; fuori non ne giunge che l'eco: l'opera d'arte


A. Schoenberg

sabato 30 agosto 2003

UN AMORE


Holiday - Dante and Beatrice HOH001 ... Image Loading


HENRY HOLIDAY DANTE E BEATRICE


( incontro immaginario di Dante e Beatrice sui Lungarni in una Firenze ottocentesca)

venerdì 29 agosto 2003

LA   TEMPESTA



Miranda  -  W. Waterhouse

27.08.2003



Martin Luther King il Sogno Spezzato


di Ariel Dorfman


Lontano, ero lontano da Washington D.C. in quel caldo giorno dell’agosto del 1963 nel quale dalle scale del Lincoln Memorial Martin Luther King pronunciò il suo famoso discorso, ero lontano, mi trovavo in Cile. All’epoca avevo ventuno anni e, come molti altri della mia generazione, ero preso dalla lotta per liberare l’America Latina e il discorso di King che avrebbe esercitato una profonda influenza sulla mia vita passò inosservato, non ricordo nemmeno di essermene accorto. Ricordo invece con feroce precisione il luogo e la data e persino l’ora in cui molti anni dopo ebbi l’occasione di ascoltare per la prima volta quelle parole “ho un sogno”, di udire quella melodiosa voce baritonale, quegli incantamenti, quella certezza emotiva della vittoria. E ricordo quell’occasione così chiaramente perché era il giorno dell’omicidio di Martin Luther King, il 4 aprile 1968, e da quel giorno il suo sogno e la sua morte sono rimasti dolorosamente collegati, uniti nella mia mente allora come oggi, a quaranta anni di distanza, nel mio ricordo.
Ricordo che me ne stavo seduto con mia moglie Angelica e il nostro figlioletto di un anno, Rodrigo, in un soggiorno sulle colline di Berkely, la cittadina universitaria della California, dove eravamo arrivati appena una settimana prima. I nostri ospiti, una famiglia americana che ci aveva generosamente offerto un alloggio temporaneo mentre il nostro appartamento veniva sistemato, avevano acceso il televisore e tutti solennemente guardavamo il telegiornale della sera, probabilmente quello delle 19, probabilmente Walter Cronkite. Ed ecco l’omicidio di Martin Luther King in quell’albergo di Memphis e poi i servizi sui disordini in tutta l’America e finalmente un lungo filmato sul suo discorso “ho un sogno”.
Fu solo allora, penso, che capii o mi resi conto o cominciai a capire chi era stato Martin Luther King, cosa avevamo perso con la sua morte, la leggenda che già si andava dipanando dinanzi ai miei occhi. Negli anni a venire sarei spesso ritornato su quel discorso e in ogni occasione dalla montagna dei suo significati avrei staccato una roccia diversa sulla quale salire per capire il mondo.
Aldilà del mio stupore per l’eloquenza di King quando nel 1968 lo ascoltai per la prima volta, la mia reazione immediata non fu quella di essere ispirato bensì di essere lucido, sconcertato, prossimo alla disperazione. Dopo tutto, al massacro di questo uomo di pace si rispose non impegnandosi a proseguire nel solco della sua predicazione, ma con furiosi tumulti nei bassifondi dell’America nera, dell’America privata dei diritti civili che vendicava il suo leader morto bruciando i ghetti nei quali si sentiva imprigionata e impoverita, usando il fuoco questa volta per proclamare che la non violenza che King aveva auspicato era inutile, che il solo modo per porre fine all’ingiustizia in questo mondo era con la canna del fucile, il solo modo per attirare l’attenzione dei potenti era spaventandoli a morte.
L’omicidio di King quindi fece riemergere brutalmente una volta ancora un interrogativo che aveva tormentato me e moltissimi altri attivisti sul finire degli anni ‘60: quale era il metodo migliore per conseguire un cambiamento radicale?



  • Potevamo concepire una ribellione nel modo in cui l’aveva immaginata Martin Luther King senza abbeverarci alla coppa dell’amarezza e dell’odio, senza trattare i nostri avversari come essi trattavano noi?

  • O forse la strada verso il palazzo della giustizia e il giorno luminoso della fratellanza vuole come inevitabile compagna la violenza, la violenza come inevitabile levatrice della rivoluzione?


Domande alle quali, tornato in Cile, sarei ben presto stato costretto a rispondere, non con confuse riflessioni teoriche, ma nella quotidiana realtà della storia quando Salvador Allende venne eletto presidente nel 1970 e divenimmo il primo paese che tentava di costruire il socialismo con mezzi pacifici. La visione di Allende del cambiamento sociale elaborata nell’arco di decenni di lotte e riflessioni, era analoga a quella di King pur avendo i due origini culturali e politiche molto diverse. Allende, ad esempio, che non era affatto religioso, non avrebbe convenuto con l’affermazione di Martin Luther King che alla forza fisica bisogna rispondere solo con la forza d’animo, ma avrebbe preferito parlare di forza dell’organizzazione sociale. In un momento in cui molti in America Latina erano abbagliati dalla lotta armata proposta da Fidel Castro e Che Guevara, fu la straordinaria impresa di Allende ad immaginare come inestricabilmente connesse le due ricerche della nostra epoca, la ricerca di più democrazia e di più diritti civili, da un lato, e la ricerca parallela, dall’altro, di giustizia sociale e di potere economico per i diseredati della terra.


E il destino di Allende avrebbe richiamato il destino di Martin Luther King quando Allende scelse di morire tre anni dopo. Sì, l’11 settembre 1973, a quasi dieci anni dal discorso “ho un sogno” di King a Washington, Allende scelse di morire difendendo il suo sogno, promettendoci nel suo ultimo discorso che


più presto che tardi, mas semprano que tarde, sarebbe arrivato il giorno in cui le donne e gli uomini liberi del Cile avrebbero camminato per las amplias alamedas, i grandi viali pieni di alberi, verso una società migliore.
Fu nel periodo immediatamente successivo a quella terribile sconfitta, mentre osservavamo i potenti del Cile imporre a noi il terrore che non avevamo voluto impiegare contro di loro, fu allora, mentre alla nostra non violenza si contrapponevano le esecuzioni e la tortura e le sparizioni, fu solo allora, dopo il colpo di Stato militare del 1973, che cominciai per la prima volta a sentirmi in comunione con Martin Luther King, che il suo discorso sulle scale del Lincoln Memorial prese a perseguitarmi e a pormi delle domande. Era come se fossi andato in un esilio che sarebbe durato molti anni e la voce e il messaggio di King cominciarono a penetrare pienamente, parola per parola, nella mia vita.


Se mai c’è stata una situazione in cui la violenza sarebbe stata giustificata, sarebbe stato, dopo tutto, contro la giunta cilena. Pinochet e i suoi generali avevano rovesciato un governo costituzionale e uccidevano e perseguitavano cittadini il cui peccato mortale era stato quello di immaginare un mondo dove non è necessario massacrare i propri avversari per consentire alle acque della giustizia di scorrere.


Eppure molto saggiamente, quasi istintivamente, la resistenza cilena imboccò una strada diversa: assumere lentamente, risolutamente, pericolosamente il controllo della superficie del paese, isolare la dittatura all’interno e all’esterno del Cile, rendere il Cile ingovernabile con la disobbedienza civile. Una linea non completamente diversa dalla strategia che il movimento dei diritti civili aveva abbracciato negli Stati Uniti. Ed infatti non mi sono mai sentito più vicino a Martin Luther King quanto durante i diciassette anni che ci vollero per liberare il Cile dalla sua dittatura. Le sue parole ai militanti che si accalcarono a Washington D.C. nel 1963 e che li invitavano a non perdere la fede, risuonavano dentro di me, confortavano il mio cuore triste. Parlava profeticamente a me, a noi quando disse: “Non dimentico che alcuni di voi sono giunti qui dopo grandi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere”. Parlando a noi il dottor King parlava a me quando tuonava: “Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà vi ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa”. Capiva che più difficile di andare alla prima protesta era svegliarsi il giorno dopo e andare alla protesta successiva e poi ancora a quella dopo, il quotidiano macinare di piccoli atti che possono portare a grandi e letali conseguenze. I cani e gli sceriffi dell’Alabama e del Mississippi erano vivi e vegeti nelle strade di Santiago e Valparaiso così come lo spirito che aveva incoraggiato uomini e donne e bambini inermi a farsi falciare, percuotere, bombardare, perseguitare continuando ad opporsi agli oppressori con le sole armi disponibili: la sofferenza dei loro corpi e la convinzione che nulla poteva farli indietreggiare.


E proprio come i neri negli Stati Uniti, anche in Cile cantavamo per le strade delle città che ci erano state rubate. Non gli spiritual in quanto ogni terra ha i suoi canti. In Cile non facevamo che cantare l’Ode alla Gioia dalla Nona sinfonia di Beethoven, la speranza che sarebbe arrivato un giorno in cui tutti gli uomini sarebbero stati fratelli.



Perché cantavamo? Per farci coraggio, naturalmente. Ma non solo per questo, non solo per questo. In Cile cantavamo e ci opponevamo agli idranti e ai gas lacrimogeni e ai manganelli perché sapevamo che c’era chi stava guardando. Anche in questo seguivamo gli insegnamenti astuti, consapevoli dell’importanza dei media di Martin Luther King: che lo scontro impari tra lo Stato di polizia e la gente aveva dei testimoni, veniva fotografato, trasmesso ad altri occhi. Nel caso del profondo sud degli Stati Uniti, gli spettatori erano la maggioranza degli americani, mentre in quell’altra lotta anni dopo, nel profondo sud del Cile, il quotidiano spettacolo di uomini e donne pacifici contro i quali veniva esercitata la repressione ad opera degli agenti del terrore aveva per obiettivo le forze nazionali e internazionali di cui avevano bisogno per sopravvivere Pinochet e la sua dittatura. La tattica funzionò, naturalmente, perché


capimmo, come già Martin Luther King e Gandhi prima di noi, che i nostri avversari potevano essere influenzati e svergognati dall’opinione pubblica, potevano in realtà essere persino costretti ad abbandonare il potere.


Così fu sconfitta la segregazione nel sud degli Stati Uniti, così il popolo cileno sconfisse Pinochet con un plebiscito nel 1988 che port alla democrazia nel 1990, questa è la storia della caduta delle tirannie in Iran e in Polonia e nelle Filippine.


Non di meno analoghe lotte di liberazione contro il regime dell’apartheid in Sud Africa o l’autocrazia omicida in Nicaragua o i sanguinari Khmer rossi in Cambogia hanno dimostrato che le parole premonitrici di King sulla non violenza non potevano essere meccanicamente applicate ad ogni situazione.



E oggi? Quando torno a quel discorso che sentii per la prima volta venticinque anni fa, il giorno in cui King morì, c’è un messaggio per me, per noi, qualcosa che abbiamo bisogno di ascoltare ancora come se udissimo quelle parole per la prima volta?



Cosa direbbe Martin Luther King se vedesse cosa è diventato il suo Paese?


Se potesse vedere come il terrore e la morte abbattutisi su New York e Washington l’11 settembre 2001 hanno trasformato la sua gente in una nazione spaventata, pronta a smettere di sognare, pronta a sacrificare le sue libertà sull’altare della sicurezza?


Cosa direbbe se potesse osservare come quella paura è stata manipolata per giustificare l’invasione di una terra straniera, l’occupazione di una terra contro la volontà del suo stesso popolo? Quale alternativa avrebbe consigliato per liberarsi di un tiranno come Saddam Hussein?


E come reagirebbe alla dottrina Bush che afferma che alcune persone di questo pianeta, gli americani per essere precisi, hanno più diritti degli altri cittadini del mondo,


cosa direbbe se vedesse i suoi concittadini proclamare che a causa del loro dolore e della loro potenza economia e militare possono fare ciò che vogliono, infischiarsene del diritto internazionale, denunciare i trattati nucleari, ingannare e inquinare il mondo?


Li ammonirebbe che questa arroganza non può restare impunita?


A quanti si oppongono a queste politiche all’interno degli Stati Uniti direbbe di resistere e di contarsi, di marciare, di non lasciarsi mai andare alla disperazione?
Sono convinto che ripeterebbe alcune delle parole pronunciate in quel lontano giorno d’agosto del 1963 all’ombra della statua di Abraham Lincoln, sono persuaso che ribadirebbe la sua fede nel suo paese e quanto profondamente il suo sogno è radicato nel sogno americano, che a dispetto delle difficoltà e delle frustrazioni del momento il suo sogno è ancora vivo e che il suo paese risorgerà e terrà fede all’autentico significato del suo credo:


“crediamo che queste verità siano evidenti:


che tutti gli uomini sono creati uguali”.


Speriamo che abbia ragione. Speriamo e preghiamo, per il suo e il nostro bene, che la fede nel suo paese non era mal riposta e che a quaranta anni di distanza i suoi compatrioti presteranno ancora una volta ascolto alla sua voce decisa e gentile che li invoca da oltre la morte e da oltre la paura, che chiama noi tutti a batterci uniti per la libertà e la giustizia. 



Lo scrittore cileno Ariel Dorfman ha appena pubblicato “Exorcising Terror: The Long Goodbye to General Augusto Pinochet”
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto - da L'UNITA' 29 Agosto 2003





















giovedì 28 agosto 2003

CONTINUARE A SOGNARE


QUARANT'ANNI DOPO


OGGI



E’ bene che sia nel tuo cuore.


 





Tanti fra i nostri antenati cantavano canti di libertà e sognavano il giorno in cui sarebbero potuti uscire dalla schiavitù, dalla lunga notte dell’ingiustizia(…)


E cantavano così perché avevano un sogno grande e potente; ma molti di loro sono morti senza vederlo realizzato(…)


La lotta c’è sempre. Facciamo dichiarazioni contro la guerra, protestiamo, ma è come se con la testa volessimo abbattere un muro di cemento: sembra che non serva a nessuno.


E molto spesso, mentre si cerca di costruire il tempio della pace, si rimane soli; si resta scoraggiati; si resta smarriti.


Ebbene, così è la vita. E quel che mi rende felice è che attraverso la prospettiva del tempo riesco a sentire le loro grida: ”Forse non sarà per oggi, forse non sarà per domani, ma è bene che sia nel tuo cuore. E’ bene che tu ci provi.”


Magari non riuscirai a vederlo. Il sogno può anche non realizzarsi, ma è comunque un bene che tu abbia un desiderio da realizzare.



E’ bene che sia nel tuo cuore.


 





Martin Luther King


 



Sogni non realizzati, 1968


 



I have a dream


discorso pronunciato da Martin Luther King
Washington, 28 agosto 1963



"I have a dream"







Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività.

Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo; il negro langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra.

Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un "pagherò" del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo "pagherò" permetteva che tutti gli uomini, si, i negri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.

E’ ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo "pagherò" per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: "fondi insufficienti". Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia.

Siamo anche venuti in questo santuario per ricordare all’America l’urgenza appassionata dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del gradualismo. Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia.; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un tonificante autunno di libertà ed uguaglianza.

Il 1963 non è una fine, ma un inizio. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo.

Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai negri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia.

Ma c’è qualcosa che debbo dire alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste.

Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima.

Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli.

E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. Ci sono quelli che chiedono a coloro che chiedono i diritti civili: "Quando vi riterrete soddisfatti?" Non saremo mai soddisfatti finché il negro sarà vittima degli indicibili orrori a cui viene sottoposto dalla polizia.

Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città. Non potremo essere soddisfatti finché gli spostamenti sociali davvero permessi ai negri saranno da un ghetto piccolo a un ghetto più grande.

Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono:"Riservato ai bianchi". Non potremo mai essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente.

Non ha dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice.

Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.

E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.

Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.

Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.

Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.

Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.

Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.

Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.

Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.

Ma non soltanto.

Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.

Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.

Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del
Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.

E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei
e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual:




"Liberi finalmente, liberi finalmente





grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente".






























































mercoledì 27 agosto 2003

MARTE e' VICINISSIMO ... dopo 60.000 anni




Image and caption details courtesy: NASA and The Hubble Heritage Team (STScI/AURA)


La Guantanamo di Israele


Situato in una località segreta nel centro dello stato ebraico, inaccessibile tanto ai deputati della Knesset che agli operatori della Croce rossa, il carcere di massima sicurezza 1391 è riservato ai detenuti politici palestinesi e libanesi, con condizioni di detenzione al limite della sopportazione umana. Esiste da una ventina d'anni, ma tutti ne erano all'oscuro
MICHELE GIORGIO
GERUSALEMME
Non ha un nome ma soltanto un numero di identificazione: 1391. Si trova in una località nella parte centrale del paese, non lontano da una superstrada. Di più non si sa, o meglio, non è consentito riferire altri particolari perché ufficialmente la prigione 1391 non esiste. Non è segnata neppure sulle mappe ufficiali di Israele. Le foto scattate da satelliti e aerei nel punto dove è situata la prigione mostrano solo un puntino bianco. E' la «Guantanamo» di Israele, un carcere di massima sicurezza rimasto segreto per una ventina di anni di cui persino ex ministri e alti ufficiali ignoravano l'esistenza, o almeno così sostengono. A svelare questo segreto che apre un nuovo inquitetante capitolo sulla violazione dei diritti umani nello stato che si definisce l'unica democrazia del Medioriente, è stato il più autorevole dei quotidiani israeliani, Haaretz. Nei giorni scorsi Haaretz ha pubblicato la prima parte di un lungo dettagliato servizio firmato dal giornalista Aviv Lavie che per e professionalità e coraggio dimostrato merita un plauso. Dell'esistenza di questa prigione era all'oscuro, ad esempio, l'ex ministro della giustizia (ai tempi di Yitzhak Rabin) David Libai. Un altro ex ministro della giustizia, Dan Meridor, invece ha ammesso di aver sempre saputo della 1391 ma di non averla mai visitata. Nei giorni scorsi la parlamentare del Meretz (sinistra sionista) Zahava Gal-On ha chiesto di poter entrare nella prigione ma non è stata ancora autorizzata.

«I detenuti, tenuti bendati e ammanettati in celle buie, non sanno dove si trovano, non possono ricevere visite», ha scritto Lavie nel suo servizio sottolineando che persino la Croce rossa internazionale non ha accesso in questo luogo segreto in violazione di accordi internazionali. Nel carcere di massima sicurezza 1391, situato al centro di una base militare dell'esercito israeliano, i prigionieri vivono in celle di 2,5x2,5 metri. Solo i personaggi «illustri» hanno diritto a più spazio (2,5x4 metri). Le celle di isolamento invece sono grandi non più di 1,5x1,5 metri. I gabinetti sono un lusso, un buco nel pavimento è il water migliore che il carcere può offrire. I detenuti ogni giorno hanno diritto ad un'ora all'aria aperta. Il resto del tempo lo passano in locali senza finestre e con la luce artificiale. I pasti sono simili a quelli dei soldati di guardia. Tre volte al giorno un militare bussa alla porta delle celle, i detenuti si coprono il capo e il volto con un sacco e alzano le mani verso l'alto, poi ricevono il cibo. Gli interrogatori sono durissimi e affidati a uomini dell'intelligence militare (la famigerata unità 504 che in passato ha operato soprattutto in Libano) anche se lo Shin Bet (il servizio segreto interno) ha fatto ampio uso di questo carcere segreto da quando è cominciata la nuova Intifada. Le testimonianze raccolte da Lavie tra alcuni dei soldati che hanno prestato servizio nella prigione 1391, confermano abusi e torture.

Ma chi sono i prigionieri? Questo è uno degli interrogativi ai quali il servizio pubblicato da Haaretz risponde solo in parte. Non è ben chiaro chi siano i palestinesi che vi sono rinchiusi, forse sono i capi di cellule armate arrestati nei Territori occupati nei tre anni di Intifada. E'certo invece che la prigione 1391 ha ospitato e ospita ancora prigionieri libanesi, in particolare lo sceicco Abdel Karim Obeid e l'ex comandante militare sciita Mustafa Dirani. Entrambi sono stati rapiti in Libano rispettivamente nel 1989 e nel 1994 allo scopo di ottenere, in cambio della loro liberazione, informazioni sulla sorte o il rilascio di soldati israeliani scomparsi in azione, a cominciare dal pilota navigatore Ron Arad. Obeid, un leader spirituale con grande seguito tra gli sciiti libanesi, ha lasciato la sua cella la prima volta dopo 13 anni per ragioni di salute e per ascoltare le decisioni della Corte suprema sulla sua richiesta di scarcerazione (respinta). A far compagnia a Obeid è stato per ben 11 anni Hashim Fahaf, un giovane che si trovava per caso nella abitazione dello sceicco la sera del suo rapimento e che per ritornare a casa (assieme ad altri 18 libanesi mai processati) ha dovuto aspettare 11 anni e una sentenza della Corte suprema israeliana.

Dirani e Obeid non sono più nella 1391. Si trovano ora nella prigione di Ashmoret, nei pressi di Kfar Yona a nord di Tel Aviv. La vicenda di Dirani, in modo particolare, ha superato il livello politico e diplomatico per diventare uno dei casi più gravi di violazione di diritti umani e abusi gravissimi subiti da un detenuto in Israele. Dirani ha accusato uno degli ufficiali responsabili degli interrogatori, noto con il nome di George, di averlo fatto violentare da un soldato e di averlo torturato ferocemente fino ad arrivare al punto da inserirgli un bastone nel retto. George ha respinto queste accuse ma diversi soldati che hanno prestato servizio nella prigione segreta hanno riferito che era pratica comune costringere i prigionieri a spogliarsi e minacciarli di violenze sessuali. Della vicenda si sta ora occupando la magistratura israeliana. George comunque è stato costretto a lasciare l'esercito. Una «punizione» che i suoi commilitoni, ha scritto Haaretz, hanno giudicato «eccessiva» poiché «non è giusto» che a pagare sia soltanto una persona per ciò che hanno pianificato e messo in atto molti altri.


il manifesto - 27 Agosto 2003












lunedì 25 agosto 2003

IL SUTRA DEL LOTOdel Buddha e per questo ogni essere è degno di rispetto.



Frontispiece to Chapter Four
Lotus Sutra Scroll, Heiam Period, Japan. 1164 C.E.





potenzialità


Il fondamento centrale del Sutra è che ogni essere ha in sé la

Ha'aretz - August 23, 2003


L'incubo continua in Palestina


The Nightmare Continues in Palestine - The generation that "doesn't know Joseph"


by Gideon Levy


TEL AVIV - Il contatto di Israele con la prossima generazione di quei Palestinesiche sono cresciuti sotto l'occupazione e i loro sforzi per fare la pace con loro, sarà molto più problematico che con la generazione che l'ha preceduta. Questo è qualcosa di cui dobbiamo essere consapevoli e di cui dobbiamo tener conto. Nessuna generazione passata è cresciuta in condizioni così severe come come quelle che hanno afflitto i membri della generazione attuale nei territori. Certamente, non vi è posto alcuno nel mondo Occidentale, in cui i bambini vivano in condizioni simili. Un anno fa un rapporto dell'USAID, la U.S. Agency for International Development, ha scoperto che un quarto dei bambini nei territori soffre di malnutrizione, sia prolungata sia passeggera. Un'agenzia delle Nazioni Unite ha scoperto nello stesso tempo che il 62% dei Palestinesi non ha avuto sufficiente accesso al cibo. Da allora, la situazione si è soltanto aggravata. Un simile stato di cose esiste nel sistema sanitario, in cui ogni trattamento medico, incluse le vaccinazioni e il primo soccorso, sono un complicato e, a un tempo, impossibile processo burocratico. [...]



Ma a questi bambini non mancano soltanto il cibo e la salute fisica. Da Jenin a Rafah centinaia di migliaia di bambini stanno soffrendo per traumi psicologici il cui impatto è difficile da valutare. Questi sono bambini che, negli ultimi tre anni, sono stati esposti in dosi spaventose alla morte, alla distruzione, agli spari, a tanks nelle strade, soldati che invadono le loro case nel mezzo della notte, arresti, percosse e diverse forme di umiliazione ...


Questi bambini stanno crescendo con deprivazioni che genitori o bambini Israeliani difficilmente possono immaginare. [...] Alcuni di loro non hanno potuto lasciare le loro case per mesi, o i loro villaggi per anni.



"La non violenza non è sterile passività, ma una potente forza morale


con cui attuare una trasformazione sociale"


Martin Luther King


venerdì 22 agosto 2003

I TITOLI DI DOMANI SCRITTI OGGI ...


PRIMA DI SERA



da LA STAMPA - 22 Agosto 2003 (a che ora?)



IL SINDACO ULIVISTA DELLA CITTÀ VENETA ASSICURA
NON CI SARANNO PROTESTE ORGANIZZATE


Berlusconi sfida le contestazioni nell’«Arena»
Il presidente del Consiglio assisterà oggi alla Carmen
con Schroeder a Verona
di Ugo Magri


ROMA. Ci sarà stasera la grande contestazione dell’Arena?


Oppure Silvio Berlusconi trionferà in un mare di applausi?


Nessuno, proprio nessuno, può prevedere che cosa accadrà verso le 21 a Verona, quando il presidente del Consiglio


si affaccerà sul palco d’onore insieme col Cancelliere tedesco Gerhard Schroeder e col presidente della Commissione


Europea, Romano Prodi. Avrà davanti un pubblico di quasi 20 mila spettatori, in buona parte stranieri, prenotati da lungo


tempo per godersi la Carmen di Bizet nella scenografia di Franco Zeffirelli.


Impensabile una claque organizzata dai contestatori del premier (o dai supporter di Forza Italia).


Il pubblico reagirà in base ai propri insondabili umori.


E detterà i titoli di domani.


I titoli di domani sono già stati scritti oggi, caro Ugo Magri.


Visto com'è imprevedibile la vita?


LA SINDROME DI DON ABBONDIO E' IN AGGUATO


QUANDO DA SEMPRE SI EVITA


OGNI POSSIBILE CONFRONTO ...


CON CHIUNQUE, DAGLI AVVERSARI POLITICI AI GIUDICI E COSI' VIA.






Prime Minister Silvio Berlusconi of Italy has a way with words.



A Virtuoso at Playing the Press in Italy


By ALESSANDRA STANLEY


L'Europa non ha un leader più satireggiato del Primo Ministro Italiano Silvio Berlusconi, che recentemente ha fatto notizia paragonando un collega Tedesco nel Parlamento Europeo a un kapo dei campi di concentramento nazisti. Questo self-made media tycoon ha sempre avuto uno strano stile con le parole.


"L'America? Io amo l'America", ha detto a un reporter Americano nel mezzo della sua campagna elettorale del 2001. "Io sono da qualsiasi parte l'America stia, ancora prima di sapere di cosa si tratta".


Un'idea del potere e follia di Mister Berlusconi è possibile farsela guardando stanotte "Wide Angle", un programma sttimanale PBS sugli affari internazionali. Questo episodio, intitolato "Il Primo Ministro e la Stampa" mette a fuoco come il controllo di Mr. Berlusconi sulla televisione Italiana abbia ostacolato la libertà di stampa in Italia. La sua media company, Mediaset, controlla tre principali canali privati, mentre il suo governo sorveglia i tre canali state-controlled.


Già basita per quanto letto su un quotidiano straniero come THE NEW YORK TIMES, stampo il resto dell'articolo in lingua originale. Domanda: "Ma ce l'hanno tutti con noi, in quanto guidati da Berlusconi?"



No politician looks statesmanlike while singing and waving flags at his own campaign rallies, and Mr. Berlusconi, 66, who was a crooner on a cruise ship in college and used his soccer team, A.C. Milan, to start his political career, has more embarrassing news clips than most. He has also been dogged by charges of corruption for more than a decade and has just won passage of a law in Parliament that grants him immunity from prosecution while in office, derailing a trial he was facing in Milan. Italian politics, as minor league as they are baroque, are more easily mocked than explained.


To their credit, the producers resist the temptation to paint Mr. Berlusconi as a buffoon or a Mussolini Mini-Me. Yet that same Anglo-Saxon sense of fairness and restraint is also a liability. It is a trusting world view that cannot quite capture what is different about Italian journalism and Italian society and why it is that Mr. Berlusconi gets away with such outlandish statements and acts.


The Italian press is not built on the American model. As in many other European countries, only more so, Italian newspapers and magazines are ideological and opinionated, and facts are not always ruthlessly checked.


With a few exceptions the Italian media are not fair, balanced or tenacious. They were noisy but pliant under previous governments, and they are now ill-prepared to fend off the far more shameless incursions of the current prime minister.


"Wide Angle" persuades viewers that the Italian prime minister is bad news for the press. But by casting Italian journalists as oppressed champions of free speech and fairness, "Wide Angle" misses the chance to explain why in some ways the Italian press got the prime minister it deserves.


The clues are there, however. The documentary focuses extensively on Mario Travaglio, a young, slim reporter who is introduced by the narrator as "one of Italy's most respected investigative reporters."


Mr. Travaglio could more accurately be described as one of Italy's few investigative reporters. It is not a crowded field. Mr. Travaglio is a dogged muckracker. His book "The Odor of Money" charges that Mr. Berlusconi's first real estate ventures in the 1970's relied on financing from associates with mob ties, a rumor that has floated around the billionaire for years but that has not been upheld in any of his trials on charges of financial misconduct.


The documentary does not point out until much later that Mr. Travaglio is also a correspondent for L'Unità, which it describes as a "small, leftist paper." L'Unità was once the newspaper of the Communist Party and the most powerful left-wing news organization in Italy. It is small, and foundering, but it is still financed by an offshoot of the old Communist Party, the Democrats of the Left, which is the main opposition party to Mr. Berlusconi.


That does not mean Mr. Travaglio's reports about Mr. Berlusconi's misdeeds are wrong. Instead it suggests what the documentary leaves out: that investigative reporting in Italy is so difficult and so unrewarding (Mr. Berlusconi in particular sues critics with abandon) that only the most passionate and partisan journalists make the effort.


The most respected investigative reporting on Mr. Berlusconi is not in any Italian publication but in The Economist, which in its Aug. 2 issue published an open letter to Mr. Berlusconi demanding answers to 28 questions about his 1985 financial dealings that were to have been raised in court before the immunity law was passed. The Economist justifies its zeal by citing Mr. Berlusconi as "Europe's most extreme case of the abuse by a capitalist of the democracy within which he lives and operates."


The documentary rightly points out that after the election some television personalities lost their jobs at the state-controlled network RAI for criticizing Mr. Berlusconi on the air just before the voting. But it takes too seriously the whining of RAI reporters who evoke a dark conspiracy of advertisers and executives at Mr. Berlusconi's Mediaset for RAI's declining ratings.


Mediaset was outperforming RAI long before Mr. Berlusconi took office for the simple reasons that its programming was flashier and better and its operations more modern and more efficient.


The documentary often quotes Enzo Biagi, 83, one of the television commentators who was taken off the air after criticizing Mr. Berlusconi. He is a symbol of respectable Italian journalism, but he is also a reminder of the gerontocracy that still controls Italy media and much more; the documentary is packed with trim, elderly experts who are a tribute to the Mediterranean diet and mandarin rule. And there is far less mobility and opportunity in academia or medicine than there is in journalism. Even business is still in the grip of spritely elders.


Mr. Berlusconi won the 2001 election for many reasons, but one that is often discounted is that he promised sweeping change to a country that badly needs it. "Wide Angle" does a good job of illustrating how he has instead made sweeping changes that suit his own interests. The show has a harder time explaining to an American audience how he got there in the first place.


THE NEW YORK TIMES - 21 AGOSTO 2003

giovedì 21 agosto 2003

THE NEW YORK TIMES - 21 AGOSTO 2003


Herbert: Fiasco in Iraq


A Price Too High


By BOB HERBERT


How long is it going to take for us accorgerci che la guerra che così assurdamente abbiamo cominciato in Iraq è a fiasco — tragico, profondamente disumanizzante e e in definitiva invincibile? Quanto tempo e quanto money and quante vite sprecate is it going to take?


Alle Nazioni Unite ieri, addolorati diplomatici hanno parlato amaramente, but not for attribution, a proposito dell'invasione e dell'occupazione sotto il comando US. Hanno detto che si è risolto non solo nelle morti violente di amici e rispettati colleghi, ma ha anche galvanizzato gli elementi più radicali dell'Islam.


"Questo è un sogno per la jihad," ha detto un funzionario ONU di alto rango. "The resistance will only grow. The American occupation is now the focal point, drawing people from all over Islam into an eye-to-eye confrontation with the hated Americans.


"It is very propitious for the terrorists," he said. "The U.S. is now on the soil of an Arab country, a Muslim country, where the terrorists have all the advantages. They are fighting in a terrain which they know and the U.S. does not know, with cultural images the U.S. does not understand, and with a language the American soldiers do not speak. The troops can't even read the street signs."


The American people still do not have a clear understanding of why we are in Iraq. And the troops don't have a clear understanding of their mission. We're fighting a guerrilla war, which the bright lights at the Pentagon never saw coming, with conventional forces.


Under these circumstances, in which the enemy might be anybody, anywhere, tragedies like the killing of Mazen Dana are all but inevitable. Mr. Dana was the veteran Reuters cameraman who was blown away by jittery U.S. troops on Sunday. The troops apparently thought his video camera was a rocket-propelled grenade launcher.


The mind plays tricks on you when you're in great danger. A couple of weeks ago, in an apparent case of mistaken identity, U.S. soldiers killed two members of the Iraqi police. And a number of innocent Iraqi civilians, including children, have been killed by American troops.


The carnage from riots, ambushes, firefights, suicide bombings, acts of sabotage, friendly fire incidents and other deadly encounters is growing. And so is the hostility toward U.S. troops and Americans in general.


We are paying a terribly high price — for what?


One of the many reasons Vietnam spiraled out of control was the fact that America's top political leaders never clearly defined the mission there, and were never straight with the public about what they were doing. Domestic political considerations led Kennedy, then Johnson, then Nixon to conceal the truth about a policy that was bankrupt from the beginning. They even concealed how much the war was costing.


Sound familiar?


Now we're lodged in Iraq, in the midst of the most volatile region of the world, and the illusion of a quick victory followed by grateful Iraqis' welcoming us with open arms has vanished. Instead of democracy blossoming in the desert, we have the reality of continuing bloodshed and heightened terror — the payoff of a policy spun from fantasies and lies.


Senator John McCain and others are saying the answer is more troops, an escalation. If you want more American blood shed, that's the way to go. We sent troops to Vietnam by the hundreds of thousands. There were never enough.


Beefing up the American occupation is not the answer to the problem. The American occupation is the problem. The occupation is perceived by ordinary Iraqis as a confrontation and a humiliation, and by terrorists and other bad actors as an opportunity to be gleefully exploited.


The U.S. cannot bully its way to victory in Iraq. It needs allies, and it needs a plan. As quickly as possible, we should turn the country over to a genuine international coalition, headed by the U.N. and supported in good faith by the U.S.


The idea would be to mount a massive international effort to secure Iraq, develop a legitimate sovereign government and work cooperatively with the Iraqi people to rebuild the nation.


If this does not happen, disaster will loom because the United States cannot secure and rebuild Iraq on its own.


A U.N. aide told me: "The United States is the No. 1 enemy of the Muslim world, and right now it's sitting on the terrorists' doorstep. It needs help. It needs friends."








mercoledì 20 agosto 2003

Un albero di Annibale Carracci


TERRORISMO IN CRESCENDO


VITTORIO ZUCCONI ha fatto un' interessante analisi dell'atroce situazione di un terrorismo in


crescendo nel nostro mondo. Non ho capito se il titolo è tragicamente ironico o altro, perché


"il calvario" è di tutti nel mondo a causa della protervia dell'amministrazione Bush, e, per


la verità, è anche dei cittadini/e USA, che però possono liberarsene il prossimo anno.


Da ricordare che anche adesso ci sono molti estremi per una richiesta di impeachment,


a cominciare dalle menzogne con cui Bush ha imposto la sua politica di guerra.


LA REPUBBLICA - 20 AGOSTO 2003


Il calvario americano sul fronte di Bagdad


di VITTORIO ZUCCONI









Il quartier generale Onu
colpito ieri a Bagdad

CON la facile vigliaccheria del terrorismo, che colpisce bersagli "morbidi" e poi lascia alle vittime la fatica di trovare il movente tra le bare, i signori del caos hanno colpito il simbolo della pace a Bagdad, gli inviati dell'Onu, gli impiegati iracheni e il capo missione, il brasiliano Sergio de Mello. "Non ci distoglieranno dall'obbiettivo di costruire un Iraq libero e democratico, non riporteranno quel popolo ai tempi della tortura e delle fosse comuni, la nostra volontà non può essere scossa", risponde Bush costretto a interrompere una partita a golf e a indossare il completo blu di ordinanza, in queste sue ferie di lavoro tormentate da misteriosi oscuramenti e ora da due stragi simultanee a Bagdad e a Gerusalemme, e le sue sono parole giuste quanto ovvie. La notizia vera è che non era mai accaduto, neppure in Medio Oriente, che un edificio civile con la bandiera blu delle Nazioni Unite diventasse bersaglio di un attentato selvaggio come questo. La guerra in Iraq ha fatto un altro scatto in avanti. E il cammino della road map verso la pace ne ha fatto uno indietro. Ha ragione quindi Kofi Annan quando dice che ieri è stata oltrepassata un'altra "linea rossa" nella escalation. Ma se è difficile capire chi muova questi assalti, oltre le banalità ormai improponibili dei "resti del regime" e della caccia superstiziosa al simulacro di Saddam, l'intenzione di chi ha finora ucciso 312 militari alleati (Cnn) e ieri ha devastato il quartiere generale Onu nella capitale è evidente: contrastre l'ottimismo ufficiale di Bush e del proconsole Bremer e dimostrare che le "cose" in Iraq non vanno un po' meglio, ma un po' peggio, ogni giorno.


L'autobomba di ieri, come il tiro al piccione quotidiano su militari e cittadini, sono il controcanto della guerriglia irachena a ogni tentativo di raccontare all'opinione americana la storia rassicurante di un malato certo grave, ma in via di miglioramento. La formula adottata dalla Casa Bianca e assimilata anche dai sostenitori più onesti e perciò più preoccupati, della guerra, è quella del mezzo bicchiere pieno. Si considera il male come un prezzo necessario da pagare per smuovere la stagnazione teocratica e oscurantista che ha afferrato il mondo arabo e si cercano le buone notizie tra la macerie e le body bags. L'ultima buona notizia era stato il riluttante riconoscimento offerto dal Palazzo di Vetro al consiglio di governo insediato dal governatore americano. E infatti, nel giro di poche ore, la guerriglia ha demolito proprio il quartier generale dell'Onu a Bagdad.

La teoria un po' disperata che circola oggi a Washington, nel dubbio strisciante che non esista una soluzione militare
all'aggressione globale del terrorismo, è lo scenario della "carta moschicida" su un fronte unico. È la speranza che la occupazione dell'Iraq attiri terroristi da tutto il mondo, concentrandoli o, dove potranno essere inchiodati e distrutti in un Armageddon finale dalla potenza di fuoco americana, anziché inseguirli uno per uno dal Marocco all'Indonesia. Ma il rischio implicito, in questo scenario che sa di wishful thinking, di ottimismo autoillusorio, è che le cellule risucchiate nel buco nero iracheno si saldino con l'irredentismo autoctono e trasformino gli attacchi sporadici in guerriglia sistemica. Si profila una verità molto diversa dalla propaganda pre bellica: che non fosse stato affatto Saddam, ma sia stata invece la caduta di Saddam, a portare Al Qaeda in Iraq. Sperando davvero che quelle millantate armi di distruzione di massa non ci fossero.

Il camion bomba contro il "Canal Hotel" di Bagdad è già il segno di una intelligenza canagliesca e coerente. Il controcanto dei signori del disordine scatta infatti sempre puntuale. La tragedia è l'acqua che scarseggia, nei 50 gradi di aridità? Appena un filo d'acqua torna a scorrere nelle cucine, una bomba fa saltare l'acquedotto principale. Il petrolio promette 7 milioni di dollari al giorno per la ricostruzione e per le compagnie petrolifere americane? E infatti i sabotatori fanno saltare l'oleodotto nel nord.

Qualcuno dà ordini, sa farli arrivare, guarda le tv satellitari, sa che il massacro degli impiegati blu avrebbe occupato i teleschermi di tutto il mondo, anche se in una competizione infernale con altre immagini da Israele. Come ripete da mesi Thomas Friedman, e ha raccontato per questo giornale Vargas Llosa da Bagdad, la vera guerra è in corso adesso, ed è cominciata con l'ingresso troppo facile della Terza Divisione nella capitale abbandonata. Ma in questa guerra, che ormai anche la senatrice repubblicana Kay Hutchinson, sorpresa ieri in visita all'Iraq vede in piena escalation, Bush e i consiglieri fino a ieri tanto superbi, non hanno una strategia che non sia l'ottimismo, e non hanno armi, che non sia la spremitura di truppe stanche, sempre rifiutando di tornare all'Onu per chiedere la legittimazione internazionale alla guerra.

L'ostinazione ideologica e arrogante di questa Casa Bianca, nel respingere il ritorno al multilateralismo per non pagare un piccolo pedaggio di prestigio, appare sempre più autolesionista, visto che in Iraq non è in gioco soltanto la rielezione di Bush nel 2004, che è affare di Bush, ma il futuro dei rapporti tra l'Occidente e l'Oriente, che è affar nostro. L'impressione che si rinnova ogni mattina al momento di sintonizzare le tv sul tavolo del breakfast, è che questa amministrazione stia di fronte al calvario iracheno come sta di fronte al blackout che ha inghiottito 50 milioni di americani, annaspando in preda al dilettantismo civile, dopo tanto show di professionismo militare. Quanto più chiara si fa la strategia dei signori del disordine, tanto più vaga si fa quella dei portatori del "nuovo ordine" costretti a inseguirli. Ha osservato James Rubin, ex assistente segretario di Stato fino al 1998: "Era così difficile prevedere che la guerriglia avrebbe colpito l'Onu a Bagdad, dopo il riconoscimento dato al consiglio di governo insediato da noi americani?". Doveva esserlo, perché a guardia di quel palazzo c'erano due fantaccini armati di fucile automatico M16, nonostante Sergio Vieira de Mello, il capo missione ucciso, avesse da tempo implorato il Central Command di proteggerlo meglio.

Scoprire oggi che il caos iracheno si è trasformato in una calamita per il terrorismo islamico e in un terreno di esercitazione per Al Qaeda, è un'ammissione di stupefacente imprevidenza politica e un ennesimo fallimento di intelligence. Ripetere che gli assassini degli impiegati e degli inviati dell'Onu sono "nemici del popolo iracheno", come ha fatto Bush, è una giaculatoria alla quale i padroni del disordine rispondono con il contrappunto delle bombe. Non serve più che Bush ci ripeta che i terroristi sono vili e crudeli, ma che dica all'Onu
e al Congresso americano, quali siano il progetto, tempi, i preventivi finanziari e umani del "contratto con l'Iraq".

"La scelta appartiene al popolo iracheno", diceva ieri, ma non è stato il popolo iracheno a scegliere di essere invaso da una potenza straniera che ora ha la piena e completa responsabilità legale di tutto quanto accade nella terra occupata. La teoria della "carta moschicida" può anche essere corretta. Ma quali mosche resteranno con le zampe appiccicate all'Iraq?

(20 agosto 2003)


















lunedì 18 agosto 2003


ANCORA UN GIORNALISTA UCCISO "PER ERRORE"


DA SOLDATI USA


 MAZEN DANA, CAMERAMAN DELLA REUTER


Sun August 17, 2003 04:59 PM ET


da L'UNITA' - 19 Agosto 2003


Esteri


Iraq, i colleghi del giornalista ucciso: «Sapevano chi era, hanno sparato lo stesso»
di red.


Proteste in tutto il mondo per l'uccisione di Mazen Dana, il giornalista della Reuters morto domenica per un colpo di mitragliatrice sparato da un carro americano mentre faceva delle riprese nei pressi di Baghdad. Per il comando Usa la sua telecamera è stata scambiata per un lanciarazzi. Ma un tecnico che lo accompagnava sostiene che i soldati sapavano beniossimo che era un giornalista: «Ci avevano visto e conoscevano le nostre identità». Molte organizzazioni internazionali chiedono un'inchiesta severa sul fatto. Dana, che era palestinese, era stato ferito 16 volte e picchiato molte volte durante il suo lavoro.







Irak18.08.2003

Reporters sans frontières atterrée et choquée par la mort d'un cameraman de Reuters en Irak

Dans une lettre adressée le 18 août 2003 au secrétaire d'Etat américain à la Défense, Donald Rumsfeld, Reporters sans frontières s'est dite "atterrée et choquée" par la mort, le 17 août 2003, de Mazen Dana, cameraman travaillant pour Reuters en Irak. L'organisation de défense de la liberté de la presse a demandé l'ouverture immédiate d'une enquête "honnête et rapide, visant non pas à blanchir l'armée américaine mais à faire toute la lumière sur ce drame".


"Non seulement de très nombreuses bavures ont été commises par les troupes américaines durant la guerre, mais - à ce jour - celles-ci n'ont pas fait l'objet d'investigations dignes de ce nom," a déclaré Robert Ménard, secrétaire général de l'organisation. "La prétendue enquête du Pentagone sur le tir d'obus contre l'hôtel Palestine, le 8 avril, disculpe de manière éhontée l'armée américaine. Seules les conclusions, peu convaincantes, ont été rendues publiques, alors que l'intégralité du rapport n'a pas été communiqué", a-t-il ajouté avant de poursuivre : "Dans des cas isolés, nous avons constaté l'hostilité des soldats envers les professionnels des médias. De tels comportements sont inadmissibles et doivent être punis. Il est primordial que des instructions claires et des appels à la prudence soient donnés aux militaires sur le terrain afin de respecter la liberté de mouvement et de travail des journalistes en Irak."


Mazen Dana, 43 ans, de nationalité palestinienne, a été tué par balles par un soldat américain alors qu'il filmait pour le compte de l'agence de presse britannique Reuters, le 17 août dans l'après-midi, la prison Abou Ghraib, dans la banlieue de Bagdad. D'après les déclarations du capitaine américain Frank Thorp, le jour même à Washington, une erreur de jugement serait à l'origine du drame. Le cameraman de Reuters aurait été pris pour cible, sa caméra ayant été confondue avec un lance-roquettes. D'après le preneur de son de Reuters, Nael Choukhi, qui accompagnait Mazen Dana au moment où celui-ci a été tué, les soldats avaient vu et reconnu les journalistes. Ces derniers avaient préalablement demandé l'autorisation de filmer aux troupes américaines gardant la prison.


Cette mort porte à onze le nombre de journalistes tués en Irak dans des circonstances directement liées à la guerre. Mazen Dana est le deuxième cameraman de Reuters tué par les forces américaines en Irak. Taras Protsyuk, de nationalité ukrainienne, avait été tué le 8 avril lorsqu'un char Abrams avait tiré un obus sur l'hôtel Palestine qui abritait de très nombreux journalistes de la presse internationale à Bagdad.


Au total, dix-sept journalistes sont décédés alors qu'ils couvraient le conflit en Irak. Deux journalistes travaillant pour la chaîne britannique ITN, le cameraman français Fred Nérac et l'interprète libanais Hussein Othman, sont portés disparus depuis les premiers jours de la guerre, le 22 mars 2003.
















domenica 17 agosto 2003

TIBET  LIBERO


 



TCHRD is a Tibetan NGO that investigates the human rights situation in Tibet and presents this information internationally in various fdemocracy within the Tibetan community.


venerdì 15 agosto 2003

LARUS   MARINUS    ( serio  e  intento  a ... ?



... guardare  l'alba? ...


... e,  nell'alba,  la  sua  compagna? )


giovedì 14 agosto 2003


ESISTE LETIZIA PIU' GRANDE?


 


UN VOLO, UN VOLO


CONCORDI SONO


NELLA PERFETTA ARMONIA DELLA NATURA


FIDELIS AMORIS EXEMPLUM INSIGNE

TERRA SOTTO OSSERVAZIONE A WASHINGTON



da Economist.com Thursday August 14th 2003

mercoledì 13 agosto 2003

   VOGLIA DI BIANCO E DI PULIZIA


DOPO LA MORTALE VISIONE DELLA VIOLENZA


VIOLENZA CONTRO LE ANIME, VIOLENZA CONTRO I CORPI


VIOLENZA CONTRO LA VITA E LA GIUSTIZIA


    UNA CASCATA D'ACQUA


PER CANCELLARE LE MENZOGNE E LA VOLONTA' DI MORTE


DI POTENTUCOLI IMPOTENTI E SENZA FANTASIA, POVERI


PICCOLI BUGIARDI SERVI DI OPERE MALEFICHE SENZA DURATA


E SENZA ONORE.


     UN TEMPIO


SI PUO' PRETENDERE CHE I COSIDDETTI "POTENTI"


TENGANO CONTO DI CIO' CHE DI SACRO C'E' AL MONDO?


PER CARITA', NO, MA UN MINIMO DI "RELIGIO NATURALIS",


QUELLA COSA SENZA LA QUALE NON SO COME SI FACCIA A


TORNARE A CASA E GUARDARE FIGLI/E E NIPOTI. CHE DIAMINE!


  con un loto di pace


harmonia indignata




Criticare Israele è antisemita?


Parla Hajo Meyer,ebreo tedesco,sopravissuto ad Auschwitz,disgustato dalla politica israeliana


SVEVA HAERTTER


Hajo G. Meyer nasce nel 1924 a Bielefeld in Germania. Nel 1939 fugge in Olanda


con un Kindertransport ed inizia una lunga trafila che va dai campi profughi al


lavoro come bracciante e poi come meccanico. Nel 1943 riesce a sostenere gli


esami di maturità, si nasconde, ma nel marzo del 1944 viene catturato e


deportato ad Auschwitz. Riesce miracolosamente a sopravvivere e tornato


in Olanda si laurea in fisica teorica. Diventa direttore della ricerca in una


grossa azienda olandese. Dal 1984 è in pensione, lavora come liutaio e


da due anni è attivo come pubblicista. Hajo fa parte del gruppo olandese


«Een Ander Joods Geluid» (un'altra voce ebraica), uno dei gruppi che compongono


«European Jews for a Just Peace» (Ejjp). Durante l'incontro del marzo scorso a


Bruxelles, Hajo era il più acceso sostenitore della necessità di un intervento di


Ejjp per denunciare la strumentalità delle accuse di antisemitismo rivolte contro


chiunque critichi la politica del governo israeliano.

Cosa pensi dell'esito dell'incontro tra Bush e Sharon? Bush inizialmente chiedeva di


interrompere la costruzione del muro, invece è passata la linea di Sharon.

...parlare di Road Map sembra un circo. Non ha niente a che vedere con la realtà


dei fatti, con la dura realtà che vivono gli israeliani ed i palestinesi.


Soprattutto i palestinesi.

Sei andato di persona a vedere il muro che è in costruzione?

È terribile. Vedi larghe strisce di terreno dove sono stati abbattuti ulivi secolari


a centinaia, distrutti gli impianti di irrigazione. È incredibile quello che succede e la


crudeltà in cui si manifesta l'occupazione. Pensa a quegli schifosi dei coloni che


non si degnano nemmeno di costruire fogne per la propria merda e la scaricano


direttamente nei wadi palestinesi. Sono barbari. E della peggior specie.


Durante l'incontro pare che Sharon abbia detto che per fare dei buoni vicini,


prima di tutto ci vuole un buon recinto. Ma non se serve ad appropriarsi di


metà del giardino dell'altro e magari anche di un pezzo della sua casa.


Così si diventa nemici per l'eternità. Se il muro seguisse un percorso rettilineo


a ridosso della linea verde e servisse veramente a garantire la sicurezza potrebbe


anche andare, ma in realtà serve ad isolare le città palestinesi e ad annettere gli


insediamenti ad Israele. Espropriare terre e pozzi non c'entra niente con la sicurezza.


Queste cose vanno dette con chiarezza e denunciate.

Ma c'è chi accusa di antisemitismo coloro che criticano le scelte del governo israeliano.

Questa è la più grossa sciocchezza della storia mondiale. Per 2000 anni gli ebrei sono


stati odiati per il solo fatto di esistere. Le teorie razziali servivano a dimostrare che


gli ebrei erano intrinsecamente cattivi, gli ebrei e tutto quello che facevano.


Hitler li accusava di tutto e del contrario di tutto, di essere capitalisti e di essere


bolscevichi. Ricordo quando prendevamo il tram con mio padre e lui diceva


«Bambini parlate piano, altrimenti la gente dice che gli ebrei fanno sempre casino».


Il poveretto non pensava al fatto che appena iniziavamo a parlare sottovoce, la


gente diceva «Questi ebrei! Hanno sempre qualcosa da nascondere».


Questo è il vero antisemitismo e non ha nulla a che fare con Israele.


Israele è vicino agli Usa che sono la più grossa potenza in assoluto ed


Israele stesso è una potenza mondiale. Usare strumentalmente accuse di


antisemitismo per tacitare critiche contro la sua politica significa abusarne


per eliminare il diritto di mettere in discussione le scelte di uno dei Paesi più potenti del mondo.

Ma esiste anche un modo sbagliato di criticare Israele, a volte si sentono cose che


rasentano l'antisemitismo o che risultano semplicemente provocatorie.


Cosa pensi ad esempio delle equiparazioni con il nazismo?

So di cosa parli e devo confessarti che il paragone non mi turba più di tanto.


Il problema è che la maggior parte delle persone, quando sentono parlare di


nazismo pensano ai campi di sterminio. Ma il nazismo non è stato solo questo.


Quando vedo i palestinesi in fila ai check-points penso sempre a tutte le


angherie e umiliazioni che ho subito da ragazzo in Germania ben


prima di essere deportato.

A Bruxelles abbiamo discusso molto del boicottaggio... Per il Sudafrica è stato uno


strumento importante, ma si tratta di porre delle priorità. Per esercitare una pressione


reale è molto meglio la sospensione del trattato di associazione Ue-Israele.

Qui in Italia un'associazione ha manifestato davanti ad un supermercato a


sostegno del boicottaggio.


Per attirare l'attenzione c'era una bambina su una croce.

No, questo proprio no. È inaccettabile. E' un uso orrendo degli stereotipi più


schifosi dell'antisemitismo. Che c'entra lo stato di Israele con Gesù?


Questo è un chiaro esempio dell'antisemitismo che ti


ho descritto prima. Il peggiore.

Quindi esistono modi «giusti», utili, di criticare Israele e di impostare


campagne a sostegno del popolo palestinese, e modi sbagliati.

Te lo spiego così: tutti i cavalli bianchi sono cavalli, ma non tutti i cavalli sono


bianchi. Tutti gli antisemiti criticano Israele (magari non in pubblico), ma non


tutti quelli che criticano Israele sono antisemiti.


Per una critica efficace e seria, parlare dei fatti basta e avanza.


Succedono cose terribili, crimini di guerra, violazioni dei diritti


umani. Queste sono le cose da denunciare con forza, prendendo le distanze dalla


politica di Sharon. La critica serve e deve essere visibile, pubblica.


Chi tace acconsente.


da





il manifesto - 13 Agosto 2003 - pag. 5


Gli uomini onesti come Hajo G. Meyer sono molti in tutto il mondo e


ci incoraggiano a testimoniare la giustizia e l'ingiustizia.


Le posizioni di Hajo G. Meyer sono trasparenti, perché


egli non mescola fatti diversi per creare confusione nelle coscienze. ù


Le sottolineature sono mie.


harmonia